«L’amicizia tra due ragazze è più grandiosa e drammatica di qualsiasi storia d’amore» scriveva Hannah Horvath in una puntata di Girls, la serie creata da Lena Dunham che più di qualsiasi altra ha raccontato le ragazze della mia generazione (quella delle insopportabili millennial con velleità creative, per capirci).

Girls è finita nel 2017, ma continua a essere rilevante, non solo perché mette in scena personaggi che ci somigliano e parlano anche alle versioni peggiori di noi – come vuole la grande tradizione della coralità femminile, da Piccole donne a Il gruppo di Mary McCarthy a Sex and the City – permettendoci di ritrovarci tutte, più o meno, nella sensibilità di un personaggio, ma anche perché nel frattempo le ragazze sono diventate molto interessanti per il mainstream.

Il 2023 è stato definito the year of the girl dal New York Magazine, Taylor Swift ha in mano il destino del suo paese e anche se Oppenheimer ha sbancato agli Oscar, è stato Barbie di Greta Gerwig il vero fenomeno pop della stagione, per non parlare di Bella Baxter e di tutti i discorsi sul femminile che ha aperto Poor Things di Yorgos Lanthimos.

Solo marketing?

Certo, il confine tra rappresentazione e target marketing è molto sottile – gli Anni 50 erano years of the girl o volevano solo venderci gli aspirapolvere? – ma non risolveremo la questione in una pagina di giornale.

Per approfondire la storia culturale delle ragazze segnalo quindi un piccolo libro molto intelligente uscito qualche mese fa che si chiama Sad girl. La ragazza come teoria di Sara Marzullo (pubblicato da 66th and 2nd), che a un certo punto si chiede «se l’attenzione di cui godono le ragazze sia qualcosa di cui gioire o una colla vischiosa da cui non ci si può liberare».

Perlopiù io direi che le ragazze stanno bene e continuano a prosperare anche in questo 2024. Ho ripensato al libro di Marzullo proprio questa settimana, quando senza la scusa di avere dei figli da accompagnare al cinema sono andata a vedere Inside Out 2, solo per appurare che i bambini in sala si contavano sulle dita di una mano.

In questo sequel siamo sempre dentro la testa di Riley, la giovane protagonista che nel primo film del 2015 scopriva la tristezza e che ora ritroviamo tredicenne, alle soglie della pubertà, travolta da un’onda anomala di nuove emozioni: Ansia, Invidia, Imbarazzo e Ennui (quel misto di noia, indolenza e male di vivere che si esprime giustamente con l’accento francese).

Le nuove emozioni si piazzano nel centro di controllo della testa di Riley in un momento piuttosto delicato, sostituendosi alle emozioni che invece Riley aveva già imparato a conoscere: Gioia, Tristezza, Paura, Rabbia e Disgusto. Una semplificazione straordinariamente accurata, almeno per quello che ricordo io dei miei tredici anni, anche se, se sulla carta non si trattasse ancora di un film per bambini, avrebbero dovuto aggiungere l’ormone pazzo.

I miei tredici anni

Nei giorni successivi alla visione di Inside Out 2, che merita un posto d’onore nella mia personale classifica in quanto primo film della Pixar da cui non sono uscita brutta e in lacrime, ho ripensato molto ai miei tredici anni – Nostalgia fa capolino un paio di volte nella testa di Riley nei panni di una vecchia signora che viene cacciata indietro, per lei è troppo presto – e ho concluso che Inside Out 2 è praticamente un documentario, per la precisione con cui coglie i primi orrendi sprazzi di adolescenza: gli sbalzi di umore, l’ansia sociale, trattare male la propria madre come elemento fondativo della personalità. Tutti passaggi rituali che mi ricordo bene, pur avendo abitato l’infanzia un po’ più a lungo di alcune mie coetanee.

A tredici anni non avevo dato il primo bacio, non avevo le mestruazioni, l’ormone faceva capolino ma non era pazzo, era romantico, e si manifestava sotto forma di fantasie di vacanze studio a casa di Daniel Radcliffe. Passavo tantissimo tempo nella casa in campagna della mia amica del cuore e insieme raccoglievano pomodori per divertimento e correvamo nei campi di gran turco tra le foglie affilate, tornando a casa coperte di graffi come se ci avessero frustato con un gatto a nove code.

Giravamo dei piccoli filmati con una macchina fotografica – i nostri primi cellulari erano praticamente delle calcolatrici un po’ più sofisticate – esibendoci sulle balle di fieno e facendo a gara a chi raggiungeva il ramo più alto del ciliegio (lei ovviamente, era una scimmia). Grandiose, drammatiche.

Qualcosa cambia

Nel bivio tra bambine e ragazze noi eravamo più di qua che di là, ed è proprio questo che il film della Pixar mi sembra colga meglio di un trattato di sociologia: a un certo punto, non si sa bene come, non si sa bene perché, qualcosa cambia. Non ci si arrampica più, non si corre più, ci si guarda allo specchio più del dovuto. Non si va più da nessuna parte senza deodorante e si ripensa per giorni, mesi, a un’interazione imbarazzante che si è consumata in presenza di un maschio. Ci si fa schifo e si fa schifo e si cambiano le amiche, e a volte non si finisce mai, è un fenomeno tettonico che continua ben oltre l’adolescenza.

«It’s so confusing sometimes to be a girl», che confusione essere una ragazza, cantano Charli XCX e Lorde, le due popstar che si sono odiate e amate e ora sono protagoniste della cosiddetta Brat Summer. BRAT, ragazzaccia, è il titolo dell’album di Charli XCX che tutte stiamo ascoltando per sentirci giovani e cool, prigioniere della solita colla vischiosa.

Intanto aspetto con impazienza i prossimi Inside Out, in cui Riley scoprirà l’autocommiserazione, le molestie sessuali e fingere di avere un impegno pregresso per non uscire la sera. Diventerà una brava persona? Sensibile e altruista? O come me si troverà a pensare che niente ti fa diventare di destra come pagare le tasse a luglio? Spero che la Pixar continui sulla strada della verosimiglianza, io di certo starò a guardare.

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