Per tutta la vita ha cercato di capire (prima che di spiegare) la terrificante fascinazione dell’universo. «Non posso che portare con me le mie storie, nell’attesa che si trasformino in qualcosa», dice il regista
Le volte in cui Werner Herzog si è trovato un’arma da fuoco puntata contro, non si contano. Così come non si contano le volte in cui si è ritrovato in fin di vita, preda di qualche malattia quasi letale, piegato dalle privazioni o acciaccato da qualche terrificante caduta in un letto di ospedale di un paese remoto. Herzog, nella sua vita, ha percorso sentieri impervi, ha scalato diverse montagne, ha camminato da Monaco di Baviera a Parigi per salvare quella della critica cinematografica Lotte Eisner prima che lei, ormai vecchia e stanca, non lo supplicasse con un telegramma: «Werner, lasciami morire». Al quale lui, senza scomporsi, rispose: «Va bene».
Ha compiuto un quarto di giro della Germania all’indomani dell’unificazione per aiutare il suo paese a riconciliarsi; ha assoldato degli indios per uccidere Klaus Kinski; ha passato del tempo in una prigione del Centrafrica; ha trascinato una nave sulla costa di una montagna nella giungla amazzonica; ha trafficato pistole e televisori sul confine messicano.
Ha scritto, ha realizzato film e documentari. Non ha quasi mai abbandonato un’impresa, se non in condizioni disperate. «Volevo realizzare un film sul K2», mi ha raccontato di recente. «Mi avvalevo della consulenza di Reinhold Messner e Hans Kammerlander, ma quando siamo saliti con la truppa e gli attori ci siamo accorti subito che non eravamo nelle condizioni di continuare. Saremmo morti tutti. Quindi ne feci un documentario sugli alpinisti veri».
Un ragazzino avventuroso
Non è un masochista, ci tiene molto a specificarlo, ma ancora oggi, a ottant’un anni, è uno che quando in una situazione si tratta di rischiare ci si infila con la spinta vitale del ragazzino avventuroso che è stato. Non per spavalderia, ma per fame e per il gusto di farsi ancora meravigliare. Sotto la scorza dell’uomo finito che in vita sua ha visto guerre, rivolte, lanci spaziali e più volte il futuro sgretolarsi, c’è lo sguardo del diciassettenne che a Creta si imbatte per caso in una distesa di diecimila mulini a vento e non riesce più a proseguire. «Pensavo di essere impazzito. Ero convinto si trattasse di un’allucinazione», dice. «Ma ero troppo giovane. Se avessi avuto l’età di mio nonno, uno stimato archeologo che negli ultimi anni di vita aveva perso completamente il lume della ragione, non ci avrei dato peso. Ma così, mi sembrava troppo presto». Per cui si è seduto ed è rimasto in contemplazione per diverse ore. Finché non si è accorto che i mulini erano reali e, con quell’immagine che lo avrebbe seguito per il resto dell’esistenza ben impressa nella mente, non ha deciso di andare avanti.
Ogni visione è un tesoro. Tutto, per Herzog, è motivo di meraviglia e materiale narrativo. Ed è con lo stesso spirito col quale si è calato nelle viscere della terra per osservare il magma ribollente che osserva la corsa alle nuove frontiere ultraterrene, l’avanzamento dell’intelligenza artificiale e i progressi della robotica medica.
«La mia vita non è una sequenza di fatti», commenta riferendosi al suo primo memoir dichiarato, Ognuno per sé e dio contro tutti, pubblicato da Feltrinelli per la traduzione di Nicoletta Giacon, «Ma un lungo percorso interiore di elaborazione e narrazione».
L’atto di riordinare, di catalogare e di esprimere questo processo, è quasi un’esperienza mistica, religiosa. Quando a quattordici anni ha deciso di convertirsi al cattolicesimo, lo ha fatto col cuore che traboccava di necessità. Doveva cercare di dare un senso a quella che per lui era una continua raffica di violenza e amore. Da una parte c’era la sua rabbia, la fame che lo aveva perseguitato da ragazzo sulle montagne e che spesso lo aveva fatto piangere, la difficoltà di non avere niente, la conflittualità che lo aveva spinto, durante un litigio, a ferire suo fratello Till con un coltello da cucina; dall’altra parte c’era sua madre Elizabeth, che avrebbe dato tutto per i figli, le figure mitologiche del villaggio ai confini con l’Austria nel quale era cresciuto – uomini e donne temprati dal duro lavoro, alti e forti come alberi, silenziosi e statuari –, il sole che tutte le mattine sorgeva sui picchi innevati e un mondo intero, completamente sconosciuto, da esplorare a piedi.
Fascino terrificante
In uno dei suoi primissimi ricordi, viene svegliato nel cuore della notte. Elizabeth avvolge lui e Till in due pesanti coperte e li conduce su un pendio per mostrare loro il bagliore della città di Rosenheim, nel sud della Baviera, che va a fuoco, rasa al suolo da un bombardamento americano. «Il cielo», dice, «pulsava lentamente e placidamente».
Questo paradossale incontro tra atroce violenza e grande bellezza gli ha dato la certezza che esistesse altro al di fuori delle sue montagne, e che, benché terribilmente spaventoso, era un mondo che valeva la pena conoscere, studiare. Herzog ha sempre cercato di capire, prima ancora che di spiegare, la terrificante fascinazione dell’universo. L’impossibilità di comprendere come si possa rimanere a bocca aperta di fronte alla meravigliosa potenza di un’esplosione nucleare.
Il fervore religioso non è durato molto: si è andato a schiantare contro il dogmatismo e dopo qualche anno è sfumato in una più placida e privata spiritualità. Ma il senso di incompiutezza e la necessità di fare chiarezza sono rimaste.
Ha dato avvio alla sua ricerca, dopo aver notoriamente rubato – o, come precisa lui, «Preso in prestito senza aver ancora restituito» – la sua prima telecamera, dalla natura. Quel selvaggio che conosceva e che gli sarebbe sempre rimasto nel cuore. Così ha cominciato a calcare i luoghi remoti del mondo, ha scoperto il Mediterraneo, l’Africa, poi la giungla sudamericana, partendo dalle Alpi. Si è mosso a piedi, perché camminare è un atto di profonda giustizia e permette di stabilire con il territorio che si attraversa un legame che va oltre il mero passaggio. E ha interrogato chiunque abbia incontrato sulla propria strada.
L’interesse per l’umanità di Herzog è un carattere innato, quasi istintivo. «Le persone», dice, «sono lo specchio della terra che abitano». E la sua curiosità, la stessa che lo ha sempre guidato alla ricerca di confini inesplorati da espugnare, è rivolta all’interezza del mistero dell’esistenza.
Imprese titaniche
Herzog, un uomo posato e razionale, che dà l’idea di aver sempre pronta una risposta logica per ogni domanda assurda, non sembra mai aver vissuto un giorno senza intensità. È una delle poche persone al mondo a poter dire di aver avuto un arcinemico e di aver combattuto personalmente una guerra contro il male, eppure non si sente ancora pronto a prendersi una pausa. Ogni sua impresa è stata un’impresa titanica. Quando, attorno al 1978, stava preparandosi per girare Fitzcarraldo, ricevette una proposta dalla Warner Bros. che era interessata a produrre il film a Hollywood. La collaborazione gli avrebbe risolto parecchi problemi economici e distributivi e gli avrebbe permesso di girare la sua opera in tutta tranquillità, senza doversi preoccupare né della logistica, né della riuscita.
«Però volevano farlo in un giardino botanico in California», commenta ridendo. «E costruire un modellino del battello a vapore, come si faceva a quei tempi». Insomma, erano disposti a investire nella produzione pur di non rischiare. Herzog rifiutò, andò in Perù e con il suo direttore di produzione si ingegnò per trascinare il battello lungo il fianco di una montagna, come aveva immaginato e come poi avrebbe, in effetti, fatto; arrivò a sfiorare la bancarotta, salvato dall’audacia di suo fratello Lucki, che convinse alcuni investitori peruviani a prestare i soldi alla produzione in moneta locale in cambio della promessa di un rimborso in dollari; prese una delle sue famose febbri tropicali; ebbe parecchi problemi a gestire Kinski, al punto di assoldare gli indios che aveva assunto come comparse per ucciderlo e di puntargli una pistola – scarica, giura – in mezzo agli occhi per fargli firmare un contratto.
Tutto, pur di non cedere alle scorciatoie, pur di non rinunciare a quel processo meccanico di svelamento della meraviglia che lo ha accompagnato fin dai suoi primi esercizi dietro la macchina da presa, fin dalle sue prime pagine scritte, fin dai suoi primi esperimenti letterari. Quel salvifico atto di volontà che rende il risultato tre volte più sorprendente.
«Sono un narratore», dice, «E non posso che portare con me le mie storie, nell’attesa che si trasformino in qualcosa. Non vado a caccia di difficoltà, piuttosto sono loro a trovare me, ma non penso di essere sfortunato: ogni impresa ha bisogno di un sacrificio per essere compiuta». La sua, probabilmente, è un’impresa universale. E il suo sforzo è gigantesco.
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