Dal premio Pulitzer Studs Terkel, in Working sfila una galleria di racconti sulle profonde contraddizioni del lavoro e i sensi che vi riponiamo. Il libro si apre con una affermazione netta: il lavoro è violenza. E a partire da questa tautologia, guida il lettore in una serie di considerazioni desuete, disattese e sorprendenti
Qual è il senso del lavoro che facciamo? Il Premio Pulitzer Studs Terkel intervista in questo libro un pompiere e una casalinga, un conducente di autobus e una cameriera, un sindacalista e una sex worker, un musicista jazz e il proprietario di una fabbrica, oltre a più di cento altre persone: il risultato è uno spaccato duro e poetico della vita di chi lavora.
In un’epoca che nasconde i volti e le voci delle persone che mandano avanti la nostra società, Terkel strappa all’anonimato i protagonisti del nostro tempo portando a galla i malcontenti e le frustrazioni, ma anche i desideri e le aspirazioni di chi lavora, restituendoci un mondo ironico e imprevisto.
Questo libro, essendo un libro sul lavoro, è, per sua stessa natura, un libro sulla violenza – allo spirito come al corpo. Parla di ulcere e di incidenti, di urla e di risse, di esaurimenti nervosi e di bastonate. Parla soprattutto (o sotto sotto) di umiliazioni quotidiane. Sopravvivere alla giornata è un trionfo sufficiente per i feriti che camminano tra i tanti di noi.
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La prima volta che ho letto Working ne sono rimasta folgorata. Il libro apriva con una affermazione netta: il lavoro è violenza. E a partire da questa tautologia, guidava il lettore in una serie di considerazioni desuete, disattese e, a modo loro, sorprendenti.
Per una lettrice che, come me, non conosceva Studs Terkel, era facile immaginare, sin dalle prime righe, che l’autore dovesse avere almeno due caratteristiche infrequenti. In primo luogo una sorta di intimo spregio per i giri di parole. E in secondo luogo, una rara capacità di scrivere in modo semplicissimo, ancorché brutalmente onesto, riuscendo a risuonare con gli stati d’animo rimossi e più profondi del lettore.
Queste due qualità sono bastate per convincermi ad arrivare alla fine del libro e, successivamente, per scoprire il resto della sua lunga produzione. Dopo aver letto studi sul lavoro per molti anni, mi sembrava che ci fosse nell’approccio di Terkel qualche cosa di diverso: un linguaggio colorato e vivo, evocativo e dissacrante, che di rado viene utilizzato per discutere di lavoro.
Le aspirazioni
Dopo aver descritto la violenza che il lavoro infligge, infatti, Terkel si soffermava sulle aspirazioni di chi lo svolge. Le aspirazioni di chi lavora: ecco un altro tema di cui non sentiamo parlare da tempo. Oggi, nel dibattito pubblico, la parola lavoro è spesso associata a termini come salario, appalto, precarietà, morte, sfruttamento, ma chi si chiede più quali siano i desideri della working class? Forse la nostra epoca è a tal punto concentrata sulla sopravvivenza, da considerare le aspirazioni come una sorta di privilegio. Eppure, è proprio interrogando i desideri dei 136 intervistati in questo libro, che Studs Terkel trovava le parole per portare la conversazione in anfratti preziosi e trascurati.
Per molte, tra le persone intervistate, continuava Terkel nella prima pagina dell’introduzione, il lavoro non era solo violenza. Era anche:
una ricerca di significato quotidiano oltre che di pane quotidiano, di riconoscimento oltre che di denaro, di stupore invece che di torpore; in breve, di una sorta di vita piuttosto che di una sorta di morte dal lunedì al venerdì. Forse anche l’immortalità fa parte di questa ricerca. Essere ricordati è stato il desiderio, espresso e non espresso, degli eroi e delle eroine di questo libro.
Parola dopo parola, pagina dopo pagina, Working ci porta nelle contraddizioni del lavoro contemporaneo e nella vita delle persone. Ci presenta Maggie Holmes, domestica, Phil Stallings, saldatore, Grace Clements, operaia tessile, e poi Terry Mason, assistente di volo; Anne Bogan, centralinista, Roberta Victor, sex worker, Barbara Herrick, modella, e ancora Hobart Foote, agricoltore, Tom Brand, operaio, Gary Bryner, operaio del settore automobilistico, Booker Page, ferroviere, per citarne alcuni. Il tratto comune di queste testimonianze è il desiderio di proteggere un significato per il lavoro che non si limita alla busta paga. È il desiderio di fare la differenza nel mondo e di lasciare un segno nella storia ad animare i protagonisti, un desiderio, bisogna dire, spesso frustrato, o annichilito, da ciò che il lavoro, oggi, consente di fare.
Terkel ci porta a scoprire, da un lato, il dolore che puntella le testimonianze che raccoglie: un malcontento difficile da celare. «“Sono una macchina”, dice il saldatore. “Sono in gabbia”, dice il cassiere di banca, e gli fa eco l’impiegato d’albergo. “Sono un mulo”, dice l’operaio siderurgico. “Una scimmia può fare quello che faccio io”, dice il receptionist».
E dall’altro, le storpiature del dibattito pubblico. «Non è che il lavoratore medio sia stupido. È stanco, tutto qui», osserva Mike LeFevre, operaio siderurgico di 37 anni, la cui testimonianza apre il testo.
Via dal lavoro
Da attento osservatore qual era, a Terkel non sfuggiva come le auto il venerdì sera corressero via, il più lontano possibile dalle città e dai luoghi di lavoro. Né che l’autobus a fine giornata fosse pieno di volti tesi che «ci dicono più di quanto vogliamo sapere». Non gli sfuggiva l’atteggiamento di antagonismo con cui diverse persone approcciavano il loro lavoro. «Il giorno in cui mi entusiasmerò per il mio lavoro portatemi da uno strizzacervelli», dice Mike. Né le strategie di sopravvivenza di chi lavora. E così, in questo libro, racconta i giochi e gli stratagemmi che ciascuno elaborava per far passare la giornata più velocemente e rompere la monotonia. Per Roberta, sex worker, ad esempio, l’unico modo per mantenere la propria integrità era «fingere fino in fondo». Mentre Dolores Dante, cameriera, per arrivare a fine turno si muoveva tra i tavoli con la grazia di una ballerina, sentendosi come la Carmen nell’opera di Bizet: «una gitana che tiene in mano il tamburello mentre gli uomini lanciano una monetina».
«Tutti, chi più chi meno, fanno cose stravaganti per sopravvivere alla giornata. Non sono ancora automi».
Mentre il ritmo frenetico della nostra quotidianità cancella il nome, il volto e, in molti casi, le vite e i desideri di una working class sempre più divisa, polverizzata e isolata, Terkel si serviva dell’inchiesta sociale per restituirci un mondo diverso, fatto di sguardi e voci che sino a quel momento erano rimasti anonimi. È così che, in un racconto di storia orale puntellato di scoperte, Working riporta a galla ciò che per anni è stato trascurato e appiattito: la vita materiale e l’anima dei protagonisti stessi della nostra storia politica e sociale.
(da Working – Marietti 1820, 2024)
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