La prima cosa che uno scrittore vede davanti a sé è uno schermo vuoto. Quando iniziamo il nostro lavoro, torniamo a quel momento, al silenzio che precede la scrittura e che accompagnerà la creazione di una narrazione per molti mesi, o addirittura anni. Il nostro mestiere si fonda sulla comprensione di quel silenzio inaugurale. Noi editori dobbiamo saper lavorare con qualcosa di fondamentale per la letteratura: l’attesa
Quando ho saputo di aver vinto il premio internazionale Cesare De Michelis per l’editoria, lo stupore è stato grande. E mentre lo stupore si trasformava in gioia e gratitudine, mi è tornato in mente un episodio curioso. C’entrava uno dei vincitori che mi hanno preceduto, il mio amico Michael Krüger.
Tanto tempo fa – così tanto che non ricordo più bene quando – Michael organizzò a Berlino una conferenza sull’editoria letteraria. Fui invitato come relatore insieme allo scrittore ed editore Roberto Calasso. Nessuno di noi due sapeva di cosa avrebbe parlato l’altro, ma alla fine abbiamo dovuto constatare che le nostre tesi erano esattamente opposte.
In quell’occasione, Calasso raccontò la storia di due editori storici: Kurt Wolff, nato a Lipsia, e Aldo Manuzio che, originario di Bassiano, si era poi stabilito a Venezia, la città dove aveva lavorato tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, e dove è anche nato il Premio che ho ricevuto.
Manuzio e Wolff
Calasso spiegò che Manuzio era stato un pioniere del libro nella forma in cui lo conosciamo oggi, perché aveva inventato un nuovo formato editoriale, rendendo i libri “portatili” – un po’ quello che sarebbero stati i tascabili un paio di secoli più tardi. A lui si attribuiscono anche diverse innovazioni tipografiche, tra cui l’invenzione del corsivo, e la pubblicazione di numerosi testi greci in traduzione e di grandi classici italiani. Il libro, nella sua forma moderna, gli deve moltissimo.
L’altro editore di cui raccontò Calasso era Kurt Wolff, “l’editore espressionista”. Nella storia dell’editoria moderna, è molto difficile trovare qualcosa di paragonabile alla sua casa editrice, tanto fu speciale e sofisticata. A suo modo, Wolff fu uno dei creatori dell’editoria letteraria, e si può dire che il Kurt Wolff Verlag ha influito sulla nostra idea di editoria fino a oggi.
La vita di Wolff era a tal punto profondamente intrecciata alla sua attività editoriale che si poteva parlare di un’identità unica: una casa editrice che era una persona, o una persona che era una casa editrice? Kurt Wolff aveva un gusto eccellente e una grande sensibilità culturale. Sappiamo bene, tra le altre cose, quanto sia stato fondamentale il suo ruolo nella pubblicazione delle opere di Franz Kafka.
Con questi due esempi, nel suo testo brillante e raffinato Calasso sosteneva che l’editoria è un’arte e – almeno nella mia interpretazione – collocava se stesso nella medesima tradizione.
La mia lettura non avrebbe potuto essere più diversa. Avevo scritto un testo semplice, pensato come un racconto letterario. Cercavo di spiegare perché ritengo che l’editoria non sia un’arte e che si possa definire “arte” soltanto il lavoro degli scrittori, a cui noi editori dedichiamo la nostra vita. In sintesi, pubblicare libri è un atto continuo di dedizione: dedizione agli scrittori e ai lettori.
Non ricordo più come sono riuscito ad appellarmi alle lezioni di Vladimir Nabokov sulla letteratura e ad alcune poesie di Fernando Pessoa per sostenere il mio punto di vista. Di certo avevo cercato di dare un po’ di lustro all’idea semplice che avevo portato con me a Berlino, senza sospettare che lì mi attendeva una disputa, pur tra amici.
Mi è tornato in mente quel pomeriggio berlinese perché, anche se allora mi sono forse espresso in modo un po’ ruvido, continuo a credere di aver ragione: l’editoria non è un’arte, l’editoria è una forma di devozione. Una devozione in senso letterario, non religioso.
Ovviamente, gli editori citati da Calasso, o quelli che hanno ricevuto questo premio prima di me, sono eccezioni alla regola, ma sono appunto le eccezioni che confermano la regola. Indubbiamente nell’editoria lavorano anche degli artisti, ma l’editoria di per sé non è un’arte. (…)
I primi lettori
Noi siamo i primi lettori di una enorme quantità di emozioni e insicurezze che si accumulano nel tempo necessario a scrivere un testo. La prima cosa che uno scrittore vede davanti a sé è uno schermo vuoto, una pagina bianca. Quando iniziamo il nostro lavoro, torniamo a quel momento, al silenzio che precede la scrittura, un silenzio che accompagnerà la creazione di una narrazione per molti mesi, o addirittura per anni. Il nostro mestiere si fonda sulla comprensione di quel silenzio inaugurale.
(….) Noi editori dobbiamo saper lavorare con qualcosa di fondamentale per la letteratura: l’attesa. La si trova nei libri, creata dagli scrittori, che manipolano il tempo aprendo i paragrafi come fossero finestre, per poi richiuderli più avanti, o lasciarli aperti per sempre, ricompensando il lettore con la sospensione del tempo reale e il piacere dell’attesa.
E l’attesa, oggi, è una risorsa politica, una merce rara, in un mondo fatto di radicalismi, di idee affrettate e soluzioni sbrigative. In generale, non attendiamo le cattive notizie o le tragedie, né tantomeno l’aggressività istantanea dei social. Si presenta senza essere invitata. È per questo che chi sa attendere possiede una sorta di ottimismo, di fede. La letteratura è quindi un esercizio di attesa, creato dagli scrittori per sospendere il presente nell’atto della lettura, per una silenziosa utopia, in cui non accade nulla se non la pura immaginazione.
Il libro che sto scrivendo sul mio mestiere si intitola Il primo lettore. Anche in quelle pagine sostengo che noi, editor e editori, siamo innanzitutto i primi lettori di un testo letterario, coloro che lavorano per fare in modo che il futuro dialogo tra scrittore e lettore scorra senza ostacoli.
Quando ho raccontato di questo titolo a un collega, lui mi ha chiesto: «È un omaggio a Ricardo Piglia?».
E gli ultimi
Avevo completamente dimenticato uno dei libri che più sono fiero di aver pubblicato, intitolato L’ultimo lettore. In quel libro, Piglia – uno degli scrittori argentini più importanti di sempre, e un grande amico – racconta storie di scrittori in veste di lettori. L’espressione «l’ultimo lettore» sembra rimandare, tra l’altro, a Jorge Luis Borges che, ormai cieco, cercava di leggere fissando intensamente le pagine dei libri.
È un’espressione che richiama anche la celebre foto di Che Guevara che legge un libro sopra un albero durante una guerra di guerriglia, sospendendo il tempo del conflitto armato per dedicarsi alla lettura. Quello stesso guerrigliero sarebbe poi stato ucciso in un’aula di scuola, sulla cui lavagna c’era scritto: «Io so leggere».
L’ultimo esempio che prendo in prestito dal libro di Piglia è quello di Don Chisciotte, lettore instancabile che raccoglieva i fogli sparsi trovati per strada nel tentativo di comporre un ultimo libro. Don Chisciotte ha letto e vissuto tutto. Non ha mai letto, però, i romanzi cavallereschi, il genere di cui è protagonista. Con una sola eccezione: un romanzo su un falso Chisciotte, quello di Avellaneda.
I profili di questi ultimi lettori – Borges, Don Chisciotte e Che Guevara, tracciati da uno scrittore magnifico, conferiscono una dimensione epica all’atto della lettura.
L’ultimo lettore è un eroe. Il primo lettore, invece, è solo un uomo semplice.
Luiz Schwarcz riceverà il 2 aprile alle 17.30 all’Auditorium Santa Margherita – Emanuele Severino di Venezia il premio Cesare De Michelis per l’editoria nel corso dell’inaugurazione di "Incroci di Civiltà", festival internazionale di letteratura ideato e organizzato dall’Università Ca’ Foscari, con il supporto della Fondazione di Venezia, in collaborazione con il Comune di Venezia e diretto da Flavio Gregori. Questo è Il giorno dopo Schwarcz terrà un dialogo con Teresa Cremisi, presidente di Adelphi, e Michael Krüger, vincitore del premio nel 2023. Schwarcz è stato direttore editoriale di Brasiliense e ha poi fondato la Companhia das Letras
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