Nel settore videoludico la tendenza è quella di creare titoli con mondi sempre più grandi e pieni di cose da fare. All’inizio era una scelta motivata da una corsa tecnologica, ora è fonte di disagio per chi sviluppa e chi gioca
Erano rimasti tutti senza parole quando, nel 2007, Assassin’s Creed aveva permesso ai giocatori e alle giocatrici di vestire i panni dell’assassino Altair durante le crociate. E poi di Ezio Auditore nel sequel del 2009 ambientato in quella splendida Firenze rinascimentale tra botteghe, intrighi di palazzo, antiche reliquie e corse sui tetti.
Ricostruzioni incredibili da parte di Ubisoft, studio di sviluppo francese, che ha realizzato intere città (e anche di più) seguendo fonti storiche e immaginando la vita in quell’epoca, con un tocco fantascientifico.
Si tratta di un’impresa tecnologica e creativa possibile solo a pochi grandi studi. Nonché un balzo incredibile se si pensa che solo dieci anni prima, nel 1993, l’avanguardia della tecnica era considerato il primo Doom, con i suoi mostri spigolosi e le sue animazioni raffazzonate. Ma già da prima, i videogiochi hanno man mano iniziato a dividersi in due macrocategorie, che interpretavano a loro modo il concetto di “libertà”, tra ambienti molto circoscritti (i cosiddetti livelli) e su binari, in cui la strada da seguire è tracciata, oppure mappe grandi e completamente esplorabili (gli open world, ovvero i mondi aperti), per definizione non lineari.
Le tre dimensioni, i videogiochi come una magia che diventa realtà
Se la prima è la più tradizionale, dalla nascita dei videogiochi commerciali come Pac-Man e Super Mario negli anni Settanta e Ottanta, l’altra è diventata una sorta di seconda tradizione più contemporanea. Con l’avvento delle tre dimensioni, i videogiochi hanno sentito il bisogno di allargarsi, di sperimentare e di sfruttare al massimo le tecnologie per creare qualcosa di nuovo.
Era una magia che diventava realtà, lo schermo un portale per un’altra dimensione. Da quel momento in poi, gli ambienti si sono fatti sempre più grandi e complessi: il fantasy di Skyrim, ad esempio, il vecchio West di Red Dead Redemption e la giungla urbana distopica di Cyberpunk 2077, arrivando fino alle galassie di No Man’s Sky.
I “mondi aperti” hanno sempre destato un certo fascino. L’idea che - attraverso un miscuglio di codici e grafica computerizzata - si potesse creare un ambiente “vivo”, in un certo senso, ha cambiato la prospettiva sui videogiochi e sulle loro potenzialità di immersione e narrazione. Da quel momento in poi, il termine open world è diventato sinonimo di innovazione. E negli ultimi vent’anni, questo genere di videogiochi ha proposto avventure corpose e coinvolgenti (dalle 10 ore di gioco in su, ma anche 100, 300 ore): The Witcher 3, Elden Ring e Hogwarts Legacy tra gli altri.
Una mossa di marketing
I videogiochi diventano di massa e cambiano anche il mondo dei blockbuster
Ma oggi qualcosa è cambiato. I videogiochi, una forma d’arte con solo cinquant’anni di storia alle spalle, sono mutati tantissimo negli ultimi due decenni; se prima il genere del “mondo aperto” era paragonabile a una conquista pionieristica del nuovo continente, ora il suono di quella parola non suscita più il medesimo entusiasmo.
«La tendenza è questa: gli open world devono fare sempre di più, sempre più grande, e inserire sempre più contenuto», spiega a Domani Valerio Macrì, 24 anni, level designer a One O One Games, software house romana autrice di The Suicide of Rachel Foster. «Questo è un trend imposto dai blockbuster, cioè dai titoli a grosso budget, che per vendere devono accontentare una larga fascia di pubblico».
Allargare il mondo di gioco diventa una strategia di marketing
Ma cosa significa? Secondo Macrì, i programmatori hanno necessità di accontentare più persone che apprezzano elementi di gioco diversi. «Il fatto che i videogiochi siano diventati di massa è una cosa bellissima, e i blockbuster si sono adattati: molti, non tutti, hanno una direzione artistica e creativa poco chiara perché devono inglobare più sottogeneri, cercando di essere attraenti per più nicchie di pubblico. E l’open world è un elemento sempre presente, perché allargare il mondo di gioco, e quindi il gioco stesso, è tutta una strategia di marketing».
Per il level designer di One O One Games, avere un mondo aperto nel proprio videogioco è purtroppo «diventata una scusa per diluire il tempo di gioco, portando i giocatori a investire più tempo». E ci sono sempre più missioni, oggetti da raccogliere, abiti per il personaggio, obiettivi secondari e terziari da completare, segreti da scoprire e chi più ne ha più ne metta.
I giochi hanno sempre più bisogno di tempo, ma gli esseri umani ne hanno sempre meno
«La tecnologia sta sviluppando strumenti incredibili per produrre videogiochi. Ma sta succedendo una cosa strana. Cioè che, ampliando, i giochi richiedono sempre più tempo per essere completati, ma i giocatori ne hanno sempre meno», nota Macrì. «L’attenzione degli esseri umani è diminuita molto con la vita più frenetica e i social network. Ed è strano vedere titoli sempre più grandi ma sempre meno completati dagli stessi giocatori». E continua: «Il pubblico fa un’equazione molto semplice: più tempo gioco, più il gioco è di qualità e quindi i miei soldi sono investiti bene. Perciò se un’azienda dice: “Noi abbiamo questa mappa gigante piena di cose da fare”, il suo gioco acquista un valore di tempo».
DustbornLa rivincita degli indie
Dall’essere rivoluzione all’essere trend disagevole per chi gioca e per chi li crea
«Creare un titolo open world era inizialmente non solo una scelta creativa, ma anche un modo per dimostrare una certa possibilità tecnologica rispetto ad altri videogiochi», spiega Tommaso Verde, 25 anni, cofondatore dello studio torinese Dramatic Iceberg. Ma, ora, i titoli a mondo aperto ricchi di contenuto, quelli che poi vengono venduti a 80 euro, sono passati dall’essere rivoluzione all’essere trend disagevole per chi gioca e per chi li crea. E forse, la scena indipendente ha una soluzione. I videogiochi fatturano miliardi, più di musica e cinema. Ora le aziende sono corporation, tra processi industriali standardizzati, quotazioni in borsa e azionisti di maggioranza. La produzione dei blockbuster (chiamati anche AAA) non conosce limiti, neanche quelli umani. E il mondo aperto è la scatola nera in cui inserire di tutto un po’, dimenticando di mettere al centro il mondo virtuale che ospita l’avventura, e i giocatori stessi.
«Per creare un mondo virtuale ci sono tanti elementi da prendere in considerazione», spiega Verde, che con il suo studio indipendente sta affrontando ora lo sviluppo di un piccolo gioco a mondo aperto. «Noi man mano ci stiamo rendendo conto che è sì una questione della mappa, ma anche una questione del giocatore, su come interagisce con questa mappa. Si può avere anche la mappa più grande del mondo, ma se il giocatore è velocissimo gli sembrerà piccolissima. Al contrario se hai un giocatore più lento e con una mappa immensa, non solo gli sembrerà infinita, ma esplorare quel mondo che hai creato diventa faticoso. Ci si sente sopraffatti».
L’obiettivo, secondo Verde, è creare un ambiente curato nel dettaglio, aperto ma più piccolo, rendendo il mondo partecipe della tua storia. «Oggi ci sono moltissimi videogiochi open world in cui la mappa di gioco è solo una cornice per la trama, che poteva essere quindi ambientata ovunque», dice. E aggiunge: «Chi gioca deve chiedersi: “Cosa c’è lì?”. Questa è la domanda costante che devi suscitare. Deve esserci qualcosa che ti cattura e che ti stimola a esplorare».
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