«Turpe senex miles, turpe senilis amor» scriveva il poeta Ovidio ancora ventenne negli Amores, e nel primo Secolo a.c., a nessuno sarebbe mai venuto in mente di accusarlo di ageism. Nel primo Secolo a.c., in effetti, nessuno aveva internet, né tantomeno un abbonamento Netflix su cui poter fare binge watching di serie televisive che negli amori senili, per grande dispiacere del giovane Ovidio, ci sguazzano. Sono trascorsi appena dieci anni da quando il colosso dello streaming statunitense lanciò sul mercato dell'audiovisivo il prodotto che avrebbe sconvolto l’intera industria dell’intrattenimento mondiale, House of Cards: la qualità, gli episodi girati da Fincher, Kevin Spacey e la rivoluzione degli abbonamenti che eliminavano per sempre il fastidio della pubblicità, la lontananza netta con la televisione classica e con i suoi modelli novecenteschi e superati. Poco più di dieci anni in cui, da rivoluzionaria del settore, Netflix ha fatto il giro completo su sé stessa, tornando non solo agli inserti pubblicitari ma anche all’origine di tutti i contenuti, quelli da cui prendeva orgoglisamente le distanze, la sostanza di cui sono fatti i sogni televisivi e i grandi numeri generalisti, ossia la soap opera, gli amori proibiti, le storie che il poeta latino avrebbe definito senza mezze misure «turpi».

Tra le serie televisive più viste sulla piattaforma a livello globale, infatti, in questo momento, c’è l’italianissima Inganno, un thriller erotico firmato da Pappi Corsicato che, per forma e contenuto, più che Fincher ricorda una fiction di Rai 1, caratteristica che, al netto dei facili snobismi, ne ha determinato anche l’enorme successo.

Si tratta di un racconto lineare, con uno sfondo asettico e genericamente associabile a un’atmosfera vacanziera italiana – come ben sappiamo, i turisti amano Amalfi e i suoi limoni, e di limoni ne sono piene le inquadrature – in cui la vita della proprietaria di un albergo di lusso si intreccia con quella di un uomo dal passato fumoso, e fino a qui tutto bene.

Ci sono gli alti e i bassi in ogni episodio, i colpi di scena, i flashback, i personaggi ambigui, c’è la dizione teatrale di tutti gli attori che prendono parte alla messa in scena allontanando qualsiasi connotazione regionale che il set suggerirebbe e ci sono tante, tantissime inquadrature fatte con i droni che volano a picco sulla bellezza della costiera amalfitana per sottolineare il tono evocativo e drammatico del prodotto, scandito da un motivo musicale che ricorda gli archi di Gocce di memoria.

Ci sono tutti questi elementi, e poi c’è il nucleo narrativo su cui ruota la vicenda di Inganno, che non sono la pistola nascosta nel termosifone, né i ricordi del passato glorioso anni Ottanta dell’albergo che riemergono e nemmeno le tracce di contemporaneità distribuite sui personaggi più giovani come il figlio adolescente che parla di GenZ e fluidità di genere, ma l’età dei due personaggi principali, Gabriella ed Elia.

Topos intramontabile

Gabriella ed Elia, rispettivamente interpretati da Monica Guerritore e Giacomo Gianniotti, sono i protagonisti di un amore tormentato, e non solo perché il passato di entrambi appare poco chiaro e ricco di misteri noir. I due innamorati, travolti da sentimenti passionali che si concretizzano in scene di sesso piuttosto frequenti ed esplicite, hanno trent’anni di differenza, un dettaglio che, durante tutta la durata di Inganno, ciascuno attorno a loro si premura di sottolineare. Perché in effetti, già dal titolo dovremmo avere chiaro il fatto che la povera Gabriella, ricca, sola, depressa, annoiata, si trova di fronte alla versione live action di una di quelle truffe digitali che coinvolgono persone in età avanzata tramite mail fantasiose; e niente, nel modo in cui Gabriella agisce di fronte a ciò che sembra essere evidentemente una frode, lascia intendere che la povera donna frastornata dai sentimenti sia lucida.

In sostanza, il sottotesto di Inganno, nonostante il finale – spoiler alert – in cui a trionfare è l’amore e non i tentativi dei figli di salvare il patrimonio di famiglia portando in tribunale Elia, dopo che questo ha fatto sparire ingenti somme di denaro dal conto della madre e dopo che la sua ex fidanzata si è presentata in albergo incinta di lui, è che nella liason tra una donna di sessant’anni e un uomo di trenta c’è per forza di cose una vena di follia.

Follia, trasgressione, incoscienza: dalla irraggiungibile e idealizzata Mrs. Robinson de Il Laureato a Julie Cooper, madre degenera della protagonista di The O.C., Marissa Cooper, che ha un intrallazzo con l’ex fidanzato adolescente della figlia, passando per le origini chiacchierate dell’amore tra Brigitte ed Emmanuel Macron a Samantha Jones di Sex And The City con il suo toy boy Smith Jerrod, devoto e sottomesso, la donna adulta che cade nelle braccia del giovane aitante è un topos narrativo di cui ci nutriamo da decenni, senza farci troppe domande sul perché questo dislivello presupponga sempre una striatura di proibito nel migliori dei casi o di malsano nei peggiori.

Stereotipi di successo

Il gioco del «immaginiamolo a sessi invertiti» non funziona, perché se le cose vanno così è proprio perché i sessi, ad oggi, hanno ancora questa specifica collocazione, comprese le disparità e le differenze: una donna di trentacinque anni che prova a truffare un uomo di sessanta può essere un racconto avvincente, se ben condito da elementi di thriller e colpi di scena, ma per fare sì che ci sia realmente un elemento di scandalo, come quello che suscita la vista di Gabriella ed Elia abbarbicati e nudi tra gli impeti della passione carnale, la ragazza in questione dovrebbe avere come minimo dieci anni di meno e l’uomo dieci di più.

Per il resto, la differenza d’età, anche quando si tratta di trent’anni, nella dinamica inversa rispetto a quella di Inganno ha una connotazione molto meno peccaminosa. Se ci fossimo scandalizzati per ogni Bond Girl o per ogni fidanzata under 25 di Leonardo Di Caprio, giusto per fare due esempi pescati da un bacino infinito di casi in cui la giovinezza femminile non fa alcun tipo di effetto straniante, forse la serie avrebbe avuto un impatto diverso sul pubblico, considerato anche che a guardare serie televisive sono perlopiù donne.

La colpa di Inganno, se di colpa vogliamo parlare, è quella di aver raccontato in modo poco verosimile – o con grande libertà narrativa, dipende dal proprio grado di sospensione dell’incredulità – un sentimento che, al contrario degli espedienti narrativi usati dalla serie, è ben radicato nella nostra realtà. Quando un prodotto del genere ha così tanto successo, infatti, vuol dire che ha colto nel segno, al di là delle ambizioni cinematografiche che poteva avere in partenza.

L’associazione immediata e carica di giudizio tra la perdita di senno di una sessantenne che si lascia pilotare dalla volontà di un trentenne muscoloso e il loro amore disperato che va contro tutto e tutti è un riflesso automatico che siamo portati a fare non solo per la trama scricchiolante (e dozzinale, a tratti) di Inganno, ma anche a causa del rapporto spinoso che abbiamo con l’invecchiamento femminile e con tutto ciò che ne consegue, compresa la vita sessuale. Il fatto che Netflix, imbracciata ormai la battaglia della quantità e dell’algoritmo se ne serva con furbizia, pescando a piene mani da generi da cui un tempo teneva le distanze e ottenendo così tanto successo, ne è una dimostrazione. E si potrebbe dire, forse, che più che l’amore senile è la facilità con cui si cavalcano gli stereotipi, specialmente se riguardano le donne, a essere turpe.

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