Sul finire del 1964 mio padre Furio ricevette una telefonata dal rappresentante della produzione americana Universal. Mister Alfred Hitchcock avrebbe avuto piacere di fare conoscenza con i signori Age e Scarpelli, a Roma. Trascorso lo stupore, seguì un incontro al Grand Hotel, alla presenza di stampa e di pubblico, tra i due sceneggiatori – alquanto imbarazzati – e il regista di La finestra sul cortile, Delitto perfetto, Psycho, Gli uccelli. Rotondo, placido, Hitch comunicò che aveva molto apprezzato I soliti ignoti e Sedotta e abbandonata, usciti dalla loro penna, e propose alla coppia di autori (che inizialmente credeva fossero una sola persona) di scrivere per lui il copione di un thriller in forma di commedia, ambientato all’interno di un grande albergo.

Seguì una cena con le rispettive mogli e un invito a rivedersi negli States per cominciare il lavoro. Questa è per l’appunto la storia dell’avventura americana di Age & Scarpelli e delle loro famiglie, compreso il sottoscritto, che all’epoca era un bambino.

Sebbene avessero già ricevuto una Nomination all’Oscar per la sceneggiatura dei Compagni (regia di Monicelli), i due sceneggiatori abbordarono l’impresa con un atteggiamento tra il circospetto e l’indisciplinato, un po’ alla Pinocchio e Lucignolo (come ha osservato anche Paolo Virzì, che su Age & Scarpelli ha realizzato un documentario). In effetti, dopo aver ottenuto il visto permanente per gli Usa furono richiamati all’ambasciata e rimbrottati per aver aderito a una raccolta di firme di artisti e intellettuali contro il generale Franco. Sul passaporto al visto perpetuo fu sovrimpresso CANCELLED. Avrebbero dovuto chiederne uno nuovo ogni volta.

Partirono nel gennaio 1965. New York sotto la neve. Soggiorno al Waldorf Astoria, l’albergo più grande e lussuoso. Cominciarono a immaginare la storia in un hotel altrettanto immenso, dove tutto poteva accadere, anche un delitto. Poi s’incontrarono a Los Angeles con il regista. Gli raccontarono le prime ipotesi di trama, in un inglese provvisorio, e furono presi accordi per la permanenza nel futuro prossimo a Hollywood, per dedicarsi all’opera, che si sarebbe intitolata RRRRR, ovvero Le cinque R, vedremo perché.

Age e Furio tornarono a Roma, abbozzarono la prima stesura di un’altra vicenda per l’amico Monicelli, intitolata L’Armata Brancaleone e si disposero a ripartire per un nuovo soggiorno americano. Mia madre Cora temeva l’aereo. Così il 7 giugno ci imbarcammo al molo Beverello di Napoli, a bordo della “Cristoforo Colombo”, l’ultima grande nave passeggeri. Nove giorni di navigazione. Un’esperienza davvero di un altro secolo. L’alba nel porto di New York, con la Statua della Libertà. Poi, per raggiungere Los Angeles, mia madre dovette rassegnarsi a volare.

Age era già arrivato in California, direttamente in Boeing, con la moglie e il figlio maggiore. Fu l’inizio di una lunga indimenticabile vacanza, mentre mio padre e Age sviluppavano la storia nel bungalow che era stato loro assegnato dalla Universal. Informavano Hitchcock quotidianamente. Il regista li riceveva nel proprio studio, decorato con i disegni da lui eseguiti per Gli uccelli, ascoltava, annuiva, con garbo suggeriva. Presenziava un interprete. Anzi due. Con il primo si trovarono in difficoltà in quanto riferiva in inglese a modo suo, arbitrariamente. Poiché il principale lavoro di costui era di traduttore presso il tribunale di contea, ciò sconcertò non poco, data l’attendibilità richiesta nel riportare testimonianze. Personaggio degno di una commedia nera, venne rimpiazzato da un italoamericano che si chiamava per l’appunto Italo. Era un gioviale factotum, magro come un manico di scopa, che compilava da solo un giornale dedicato ai connazionali naturalizzati. Le cose andarono molto meglio.

Ma qual era la vicenda che si andava costruendo? In un lussuoso hotel di New York, Jerry Scott (sic), manager di origini italiane, dai trascorsi poco limpidi ma ora lavoratore onesto, deve vedersela col furto di alcune monete di grande valore – il cui indice di rarità corrisponde appunto a R.R.R.R.R. – esposte in un salone dell’hotel e di proprietà della seducente e sedicente ereditiera napoletana Carolina Fonseca. Tra i due nasce, dopo le prime schermaglie, l’inevitabile storia d’amore, che si sviluppa parallelamente ai colpi di scena. Jerry dovrà scontrarsi con i propri parenti dalle tendenze criminali, tutti di recente immigrazione, tutti impiegati nell’hotel, e che vivono nel sottotetto e sotto la protezione della vecchia zia Teresa, malandata, ma per nulla svanita, anzi vegliarda che la sa molto lunga. Senonché, agli occhi della polizia Jerry diventa il principale sospettato: è costretto a sparire dalla circolazione per potersi scagionare identificando il vero colpevole, un rapinatore disposto a tutto, persino a uccidere. Gli interpreti avrebbero dovuto essere Cary Grant e Sophia Loren. Successivamente per la parte maschile fu ragionevolmente reputato più adatto Marcello Mastroianni.

Le lezioni di “Hitch”

A questo punto, legittimo chiedersi cosa accomunasse Hitch e Age & Scarpelli. L’ironia è probabilmente la prima risposta. La seconda pesca più in profondità: quell’ironia, quello spirito di commedia, erano fondati sul dramma dell’esistenza. Tutti e tre gli autori coltivavano un certo retroterra, diciamo, esistenzialistico. Mio padre amava rifarsi al filosofo Remo Cantoni: l’uomo non è a misura del mondo e il mondo non è a misura dell’uomo. Insieme ad Age aveva firmato copioni che raccontavano storie di disgraziati alla ricerca di una felicità impossibile, da La banda degli onesti ai Soliti ignoti, da Risate di gioia ai Compagni, per non dire della Grande Guerra e di Tutti a casa dove l’imperativo era salvare la pelle. Hitchcock amava mettere in scena individui che hanno una condizione di vita accettabile ma che d’improvviso si ritrovano ingiustamente accusati e in fuga, o coinvolti in intrighi che li costringono a fronteggiare la morte. Le cinque R sussumeva tali tematiche.

La matrice ispirativa di Hitch e anche di mio padre e di Age era connessa da un lato con lo spirito dell’infanzia e della fiaba (Dickens, i fratelli Grimm, il teatro dei burattini, la costante della paura); dall’altro lato con la cultura dell’epoca della Repubblica di Weimar, e con il disegno. Negli anni Venti il giovane Alfred aveva collaborato alla scenografia di alcuni film prodotti a Berlino dall’UFA e, figlio di droghiere, ignorante del tedesco, per comunicare con i colleghi ricorreva alla matita e allo schizzo. Questa capacità l’avrebbe trasformata nell’arte dello storyboard, irrinunciabile per costruire le inquadrature dei suoi film. La Repubblica di Weimar fu una danza attorno alla bocca di un vulcano nella Germania prossima all’esplosione nazista, ma costituì anche uno degli apici della cultura novecentesca: tanto Hitch quanto Age e Scarpelli ne conoscevano le istanze e, in particolare, la potenza del suo cinema espressionista. La prima professione di mio padre era stata proprio quella di vignettista e illustratore, e per lui il pittore Georg Grosz e il regista teatrale Max Reinhardt rappresentavano dei modelli.

Inoltre, Age e Scarpelli avevano scelto di tenersi un passo indietro rispetto alle storie che mettevano in piedi. Raccontavano in un certo senso perpetuando il rigore di Gustave Flaubert: l’artista deve dare l’impressione di non essere personalmente mai esistito, poiché è tutto nella propria opera. Anche Hitchcock, benché amasse esibirsi da comparsa nei propri film, aveva un’affinità creativa con Flaubert: rivelava il minimo indispensabile di sé e otteneva tutto il possibile dagli interpreti.

Alcuni segreti della sua creatività li condivise con i due sceneggiatori italiani. Innanzi tutto, scrivere e girare soltanto scene madri, mai scene di servizio per “far capire”. Hitch diceva: meglio non far capire che sperperare, lo spettatore capirà più avanti. Ciò non autorizzava comunque a imbrogliare, poiché una cosa è la suspense e un’altra il voler stupire ad ogni costo, rimescolando e nascondendo a bella posta. Inoltre, nel cinema americano, in cui prevaleva il metodo di recitazione Strasberg, di totale immedesimazione dell’interprete nel proprio ruolo, Hitchcock costituiva un’eccezione circa i requisiti degli attori: dovevano essere provvisti di fascino e di presenza scenica, ci avrebbe poi pensato lui a plasmarli.

Una lunga vacanza

Vidi Hitchcock, in varie occasioni, anche nella sua casa di Bel Air, il quartiere che sarebbe assurto a triste luogo di misfatti, ma che già all’epoca, con le sue ville isolate e le buie zone d’ombra nel verde, aveva secondo mio padre qualcosa di tetro. La casa del nostro – Alberto, figlio di Age, mi rinfresca la memoria – era immersa nel silenzio e lontana dalla luce solare; alle pareti del soggiorno i quadri di Dalì e, nella cucina color tortora, fasci di baguette surgelate spediti da Parigi. Il regista per ricordarsi il mio nome, che pronunciava Jack-como, disse che abbinava il comune appellativo “Jack” al cognome del cantante Perry Como, allora in voga.

Una sera invitò le nostre famiglie a cena da Chasen’s, ristorante di Hollywood in Beverly Boulevard. Accompagnato dalla moglie, la minuta Alma, Hitchcock quella volta era particolarmente facondo. Si rivolse a me con la sua suadente voce di gola e volle spiegarmi il principio ingegneristico che faceva stare in piedi il Golden Gate Bridge di San Francisco. Con dita inaspettatamente agili, mi mostrò come due forchette, bloccate fra loro con una moneta da mezzo dollaro incastrata tra i rebbi e appoggiata sul bordo di un bicchiere di cristallo a calice, restassero in ondeggiante e solidale equilibrio: questo era il trucco portante del gigantesco ponte, spiegò Hitchcock. O così almeno capii, grazie anche a mia madre, l’unica di noi che conosceva davvero l’inglese.

In quel punto si avvicinò al tavolo un tipo alto e asciutto, capelli e baffetti brizzolati e abito color perla, l’andatura dondolante. Si protese verso Hitch, che aveva fatto l’atto di alzarsi, e i due si strinsero cordialmente la mano. Rimasi folgorato: il distinto signore in grigio era Walt Disney. Quando toccò a me stringergli la mano (che non mi sarei lavato per una settimana) farfugliai che ero associato al Club di Topolino. Mister Disney sorrise divertito. Quindi disse che sarebbe stato lieto se fossimo stati suoi ospiti a Disneyland. Ciò si avverò. Trascorremmo tre giorni nel primo parco dei divertimenti mai creato, alloggiati nell’ hotel locale e con una gentile guida a nostra disposizione. Ci immergemmo nel sommergibile, attraversammo la foresta, ci innalzammo nel razzo, risalimmo il fiume a bordo del battello a pale.

Ho detto che per me fu una lunga indimenticabile vacanza. Oltre Disneyland comprese la visita agli studios Universal, la gita a San Francisco, dove oltre al Golden Gate vedemmo il parco delle sequoie giganti di Muir Woods. E poi il bagno nell’oceano Pacifico, e le spedizioni a Marineland, dove si esibiva il delfino Flipper, e anche orche e balene addestrate. Una di esse ricadendo dopo un balzo fuori dall’acqua ci ricoprì con un’ondata di schizzi e dovemmo tornarcene via. E ancora, la scoperta del soldato attrezzabile G.I. Joe, che nella sua muta da palombaro era mio compagno di giochi nei pomeriggi trascorsi nella piscina di Nino Novarese, antico collega di mio padre, trapiantato in California e divenuto scenografo e costumista, nonché premio Oscar.

I miei primi guadagni furono in dollari, dando una mano alle cene allestite in casa Novarese. Ma non fu soltanto la villeggiatura di un ragazzino privilegiato. Non tutto quel che luccicava era oro. Ospite dei conviti dai Novarese la bellissima attrice Gia Scala, la quale si sarebbe tolta la vita a trentotto anni, per angustie esistenziali. Nel giro di tre mesi accanto al nostro albergo, su Ventura Boulevard, assistemmo a tre incendi, tra cui quello di una steak-house, probabilmente doloso. In un’altra occasione, mio padre e mia madre si intrattennero con l’autista di un taxi, giovane attore serbo che arrotondava le entrate. Si chiamava Milos. Un anno più tardi avremmo appreso che la moglie del popolare attore Mickey Rooney, Barbara, era stata uccisa dal proprio amante Milos Miloševic’ con la quale aveva una relazione. L’uomo si era poi suicidato. Era proprio l’autista del taxi. Anche questa era l’America. Così come lo era la rivolta dei neri contro l’oppressione, che in quell’agosto 1965 infiammò il sobborgo di Watts. L’aiuto barbiere che lavorava nella bottega del nostro albergo da un giorno all’altro scomparve, per partecipare alla ribellione dei fratelli. Vedemmo bianchi che giravano impunemente per strada con il fucile a pompa in spalla. Era consentito, mentre era proibito portare armi nascoste.

Infine, una nota di commedia. L’interprete Italo fu ricoverato all’ospedale. Si trattava di un malanno che i medici stentavano a individuare, non si capacitavano. La diagnosi: denutrizione. Spiegazione: Italo era divorziato da varie mogli, che esigevano gli alimenti, e perseguitato da amanti altrettanto abbarbicate, che lo lasciavano senza il becco di un dollaro.

Eredità hollywoodiane

Si avvicinava il momento del ritorno. Vari amici chiesero ai miei genitori di rimanere, di trasferirci tutti e tre laggiù. Invece venimmo via dal paese dei balocchi. Furio e Age erano rimasti d’accordo con Hitchcock che, tornati in Italia, sarebbero dedicati a stendere una sceneggiatura definitiva. Poi le cose andarono diversamente.

Una volta a Roma, si lasciarono prendere dall’ideazione di nuovi copioni. Quanto a Hitch, si trovò obbligato, per beghe contrattuali, a realizzare un altro film, Il sipario strappato. Per qualche tempo il regista continuò a interpellare a distanza i due sceneggiatori a proposito delle Cinque R, ma anche per avere pareri proprio sullo script che si avviava a girare, che sarebbe stato interpretato da un Paul Newman alquanto improbabile nei panni di un fisico Premio Nobel. Age & Scarpelli avevano conosciuto a Hollywood l’attore. Espressero il parere che fosse adatto più ai ruoli di bulletto che di scienziato. Sostanzialmente davano ragione allo stesso Newman, che non si sentiva nella parte, essendosi formato col metodo Strasberg, e che si trovava in un dibattito continuo con Hitchcock. Il film fu un flop.

Cosa rappresentò l’esperienza americana di Age e Scarpelli? Scrivere quella storia per un regista che privilegiava vicende di incolpevoli perseguitati costituì uno snodo artistico e professionale della coppia, che aveva conseguito il successo narrando di sciagurati alla ricerca di una vita migliore.

Tornati in Italia, Age e Scarpelli riprendono a raccontare vicende di sventurati, uniti o in concorrenza, per la conquista della fortuna. È il caso dell’Armata Brancaleone e del Buono, il Brutto, il Cattivo, l’uno di ambientazione medievale, l’altro western. Sbancano i botteghini. Un altro film, Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?, è la romanzesca, comica impresa di personaggi in fuga dall’Italia del boom, anticipando la scossa del Sessantotto. E ancora, C’eravamo tanto amati e La Terrazza raccontano le delusioni di un gruppo di compagni che hanno raggiunto la sospirata agiatezza a prezzo della rinuncia agli ideali. I due autori hanno invece rinunciato al sogno americano per rientrare nell’alveo culturale nazionale cui si sentono al loro posto, per riprendere a raccontare guai e aspirazioni di persone e personaggi di casa loro. Questo quel che fu e ne conseguì.


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