- Da oltre quarant’anni l’opera di Antony Gormley (Londra, 1950) è una riflessione sulla forma del corpo umano e le sue relazioni con lo spazio.
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Con costanza quasi ossessiva, la sua scultura indaga il valore della fisicità umana come soglia tra la dimensione interiore dell’uomo e il mondo.
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Il modo di Gormley di raffigurare il corpo umano si evolve negli anni attraverso l’utilizzo di materiali diversi: la terracotta, il ferro dolce modellato, le fusioni di metallo, l’acciaio, la ghisa e l’argilla. Abbandona l’idea di involucro e si concentra sulla visualizzazione dello spazio che è occupato dal corpo.
Da oltre quarant’anni l’opera di Antony Gormley (Londra, 1950) è una riflessione sulla forma del corpo umano e le sue relazioni con lo spazio. Con costanza quasi ossessiva, la sua scultura indaga il valore della fisicità umana come soglia tra la dimensione interiore dell’uomo e il mondo.
I suoi esordi, dopo gli studi di archeologia, antropologia e storia dell’arte a Cambridge e l’Accademia d’arte a Londra, fanno presagire poco in che direzione si svilupperà poi la sua poetica. Si tratta di un’arte dal forte sapore analitico: dispone sul pavimento pezzi di pane, allinea una serie di piccole semisfere di piombo, posiziona sezioni orizzontali di un tronco d’albero secondo uno schema concentrico o le impila in ordine decrescente di altezza a ricomporre alberi posticci. Scava segni concentrici dentro un ceppo di legno o li disegna su un sasso.
È una riflessione sui materiali e sulla relazione con ciò da cui provengono (legno-albero), oltre che un tentativo si riappropriarsi del significato degli oggetti, rinunciando alle sovrastrutture culturali con le quali li si guarda solitamente. Contemporaneamente a questi lavori ne realizza altri in cui fa già capolino la figura umana.
L’evoluzione
Dapprima scolpisce massi di media grandezza con l’impronta di braccia umane, poi è l’intero corpo a essere impresso sulla pietra. Siamo a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, ma già nel 1972, prima di iniziare gli studi d’arte, di ritorno da un viaggio di due anni in India che segnerà il suo modo di vedere il mondo, Gormley realizza due opere imbevendo con del gesso dei lenzuoli e poggiandoli su corpi umani rannicchiati perché ne assumano la forma. Il riferimento è all’immagine degli uomini che cercavano rifugio sotto leggeri sari di cotone, visti nelle stazioni o nei crocicchi di Darjeeling o Mumbai.
Quel che avviene dopo, lo stesso artista dice di capirlo meglio guardando l’opera di un artista apparentemente lontano da lui, che si è trovato a studiare in occasione della mostra Lucio Fontana/Antony Gormley, in corso al Negozio Olivetti di Piazza San Marco a Venezia.
«Fontana prende una tela, il luogo classico della figurazione, e vi incide un taglio. In un certo senso nega l’idea di mimesi e apre la via alla rappresentazione dell’infinito». Si tratterebbe, secondo l’artista inglese, di un approccio opposto e complementare al proprio: «Il mio modo di riconoscere la verità cosmica di un universo in continua espansione è quello di uscire dalla zona dell’apparenza percettiva. Basta chiudere gli occhi e ci si trova nell’oscurità, in uno spazio che non ha oggetti, dimensioni o età».
La rappresentazione
Il primo modo in cui Gormley cerca di rappresentare questo spazio è una serie di sculture che sono il calco del proprio corpo racchiuso da un involucro di piombo, sul quale si vedono le giunture, come se fossero le linee su un mappamondo. Una sorta di sarcofago impenetrabile, anche dalle radiazioni nucleari, a forma di figura umana.
Rise (1983-1984) rappresenta un uomo supino, con le spalle leggermente staccate dal pavimento. In Night (1983) la figura è seduta per terra e si tiene le gambe strette al petto. Non si tratta di immagini mimetiche ma, in quanto calchi, di “indici” di un corpo reale, che diventano metafora dell’invisibile. «Ciò che volevo mostrare non è l’involucro, ma lo spazio che in esso è contenuto, il buio che è dentro di me».
Il modo di Gormley di raffigurare il corpo umano si evolve negli anni attraverso l’utilizzo di materiali diversi: la terracotta, il ferro dolce modellato, le fusioni di metallo, l’acciaio, la ghisa e l’argilla. Abbandona l’idea di involucro e si concentra sulla visualizzazione dello spazio che è occupato dal corpo.
A volte è mostrato con intrecci caotici di linee, altre con strutture di segmenti ortogonali, altre ancora con blocchi di parallelepipedi di diversa misura. C’è sempre uno studio accurato delle proporzioni degli elementi e, di volta in volta, l’immagine creata comunica una sostanza più o meno dinamica, quasi che il contenuto nello spazio racchiuso dalla superficie del corpo possa agitarsi con poca o molta energia.
Colossi
In alcuni casi le dimensioni delle opere sono monumentali, come accade per una delle sue opere più iconiche: Angel of the North (1998), realizzato per la città di Gateshead, nel nord dell’Inghilterra, lungo l’autostrada A1. È un colosso in acciaio di forma umana, alto venti metri che, al posto delle braccia, presenta due ali larghe cinquantaquattro metri. Un’opera d’arte, ma anche d’ingegneria, visto che la scultura, di duecento tonnellate, poggiata su basamento di cemento di cinquemila quintali, è pensata per resistere al vento fino a centosessanta chilometri orari.
«Volevo realizzare un oggetto che fosse un punto di speranza in un momento doloroso di transizione per gli abitanti della zona, abbandonati nel passaggio tra l’era industriale e quella dell’informazione». Una presenza enigmatica nel paesaggio inglese, come presenze sono le sculture che Gormley ha spesso posizionato in scorci suggestivi in riva al mare o sopra i palazzi cittadini (nel 2019 una di queste è stata collocata in cima alla Loggia dei Mercanti a Firenze).
Un’altra opera di grandi dimensioni è Model (2012), un edificio a forma di corpo umano, lungo trentasette metri e composto da ventidue moduli di metallo a forma di parallelepipedo. Il visitatore può entrare e muoversi dentro la scultura «facendo l’esperienza di trovarsi nello stesso spazio infinito che si trova dentro opere come Rise o Night», spiega Gormley.
«L’idea su cui si fonda il mio lavoro – continua l’artista – è che la coscienza abita il corpo e il corpo abita l’architettura. Io uso la sintassi di quest’ultima per descrivere il nostro organismo come spazio dell’esperienza e della coscienza. Il mio è un invito a prendersi il tempo di riscoprire questa dimensione. Non mi interessa che chi guarda sia solo spettatore, ma che partecipi dell’opera. Per questo, quando è possibile, realizzo lavori dentro cui si può entrare e con cui si può interagire».
Interagire con l’opera
È il caso di Frame II (2021), la grande opera attorno alla quale ruota Body Space Time, la mostra in corso alla Galleria Continua di San Gimignano e che occupa l’ex platea del piccolo teatro, sede dello spazio espositivo. È una struttura composta da quaranta telai di alluminio che si compenetrano. L’intreccio delle linee vuole evocare, nelle intenzioni di Gormley, la terza posizione della sequenza di preghiera islamica, nella quale l’orante appoggia a terra ginocchia, avambracci e testa. «È la postura che esplicita che l’uomo dipende dalla volontà di Allah e dice anche della sua connessione con la terra. È, tra l’altro, la posizione in cui il corpo occupa il minimo spazio possibile». L’opera è aperta e, anche se ha le dimensioni di una casa, non può essere un rifugio. Si colloca dove una volta c’era la platea, dove il pubblico sedeva in silenzio, aspettando che si compisse l’azione teatrale. Era il luogo dell’attesa e dell’attenzione.
Tra le opere della mostra di San Gimignano ce n’è una, Compose (Block) (2021), che sembra alludere a un abbraccio, quando, solitamente, le sculture di Gormley rappresentano un solo corpo alla volta. «Sì, si tratta di un abbraccio. Ma non ha niente a che fare con un’idea romantica». L’artista mi mostra nello smartphone una fotografia che lo ritrae nudo mentre si aggrappa a una sua scultura a forma di corpo umano a grandezza naturale, fatta di parallelepipedi di ghisa e acciaio.
«È una riflessione sul rapporto tra lo scultore e la scultura. Penso abbia a che fare con l’ossessione di Michelangelo per l’immagine della Pietà che, forse, è la metafora della relazione tra scultore e l’inerzia della materia. Tra energia e stasi. In me c’è l’intenzione di creare un equivalente dell’esperienza umana che, in un certo senso, non può che contemplare anche la morte».
È stata realizzata in piena pandemia, quando era negato il contatto tra le persone. «Se fosse solo il tentativo di illustrare un’esigenza legata al periodo del Covid, sarebbe un fallimento completo. Desideravo che fosse una riflessone sull’esperienza della scultura, nella quale un corpo vivente tenta di imprimere a un pezzo di materia inerte la possibilità dell’empatia e del sentimento».
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