Dal 2017 Venice Immersive è la sezione del Festival del cinema che racconta le nuove tecnologie. I consulenti Rosenthal e Reilach: «Le differenti tecniche sono ora usate per suscitare emozioni»
L’isola del Lazzaretto Vecchio sorge davanti a Riva di Corinto, al Lido di Venezia. Sembra distante dal via vai dei vip del red carpet, ma un breve viaggio di vaporetto dimostra il contrario. Ed è lì, in quelle mura che una volta ospitavano gli appestati, che prende vita l’altra faccia della Mostra del Cinema di Venezia, ormai dal 2017: l’arte immersiva, realtà virtuale (VR), aumentata (AR) e mista (MR). Le nuove tecnologie e la narrazione all’avanguardia si incontrano in quel pezzo di terra nella laguna, che ospita per i giorni del Festival (fino al 7 settembre) una comunità internazionale, appassionata e in grande fermento: un movimento artistico a tutti gli effetti.
A curare l’area espositiva di Venice Immersive in questa 81esima edizione del Festival sono Liz Rosenthal e Michel Reilach, che parlano delle opere esposte quest’anno come di progetti sempre più vicini all’obiettivo generale della mostra.
«La forma d’arte immersiva sta maturando al punto che non è più affascinata dalla sua innovazione tecnologica, ma la tecnologia e le differenti tecniche per raccontare storie sono ora usate come strumenti per suscitare emozioni. Allo stesso modo di un quadro o di un libro», spiegano i consulenti. «Questo è un segnale che sta diventando ufficialmente una forma d’arte», aggiungono, sottolineando che l’elemento principale che ha guidato la loro scelta artistica è stato proprio il fattore emotivo.
Ventisei progetti in concorso, trenta fuori e sette progetti Biennale College: tra le proposte di quest’anno c’è la distopia firmata da Corinne Mazzoli e Marta Bianchi, con una visita a un immaginario museo delle torture, in cui viene ricostruita la storia dei Gossip, una comunità non binaria e multi-specie; c’è poi la possibilità di calarsi nei panni delle persone con Adhd grazie a Impulse: Playing with reality, di Barry Gene Murphy e May Abdalla, con la voce narrante dell’attrice hollywoodiana Tilda Swinton; c’è anche un’avventura VR di Kenichi Suzuki dedicata all’anime di Mobile Suit Gundam. E poi installazioni che fanno uso dell’intelligenza artificiale, come In the realm of Ripley dei sudcoreani Soo Eung Chuck Chae ed Eun Jung Chae: un’esperienza dove i visitatori VR e gli spettatori di una sala cinematografica sono mescolati, con un attore guidato dall’IA che interagisce con il pubblico cercando di risolvere un mistero.
Meno intelligenza artificiale
Quando si parla di nuove tecnologie, la parola intelligenza artificiale salta subito alla mente. Considerata ancora controversa in ambito creativo, e al centro di diverse proteste di artisti, scrittori e attori, l’IA, che l’hanno scorso a Venice Immersive aveva potuto mostrarsi attraverso alcune installazioni artistiche, quest’anno è molto meno presente. «Crediamo che l’intelligenza artificiale sia solo uno strumento, e tutti sanno che è solo uno strumento, non è un sostituto della creatività», spiegano i consulenti.
«Nel caso dell’opera coreana In the realm of Ripley, l’IA è una componente del progetto, non traina tutta la performance», aggiungono, facendo riferimento a un progetto presentato nel 2023 a Venice Immersive, Tulpamancer, che usava il machine learning per sperimentare possibili strade di narrativa personalizzata.
La bolla dell’IA, però, in quest’ultimo anno è esplosa, è si è mostrata per quello che è: una bolla. «Ora abbiamo bisogno di qualcosa in più della sola sperimentazione con l’IA, soprattutto visto che si sta esaurendo il fascino della prima ora», commentano Rosenthal e Reilhac.
Quest’anno, Venice Immersive ha ricevuto diverse proposte di progetti XR (extended reality, ndr) che proponevano in ottica artistica dei dialoghi con le intelligenze artificiali. «Ma abbiamo avuto l’impressione che non ci fosse niente di più di un dialogo, niente di più profondo», spiegano i consulenti. «Non abbiamo quindi sentito la necessità di avere altre installazioni di questo tipo, volevamo andare oltre e far vedere come le tecniche immersive possano produrre empatia, emozioni e connessioni».
Da online a offline
Gran parte dei lavori esposti nelle varie edizioni di Venice Immersive, differentemente dalla controparte cinematografica, hanno spesso avuto molte difficoltà a trovare distributori nei canali tradizionali e online. Il mondo della VR, dal punto di vista commerciale, è un terreno difficile, ed è trainato perlopiù dai videogiochi.
Lo scorso anno erano infatti diverse le esperienze artistiche che avevano elementi “di gioco”, come un’avventura di Wallace&Gromit, il celebre cartone dello studio Aardman, Pixel Ripped 1978 di Ana Ribeiro e Another fisherman’s tale di Alexis Moroz e Balthazar Auxietre. Quest’anno, invece, i consulenti hanno visto che la strada della distribuzione online vale per certe opere piuttosto che altre. E che forse era necessario andare controcorrente, gettando le basi per una piccola rivoluzione.
Nonostante la VR trasmetta subito l’idea di mondo online con tanti giocatori, come nel caso della piattaforma VR Chat (presente tra l’altro al Lazzaretto Vecchio con dei mondi creati dalla sua community), Rosenthal e Reilhac sostengono che sia importante anche la distribuzione offline, nei musei e come eventi artistici itineranti.
«Ovviamente, hai bisogno di una distribuzione per ricevere investimenti. Se non riesci ad avere pubblico, è difficile ricevere quel tipo di supporto», commentano i due consulenti. «Ma molti dei lavori che ci sono quest’anno vogliono incontrare il loro pubblico in loco. Perché, prima di tutto, molte persone non hanno visori per la realtà virtuale a casa».
Ci sono progetti che possono tenere fino a 200 persone insieme nello stesso spazio, ognuna con un visore VR. Ed è come un mini-cinema, spiegano. «Il pubblico è più pronto a questo genere di esperienza, possono indossare i visori avendo qualcuno che li aiuta, spiegando come funzionano e come si usano». E concludono: «Non sono soli. Sono con altre persone che condividono la stessa esperienza, nello stesso momento. E ciò rende questa forma d’arte molto più accessibile mentalmente» .
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