Nella Sala dello Scrutinio di Palazzo Ducale, a Venezia, quella in cui si svolgeva l’elezione del Doge, Anselm Kiefer ha coperto interamente le pareti in cui si trovano enormi teleri di artisti quali Tintoretto, Palma il Giovane e Andrea Vicentino con suoi dipinti, ponendosi idealmente in dialogo con Tiziano, Carpaccio, Bellini, presenti in altri ambienti del palazzo.

Questo gesto non indica un rifiuto della tradizione pittorica, ma assume il valore creativo della negazione. Nell’opera di Kiefer il fuoco ha da sempre svolto una funzione fondamentale, richiamando la simbologia dell’opus alchemico e, più in generale, dell’energia creativa e della luce, che viene evocata nel titolo di questa mostra, ripreso da un passo di un filosofo a lui caro, Andrea Emo: Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce.

Il riferimento è (anche) all’incendio che divorò nel 1577 la Sala dello Scrutinio. Da quelle fiamme, dalla distruzione e dalle rovine che produssero, ebbe origine una fase nuova nella storia di Venezia. Per Kiefer la Storia possiede la consistenza dell’argilla e assume la forma di chi la plasma, con esiti talora tragici, come sta accadendo anche in questi giorni.

L’arte deve contribuire, secondo lui, a mettere a confronto punti di vista differenti, non prospettare visioni in cui qualcuno pretenda di cogliere un disegno definito. La sua ricerca ci consente così di decostruire modelli storiografici che sono stati elaborati per legittimare progetti di egemonia e non per accrescere il sapere critico.

La negazione

Nel divenire Kiefer non riconosce la razionalità hegeliana, ma pensa, con Emo, che spesso «la storia paga i suoi creatori con la moneta dell’ingratitudine». La negazione è sempre presente nel suo lavoro: guardandosi indietro considera i suoi vecchi dipinti come cadaveri di cui attende la resurrezione.

Nel rappresentare la bara vuota di San Marco, dà immagine a un passo in cui Emo identifica la resurrezione di Cristo con la sua morte terrena. La bara vuota non indica tanto l’assenza del corpo del Santo, quanto il suo esser presente in altra forma. Emerge qui fortemente la suggestione di quel Dio negativo della teologia apofatica che diede il titolo alla raccolta degli scritti di Emo, pubblicati per la prima volta nel 1989 a cura di Massimo Donà e Romano Gasparotti, con la prefazione di Massimo Cacciari.

Il logos

Per Eraclito, i cui frammenti sembrano prendere forma nelle pagine di Emo e nelle immagini di Kiefer, il Logos, l’essenza del reale, si identifica con la coincidenza degli opposti, che rappresenta il principio dinamico del divenire. Nella nostra esperienza comune i contrasti più evidenti possono cogliersi nell’avvicendarsi del giorno e della notte e, in modo drammatico, nella vita e nella morte.

Nel Logos, come nel fuoco, ci dicono Eraclito e l’artista tedesco, questi contrasti coesistono. Ciò che alimenta il fuoco, qui reso manifesto nei libri bruciati che Kiefer ha incluso nei suoi dipinti, finisce infatti di essere ciò che era per trasformarsi, come avviene per la legna che diventa fiamma. Con questo atteggiamento Kiefer si è accostato alla storia e a Venezia, pensando che la negazione sia un momento essenziale per animare un rapporto aperto col passato, che va interrogato e non accolto in modo acritico.

In un momento in cui la proliferazione di immagini produce un’inflazione babelica nella comunicazione in generale, e nel linguaggio visivo in particolare, l’idea di negare l’immagine stessa, simbolicamente divorata alle fiamme, testimonia l’intento di Kiefer di ripensare il ruolo dell’artista, che, a suo avviso, deve dare nuova vita alla realtà. Il tema incrocia la ricerca artistica di Wim Wenders, che proprio per questo ha deciso di realizzare un film-documentario sull’opera di Kiefer.

Il regista tedesco ha riflettuto a lungo sul destino delle immagini che, in modo sempre più evidente, hanno perso il contatto col mondo, raccontando solo se stesse e rivelandosi in prevalenza come simulacri seduttivi. Queste considerazioni hanno condotto Wenders a privilegiare la forma del documentario, che restituisce alla realtà la sua concretezza. Le opere di Kiefer che mostrandosi intendono negarsi nel fuoco, coprendo altre opere della grande tradizione pittorica, ci costringono a riflettere sullo statuto dell’immagine oggi.

Ri-costruzione

Kiefer è nato nel 1945, alla fine della Seconda guerra mondiale e ricorda che da bambino i frammenti delle rovine causate dai bombardamenti erano gli elementi che utilizzava per le “costruzioni”, che erano i suoi giocattoli. La coincidenza degli opposti, la distruzione e la ricostruzione, prima che un principio filosofico e cosmologico, hanno così rappresentato per lui un’esperienza vissuta, una tonalità emotiva che lo ha segnato sin dall’infanzia e che riemerge qui nella grande tela in cui le fiamme avvolgono il Palazzo Ducale.

Nella Sala dello Scrutinio si avverte un coinvolgimento sinestetico legato all’uso di materiali come la paglia e la cenere. Si ha come l’impressione, a tratti, di vagare in un paesaggio di rovine in cui si aprono degli squarci verso un altrove. Attraverso i frammenti e le rovine della guerra Kiefer dialoga infatti con la Kabala, l’alchimia, la teologia negativa e i monumenti del passato. Nelle tappe che scandiscono la sua ricerca, il dirigersi verso l’alto è sempre legato a un radicamento, a un guardare verso il basso. 

La simbologia della Scala di Giacobbe più volte utilizzata dall’artista, e presente anche in questa mostra, incarna questa duplicità in cui la contemplazione del cosmo e la ricerca interiore si fronteggiano. A questa tensione che spinge verso l’alto non corrisponde però la certezza che il percorso possa giungere a compimento.

Le scarpe che troviamo accanto alla scala sono una testimonianza del fatto che tanti di questi viaggi si sono conclusi con un naufragio. È questo il rischio a cui si espone chi si incammina verso una radicale ricerca di senso. Se le figure angeliche che fiancheggiano la grande tela in cui è rappresentata la scala indicano che l’angelo congiunge i poli estremi della gerarchia celeste, le scarpe abbandonate ci ricordano la precarietà della condizione umana, i suoi slanci e i suoi fallimenti.

Venezia come metafora

Kiefer ha dichiarato di aver pensato a Venezia leggendo la seconda parte del Faust di Goethe. Tornano in mente i versi di quella discesa verso le madri, in cui la via in salita e la via in discesa indicano due direzioni opposte e insieme complementari di un itinerario spirituale. Venezia diviene allora la metafora in cui strade diverse si incrociano e si contrappongono: emerge dal mare da cui, al tempo stesso, rischia di essere risucchiata; ha da sempre rappresentato un avamposto dell’Occidente e, al tempo stesso, un luogo di incontro tra Oriente e Occidente. Le sue grandi tele delineano, in ogni momento, una realtà conflittuale. I sottomarini raffigurati proiettano drammaticamente sul presente la memoria epica del dominio esercitato da Venezia sul mare, nel corso della storia.

Il titolo che Kiefer ha voluto dare a questa mostra esprime il rapporto che lo lega al filosofo Andrea Emo. Per Emo il segreto dell’assoluto risiede nel fatto che l’atto creativo si identifica con il suo annichilirsi e l’io stesso, la soggettività, il pensiero, «possono essere solo in quanto non sono». La nostra stessa esistenza procede attraverso tagli talora dolorosi che avvertiamo come negazione di momenti in cui ci siamo anche pienamente riconosciuti. 

L’immagine, ci dice Kiefer con le parole di Emo, rivela il nostro nulla, perché «è l’atto stesso del nostro negarci». Venezia, in cui la monumentalità e la bellezza non sono mai separate da un senso di evanescenza e di caducità, incarna questa ambivalenza. Ecco perché la complessità della sua storia dialoga, nelle sale del Palazzo Ducale, con «le rovine contemporanee di un tragico tempo presente», come ha detto la direttrice dei Musei Civici di Venezia, Gabriella Belli, che insieme a Janne Sirén ha curato la mostra e il catalogo, edito da Marsilio Arte.


 

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