Non siamo soli. Le stelle accompagnano il viaggio della Terra nell’universo tornando a comparire davanti ai nostri occhi secondo intervalli esatti. Le costellazioni ci aspettano ogni anno, e rappresentano il tempo smisurato dell’universo davanti all’effimera vita degli uomini.

Le nostre vite si dissolvono, ma la costellazione sotto cui siamo nati resta là, ad attendere altri uomini che leveranno gli occhi verso di lei. Qualsiasi essere umano che non sia un bruto, sin dai tempi più antichi, alzando lo sguardo verso il manto di luci che interrompono il buio della volta celeste, prova un brivido di meraviglia, di mistero, di bellezza, e percepisce che lassù pulsano realtà diverse dalla nostra, di cui vorremmo conoscere il segreto. Perché se le stelle hanno un senso, allora ce l’ha anche ognuno di noi.

Un’attività antichissima

Dagli uomini che dipinsero costellazioni nelle caverne di Lascaux, 17mila anni fa circa, ai radiotelescopi di oggi, l’umanità scruta la volta celeste e cerca di conoscere i suoi misteri. Osservare il cielo, individuare e nominare le costellazioni, come faceva con i suoi occhi Eudosso di Cnido, o calcolare la vita delle supernove e la radiazione di fondo del Big Bang sono azioni accomunate dal desiderio, tutto e solo umano, di addentrarsi nell’ignoto e decifrare quello di cui tutti noi siamo parte.

Ovidio nelle Metamorfosi leggeva l’osservazione delle stelle come il primo segno di un’umanità che diventa umana: la natura o il dio, dice, «ha alzato la faccia dell’uomo e gli ha ordinato di guardare il cielo, e levare gli occhi verso le stelle». Molti secoli dopo, Dante terminò ogni sua cantica con la parola “stelle”, sino all’ultimo, sublime, verso della Commedia: «L’amor che move il sole e l’altre stelle».

L’astronomia ci sta avvicinando alla conoscenza di quell’universo, da cui siamo comunque distantissimi, e che resterà sempre parziale, e la domanda che viene incontro, in modo implicito o esplicito, è questa, in fondo alla mente di ognuno: esistono, e dove, altri compagni dell’umanità in questo spazio? Infinito il cielo, microscopica l’umanità; eppure questi microbi osano addentrarsi in dimensioni sconfinate, per sapere. «Lo stupore dinanzi alla volta celeste», scrive Piero Boitani, «è ciò che generò nell’umanità delle origini, e tuttora genera nell’uomo fanciullo, il desiderio di conoscenza, l’amore della sapienza, la philosophia». 

In poesia

Genera anche l’impulso a esprimere l’indicibile mistero del cielo stellato attraverso la poesia, la manifestazione più alta dell’anima umana, a partire dai versi di Omero, che sono il più antico notturno della nostra civiltà:

«Come quando in cielo attorno alla luna splendente
le stelle si mostrano fulgide, e l’aria è priva di vento,
tutte le cime dei colli e dei monti si disegnano nitide
e le valli, perché si è spalancato il cielo infinito
e allora compaiono tutte le stelle, nel cuore gioisce
il pastore, tali tra le navi e le correnti di Xantho
bruciavano davanti alle mure di Ilio i falò dei troiani».

(Iliade, VIII, 555-560)

Una scena meravigliosa e arcana: c’è una notte così limpida da mostrare i profili dei monti in lontananza, il silenzio lunare che avvolge ogni cosa e lo sguardo di un pastore che non si chiede, come quello leopardiano, perché è al mondo, ma riempie il suo cuore di gioia e di stupore, sentendosi una parte di tutta questa bellezza.

Ma il cielo, nella civiltà contadina antica e sino alla modernità, non era solo da contemplare; sin dall’inizio dei tempi esso accompagnava le opere degli uomini giorno per giorno. Orientare la prua delle navi nella notte, scandire il rotolare delle stagioni, indicare la meteorologia: le costellazioni fissano un calendario e dirigono la fatica degli uomini affaccendati «quando Orione e Sirio raggiungono il mezzo del cielo», dice Esiodo (Le opere e i giorni, 583-587), «e Aurora dalle dita di rosa riesce a individuare Arturo» (ossia la sua levata eliaca), «allora recidi i grappoli e mettili via… e dopo che le Pleiadi, le Iadi e il possente Orione sono tramontati, ricordati che è la stagione di arare».

Cosmo

Definire le costellazioni fu un tentativo di dare ordine e ragione alla geografia del cielo. Creare costellazioni aiutò (scrive Arato) ad affrontare il caos apparente dell’etere, e in questo pullulare di luci egli vedeva l’opera di una mente divina, che volle imprimere la sua impronta negli spazi infiniti del cielo. Furono i mesopotamici a studiare per primi il cielo notturno, ma le nostre costellazioni sono figlie dell’astronomia greca.

E il cielo dei greci si riempì con i loro miti proiettati negli spazi astrali; così da allora le costellazioni passano attraverso la volta celeste mostrando agli occhi umani un intero universo di storie, simile a un libro di mitologia le cui pagine si leggono sopra il capo degli uomini senza bisogno di parole, affrescato con figure di eroi e forme mostruose e strane, prodotte da una visione estetica del cosmo.

Le nostre costellazioni, soprattutto nel cielo boreale, sono quelle immaginate dai greci. Lì in alto sono disegnate le sembianze di esseri resi eterni nel momento stesso in cui il destino li aveva resi effimeri con la morte.

Nel momento finale del loro percorso terreno, una forza divina trasformò il loro corpo umano in un corpo astrale. A volte, sono gli esseri che un tempo vivevano sulla terra, come il serpente che custodiva il giardino delle Esperidi e che, trasferito nel cielo, avvolge per l’eternità le sue spire attorno alle orse; in altri casi, sono disegni con cui gli dèi decorano il cielo, come un pittore affrescherebbe una cupola: così Zeus plasmò tra le stelle la forma della capra che lo aveva nutrito, e in cielo brillano sulla nostra testa la lira di Orfeo e la ghirlanda di Arianna, o esseri misti come il Centauro e il Capricorno.

Così il cielo divenne lo specchio dei loro miti, ed è quello in cui noi ancora ci rispecchiamo, e di cui questo libro parlerà.


Il testo è un estratto da I miti delle stelle (Raffaello Cortina editore 2023) di Giulio Guidorizzi. 

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