Non da oggi siamo circondati da fantasmi. Ma certo mai come in questo momento, ci sta dicendo il panorama culturale. E da ogni parte. Il cinema (nelle sale, come si diceva una volta, ma un po’ stanno resistendo oggi) è zeppo di realistiche figure di esistenze defunte, biologiche ed emotive, che risalgono in superficie.

Past Lives di Celine Song sta proprio lì a cercare di raccontarci come delicate porte girevoli possano anche essere percorse – guidando il fantasma di noi stessi verso la storia d’amore che doveva vincere, ma non è andata così – fino a tornare al punto di partenza, qui e ora, per farsi bastare quello che abbiamo. Mettendo al centro la meraviglia ormai opalescente delle “vite passate”, rende il presente un lago di dignitosa tristezza.

Stranieri di Andrew Haigh materializza papà e mamma scomparsi che – pur già tolleranti in vita – sono costretti dal maturo bell’uomo incarnato da Andrew Scott a essere ancora più benevoli mentre sono trascinati nella rimessa in scena dell’outing del figlio (e tutti lacrimano qui come pazzi, al cine). Figliolo a sua volta impegnato in una bellissima ed evanescente storia condominiale con un lavoratore precario, strafattone e dolcissimo – e chissà se vivo o no – che ha il corpo e la faccia irresistibile di Paul Mescal.

Lo stesso The zone of interest di Jonathan Glazer si muove tra l’impeccabile decor pastello della famigliola del capo di Auschwitz e i fantasmi reali di quello che noi assolutamente non vediamo ma che urla e crepa in massa dietro il muro accanto all’orto (tutto lasciato al solo audio, che non a caso ha ricevuto un Academy Award).

Per questo le sequenze-radiografie in bianco e nero – e che raccontano l’inconscio, perlomeno – sono essenziali per interrompere l’apparenza di zucchero e crinolina che glassa gli orrori che perseguiteranno per tutta la vita (in forma di incubo) i bambinetti che regolarmente vediamo andare a scuola, con completini impeccabili.

Ghostare

La stessa seppur bidimensionale serie di Netflix, Supersex – per saltare di palo in frasca – ha come perno narrativo fin dall’inizio la figura di finto-vero revenant (interpretata da un Andriano Giannini in grandissima forma) a controbilanciare la vita turbofallicissima del Siffredi incarnato altrettanto perfettamente da Alessandro Borghi, in modo da dare appunto un certa terza dimensione – il passato che non muore e che ritorna e riporta alla merda dell’origine, delle botte, del sangue, della morte – al lineare plot disegnato con il righello dalla comunque meritevole Francesca Maniero.

Del resto nessun termine si è diffuso in maniera così veloce negli ultimi anni come “ghostare”: chiudere i contatti via social media, o non rispondere al telefono (quest’ultimo, sappiamo, è il tentativo di disperazione massima che uno/a può fare).

“Ghosting” è ridurre appunto l’altro a fantasma, scaraventandolo fuori dall’esposizione di sé e fuori da una vita già fragilizzata da relazioni delicatissime e pronte a crollare in un secondo, proprio perché non più scrollabili.

Per poi finire – perché non più visti – a essere perseguitati dal terrore e dalla conseguente maledizione di noi stessi.

Gli spettri

Nessuno come il compianto Mark Fisher ha saputo raccontare come l’’hauntology’ – la cultura dell’apparizione di fantasmi di morti non sepolti – sia parte essenziale del capitalismo contemporaneo da decenni o meglio del “realismo capitalista”, saggio che mai smette di vendere in Italia dopo anni e anni (uscito da Nero, tutto il catalogo l’ha pubblicato invece Minimum Fax). Facile sarebbe oltretutto leggere in senso “fisheriano” l’intero repertorio di “Dagospia”, attentissimo all’emersione di scheletri nell’armadio e revenant attovagliati.

Non sempre gli spettri debbono essere necessariamente sottoterra: la prima serata della direzione intrattenimento prime time della Rai (altra definizione da seduta spiritica) vede meraviglie di ogni tipo, dal robot Baglioni a un’evanescente e semitrasparente Patti Pravo, eppoi l’incubo di un “The Voice Senior” o la costante programmazione priva di vita che spesso si vede sparata dentro le sale delle case di riposto per malati d’Alzheimer (detto per esperienza personale), per essere non-vista da quasi non-viventi.

In assoluto, quello che ormai si chiama post-entertainment ha da tempo mollato gli ormeggi: dallo straordinario successo a Londra degli ologrammi degli Abba alle infinite possibilità date dal repertorio senza fondo di star defunte generato dall’intelligenza artificiale.

La risorgenza post-mortem è comunque giacimento economico che l’economia culturale dell’arte ben conosce. Non a caso la star del già ultracelebrato padiglione Vaticano della prossima Biennale di Venezia (con tanto di visita papale già annunciata, durante l’opening) presso il carcere femminile della Giudecca sarà la defunta sister Korine Kent, una suora californiana accusata di essere comunista e che prima della sentenza se la svignò dal monastero per vivere con un’amante. Chapeau.

A proposito di California, alla fantastica figura trapassata di Paul Thek è dedicato l’intero progetto dell’impeccabile mostra di Alessandro Di Pietro in corso alla Fondazione Del Roscio a Roma, fino al 5 Aprile, il cui titolo è – guarda un po’ – “Ghostwriting Paul Thek: Time Capsules and Reliquaries”. E via così.

Buona fortuna ai vivi, a questo punto.

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