Qual è il senso della letteratura oggi? È una spia della fase politica e spirituale che stiamo attraversando. Una fase non certo di progresso, nonostante la rivoluzione digitale, dove “social” e “realtà” sono quasi diventati sinonimi. Tornare alla letteratura significa raccontare l’incertezza di un tempo diverso, antagonista rispetto a quello dei social, capace di accogliere più elementi contemporaneamente, che ci permetta di sospendere il giudizio, tentare altre strade
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
La letteratura non accade nel vuoto pneumatico. Viene scritta nel mondo, da persone concrete, inserite in una precisa epoca storica, nei suoi problemi, tensioni, risorse, contraddizioni. La letteratura in questo senso è uno specchio, ma è, o dovrebbe anche essere, una disciplina specifica, una pratica autonoma, in qualche caso una vocazione, con le sue regole, i suoi motivi, i suoi scopi non riducibili completamente ad altri ambiti dell’esperienza.
Il mio intento, scrivendo queste righe, è quello di provare a dire qualcosa sul senso della letteratura oggi, sul suo posto, se un senso e un posto può ancora averli. Non vorrei fare però solo un discorso specialistico, settoriale: credo infatti che lo stato della letteratura oggi sia strettamente connesso alla fase politica e spirituale che stiamo attraversando. Che ne sia una spia, un sintomo. Una fase difficile, inquietanti per molti, certo non una fase di progresso, nonostante la rivoluzione digitale e la moltiplicazione dei centri del dibattito generata dalle piattaforme. Il mio sarà perciò un discorso ambizioso, forse troppo, interessato a riunire, collegare, più che a individuare/proteggere i confini di una disciplina. Un discorso sul perché abbiamo ancora bisogno della letteratura e, per così dire, di tutte le storie possibili.
Una precisazione e un’intonazione emotiva
Subito una precisazione e un’intonazione emotiva. La precisazione: userò il termine “letteratura” riferendomi sì alla letteratura in senso stretto, alla produzione editoriale di romanzi e racconti, ma anche in senso più generale, intendendo con letteratura la ricerca sulla natura umana, e sul mondo, condotta attraverso una riflessione estetica che passa principalmente attraverso il linguaggio, ma che può coinvolgere anche le immagini e i suoni: in questo senso credo che “letterario/a” sia un gradiente utilizzabile anche per parlare di opere cinematografiche, serie tv, testi canzoni, arti visive. Una qualità, un tipo di intenzione, uno stile di interazione col mondo.
Per quanto riguarda invece l’intonazione emotiva, confesso di prendere parola a partire da un certo imbarazzo, da un senso di disagio, perché, date le mie caratteristiche, la mia storia e il mio lavoro, le cose scritte fino a questo momento, mi sento particolarmente esposto alle tensioni di cui vi vorrei parlare. Sono omosessuale, balbuziente, sieropositivo e vengo dalle classi subalterne, dalle case popolari della periferia milanese: riunisco in me molte forme di marginalità. Ma, accanto a questi tratti, che non ho scelto, amo anche scrivere e amo leggere. Di più: amo stare nel mondo e osservarlo attraverso quella postura specifica che è, appunto, la letteratura. Pratica che ha bisogno di libertà e interesse per lo sconosciuto, disponibilità a assumersi rischi, usare molto, tutto di sé stessi, disponibilità a compromettersi, violando aspettative e comodità: tutte qualità che oggi sembriamo non poterci più tanto permettere.
Logica binaria
La letteratura non avviene nel vuoto pneumatico, dicevo, avviene nel mondo. E il mondo è stato rivoluzionato dal digitale e dai social network. Lo è stato a tal punto che faccio ormai fatica a pronunciare questa parola “social”, “social network”, come se si trattasse di uno strumento tra i tanti, qualcosa di delimitato, parziale. Passiamo moltissimo tempo sullo smartphone, e la mia tentazione è ormai quella di usare “social” e “mondo”, “realtà”, come sinonimi. Perché ciò che accade online determina in modo diretto ciò che accade fuori, anche solo limitandoci al tema di queste righe, al mondo culturale, alle redazioni, ai giornali, alle case editrici. Le regole dei social sono ormai le regole del mondo. Veniamo spinti, anche come autori, autrici, a sentirci il brand di noi stessi: specie se apparteniamo a comunità storicamente oppresse, come quella LGBTQIA+ o delle donne, sentiamo la necessità sociale, dato il periodo, di prendere posizione, ma sentiamo anche, sarò onesto, l’occasione, l’invito a sfruttare il flusso comunicativo in cui il piano dell’impegno, della difesa di valori, e quello dell’autopromozione si fondono. I social hanno regole del gioco non scritte, a cui tutti siamo sottoposti: in queste regole il modello di business delle piattaforme unisce la dimensione della lotta da partito (più che politica) a quella del nutrimento narcisistico, e il risultato è un clima di contrapposizione perenne, di identità rigidissime, bidimensionali, che si fronteggiano. La ricomposizione del conflitto non viene mai promossa, perché il sogno di distruzione dell’avversario – il migrante o il maschio, la femminista o il razzista – diventa anche occasione di crescita del proprio personal brand, in termini di like, commenti, condivisioni, dato che ogni scontro è pubblico, avviene sotto gli occhi degli altri. E questo vale ovviamente a maggior ragione per chi sta nei partiti.
Siamo immersi in un clima di storie tutte simili, in cui c’è molto storytelling – produco una narrazione sulla base di una precisa esigenza comunicativa, come in un’agenzia pubblicitaria – e poca letteratura; molti slogan, motti, parole-chiave/hashtag che tornano ossessivamente e poco linguaggio, poca riflessione sorgiva, originale. Una degradazione del pensiero e della lingua che mi fa spesso sentire come il protagonista della Lettera di Lord Chandos di Hugo von Hofmannsthal, sprofondato in una crisi per lo svuotamento di senso delle parole, che “si disfano come muffe e funghi”. Un testo che anticipò le ricerche di Wittgenstein e ispirò il lavoro di Edmund Husserl, padre della fenomenologia, e che, in modo inatteso, a un certo punto ho cominciato a collegare all’effetto che mi fa vivere questi anni in cui il rapporto tra utente e strumento si è capovolto.
L’importante è essere semplici e duali
Oggi, specie parlando di identità, corpi e relazioni, le posizioni in campo sono due e solo due: ogni terza via è disincentivata, dato che non paga dal punto di vista della visibilità. Se vuoi essere rilevante non devi complicare il quadro, non devi fare confusione, e tutti oggi vogliono essere (solo?) rilevanti. Le regole del gioco le impari giocando: se scrivi due cose meditate, non schierante, che non funzionano, alla terza facilmente accetterai la logica binaria e contundente. Non si deve pensare e non si deve raccontare davvero: il ricatto sotterraneo funziona così. Se ti adegui sarai amato, verrai visto, chiamato, riceverai contratti, inviti, collaborazioni, la community ti sarà fedele e crescerà. L’importante è essere semplici e duali, possibilmente in modo impietoso, ovvero rimuovendo i punti di somiglianza, dimenticando o negando che dall’altra parte ci sia un essere umano.
Se apparteniamo a comunità marginalizzate veniamo inchiodati ai nostri traumi: sentiamo che sono quelli e solo quelli che ci assicureranno l’amore dell’altro, sono quelli e solo quelli per cui veniamo convocati sulla scena pubblica. Il queer per parlare di queer, la nera per parlare di neri, il corpo non conforme per parlare di corpi non conformi. Non dobbiamo immaginare, sconfinare, non dobbiamo accendere troppo la mente, i sensi, la capacità critica: non dobbiamo esserci davvero. Molto meglio stare al proprio posto: ripeterci, confermare di essere esattamente dove gli altri si aspettano di trovarci. E poco importa se l’interesse di quello scrittore afrodiscendente sarebbero, chessò, gli animali, l’esoterismo o l’intelligenza artificiale, o se quella giovane scrittrice preferirebbe parlare di miti indiani o antropologia del tardo capitalismo che di condizione della donna: la prospettiva è sempre strettamente identitaria e soprattutto promozionale, commerciale.
La letteratura può essere politica
Spesso il termine “politica” viene usato come un marchio nobile, un sigillo in grado di elevare qualsiasi discorso o comportamento: in realtà io credo che politica si dica in tanti modi, e sono d’accordo con Simone Weil che, scetticamente, nel suo Manifesto per la soppressione dei partiti politici metteva in guardia dai pericoli della cosiddetta “bestia sociale”, dal contagio emotivo, dal condizionamento al ribasso che la traduzione pratica dell’idea di politica può produrre. Perché un conto è la vocazione politica intesa come sguardo ampio, che ci riporta alla classicità e alla filosofia, e che collega il singolo ai molti, l’atteggiamento di cura/riparazione verso la comunità, una volontà di tenere conto del pluralismo, dei tanti valori in gioco, superando i limiti della visione individualistica, ben altro piano è invece la trama di interessi e profitti che sfrutta l’idea di comunità come pretesto, semplificando per aggredire meglio, specie oggi dove fare attivismo costa al massimo una storia o un carosello su Instagram, dove l’elemento del sacrificio – uso il mio tempo, il mio corpo, pezzi della mia vita per il bene altrui – è, di fatto, escluso.
La letteratura può essere politica, e ci sono grandi esempi di autori impegnati – Pavese, Fenoglio, Pasolini, Maraini, Toni Morrison, Margaret Atwood, Doris Lessing, James Baldwin, Salman Rushdie e la lista può continuare a lungo – ma nessuno di questi si è mai trovato a fare i conti con una versione così performativa dell’impegno. Da studente di filosofia mi appassionai molto alla tradizione fenomenologica, perciò ho grande interesse per le distinzioni: la letteratura può avere valore politico, ma, vorrei dire, è una pratica autonoma. La politica – intesa in senso concreto, attivo – è un tipo di rapporto col mondo pragmatico, strategico, utilitaristico, finalizzato a obiettivi specifici. Se voglio ottenere un certo risultato – anche sacrosanto, un obiettivo di giustizia – orienterò le mie risorse linguistiche, narrative in quella direzione. Racconterò certe storie e non altre. Perché non è utile, strategico, economico guardarsi attorno, né guardarsi dentro: se voglio ottenere più diritti, poniamo, per gli omosessuali non metterò in circolo storie di omosessuali anche solo ambigui, equivoci, animati da sentimenti ambivalenti o capaci di suscitare reazioni miste. Ma il punto è che le persone – tutte le persone – sono precisamente così: ambigue, più o meno controverse, animate da sentimenti ambivalenti. Nessuna persona reale, vista da vicino, conosciuta a fondo, può essere ridotta a una categoria, a una funzione di un programma politico. Neanche di un programma giusto, virtuoso. E forse una differenza importante tra letteratura e politica è che la letteratura dovrebbe sempre prendersi l’impegno di guardare la natura umana da vicino, esporsi all’evenienza di rendere conto di tutto ciò che si trova davanti, e non solo di ciò che è proficuo, utile, di ciò che già sa di voler trovare.
Il rapporto con la verità
Il problema del rapporto tra letteratura e politica è perciò anche un problema di rapporto con la verità. Va detto però anche che il momento attuale è un momento di grande fragilità, dove molti sentono di non potersi permettere il lusso di un’opinione davvero propria, di una storia nuova. Tutti vogliono dire la cosa giusta, sentirsi al sicuro, e quindi ripetono pensieri e storie già in circolo. Viviamo, credo, in un periodo a bassissimo tasso di creatività.
I social hanno generato un unico discorso di massa, dove confluisce ogni cosa, spalmato orizzontalmente nelle reaction istantanee: in questo assetto in cui tutto è opinione e autodifesa – in cui si commenta con la stessa velocità e gli stessi presupposti un libro, un film, un fatto di cronaca, le dichiarazioni di un attore e le gaffe di una conduttrice – la letteratura rischia di ridursi ad appendice di un discorso già dato, immodificabile, prolungamento o applicazione narrativa di una serie di idee fisse, da promuovere, sponsorizzare. Rischia di ridursi, appunto, a storytelling, pratica che della letteratura ha, forse, la forma superficiale ma non il nucleo di senso.
Le cose che non ho scelto e quelle che ho scelto
Potrà forse sembrare strano che sia io, proprio io a dire queste parole. Io che ho scritto un libro, Febbre, sulla mia infanzia da bambino queer delle case popolari della periferia, tra violenza domestica e bullismo, divenuto poi, sempre nel mio esordio, un trentenne investito da una diagnosi inaspettata e gravata dallo stigma. Ma sono arrivato a maturare questi pensieri proprio sulla base del fatto che il mio primo libro ha riversato su di me un’aura che a un certo punto ho iniziato a sentire limitante, inautentica, falsa. Un’aura comoda, di virtù, che mi assicurava (e mi assicura ancora, se non mi sottraggo) visibilità, ma a scapito della fedeltà a me stesso. Perché io certamente ho subito, e subisco, e ho paura di molte cose, ad esempio quando mi trovo solo per strada, esposto a ciò che altre volte nella mia vita è successo. Ma io sono anche una persona difficile, impegnativa per chi mi sta attorno. Sono un provocatore, a volte sono brusco, poco sensibile, geloso, invidioso, elusivo, infedele, ingrato. Sono una persona che ha desideri e che, nel perseguirli, non sempre tocca in modo esemplare la vita degli altri.
Un dato oggi rimosso è anche questo: spesso le persone che vengono dai margini sono ingombranti, spigolose, hanno resistito o imparato a difendersi. A volte rimettono in circolo, in modo imprevisto, diretto o indiretto, le aggressioni e gli oltraggi che gli sono stati riservati. Le vittime spesso sono vittime imperfette: il trauma le rende dure, tese, sulla difensiva, faticose. A loro volta, in certe occasioni, colpevoli.
Inoltre, non ho scelto di essere gay, balbuziente, sieropositivo o di nascere povero, mentre ho scelto i libri, le storie, le parole, ho scelto di scrivere. E troppo spesso, in questi anni, mi sono sentito coinvolgere più per le cose che non ho scelto che per quelle che ho scelto. Rappresentante, testimonianza ambulante, obolo umano da pagare alla causa del posizionamento corretto.
Lo sguardo da coltivare
Abbiamo bisogno di più letteratura, perché abbiamo bisogno di un luogo in cui coltivare quello sguardo ampio su noi stessi e gli altri che altrove non possiamo permetterci di praticare. Per esempio, quando siamo costretti a difenderci da una politica cinica, disumanizzante, o quando proviamo a correggere stati del mondo ingiusti. La politica – di ogni colore –, come dicevo, ha i suoi meccanismi, include una quota di rimozione, di occultamenti strategici, e per questo io non credo che tutto, come si sente dire talvolta, sia politica. Perlomeno credo che non tutto debba essere difesa ossessiva della propria fazione, del proprio interesse, del proprio singolo tratto identitario: la nostra vita psichica ha bisogno anche di altro. Rifiuto questo stato di minorità eterna, questa fragilità con lo sguardo rasoterra. Carmen Maria Machado nel libro Nella casa dei tuoi sogni parla, ad esempio, della necessità di creare personaggi queer scomodi: “Ci meritiamo una rappresentazione delle nostre malefatte pari a quella delle nostre gesta eroiche, perché quando rifiutiamo l’idea che un gruppo di persone possa compiere delle malefatte stiamo rifiutando la sua umanità. Cioè i queer – quelli della vita vera – non meritano rappresentazione, protezione e diritti per il fatto di essere moralmente puri o retti come persone. Meritano quelle cose perché sono esseri umani, e questo è sufficiente”.
Certo, oggi è più difficile, perché siamo governati da persone che sfruttano i timori e l’ignoranza di molti per creare specchietti per le allodole e capri espiatori, alimentando deliri come quelli della lobby gay e dell’ideologia gender. Sentiamo di doverci proteggere, i pozzi sono quasi tutti avvelenati. Ma, forse accettando una certa dissociazione interna, almeno metodologica – che mi viene bene essendo del segno dei Gemelli – accanto alla lotta, alla visibilità, allo smascheramento delle falsità dei retrogradi, credo sia importante ricordarsi l’importanza e la bellezza di territori diversi, dove poter mettere in campo, in modo sfrenato, senza balaustre, tutto di noi stessi, esponendoci alle sorprese, ai rischi, e alla ricchezza di una ricerca vera, piena, libera, sia come autori che come lettori. Che è poi un modo per coltivare la nostra umanità.
Il mio sospetto, tra l’altro, è che la deriva ultraconservatrice in cui siamo finiti abbia anche a che vedere col fatto che pratichiamo un po’ tutti modalità comunicative non pluraliste, interessante solo alla difesa dei nostri confini, a una sorta di purezza molto timorosa, molto ansiosa, ma anche molto esibita, prestazionale, remunerativa. Se tutti siamo ormai livellati su questo atteggiamento molto autocentrato non deve stupirci se poi a beneficiare di questo clima sono i legittimi proprietari di questo stile di interazione con l’altro.
Il desiderio
Tornare alla letteratura per me significa allora tornare al sentimento dell’ampiezza della nostra esperienza e del nostro desiderio, desiderio che è spesso cangiante, opaco. Non so voi, ma io spesso mi sbaglio su ciò che voglio, e persino su ciò che sono. Al cospetto del nostro desiderio scopriamo solo a poco a poco qual è il nostro ordo amoris, come diceva Max Scheler, cosa ci sta a cuore. Tornare alla letteratura significa non lasciarci ridurre a corpi che in eterno urlano solo il loro rancore, i loro bisogni primari, le loro ferite: riprenderci il privilegio – perché spesso proprio di questo si tratta – di quel “libero gioco tra le facoltà”, liberatorio, ri-creativo, che per Kant costituiva l’esperienza estetica, quella legata all’arte, grazie alla quale riconoscere che in noi, anche in noi, come diceva invece Jung convivono il ladro, la prostituta, il folle, l’omicida. Entrare in risonanza con le ombre altrui e in confidenza con le nostre, senza limitarci a proiettarle tutte e solo all’esterno, sempre più impauriti di compiere un passo falso, cambiare idea, contraddirci. Essere più forti, più coraggiosi e creativi di quello che sentiamo di poterci permettere in questa gara a chi urla di più e prende più like.
Anche da qui, anche dal ritorno alla letteratura intesa come posizione conoscitiva, credo si possa provare a rifondare – a poco a poco, giorno dopo giorno – la comunità, il senso di appartenenza a qualcosa di unitario, per quanto vario al suo interno. Ribellandoci ai condizionamenti di un tempo che ci vuole tutti personaggi sbiaditi di un’unica piccola storia, molto scura, molto arrabbiata e chiusa in sé stessa, dove alla fine ci si fa fuori a vicenda, e sullo sfondo restano solo certe grandi figure nascoste, reali o solo fantasticate, giganti nebulosi per nulla toccati dalle conseguenze di un dramma che a lungo si sono divertiti a contemplare.
La paura congela le storie: le rende parabole, spot, allegorie, nevrosi, strumenti di offesa, difesa o di allerta. Escogitare un sentiero di uscita dalla crisi che stiamo attraversando può avere a che fare anche col riprendere a integrare nel nostro orizzonte narrativo il mistero, il perturbante e l’auto-osservazione, quest’ultima centro fondante di tutte le pratiche spirituali, oggi diffuse, sì, ma ridotte a wellness, strumenti anti-stress. Tornare alla letteratura significa ricominciare a pensare ai legami trasversali, al piano comune, alla giustizia come pratica più trasformativa che vendicativa: stare davvero nel racconto, che è volontà di portare l’altro da noi col fascino e la persuasione, più che con l’insulto o la gogna. Col rispecchiamento e le tante forme dell’empatia, che prima di essere una parola inflazionata e stucchevole dice, dovrebbe dire l’avventura conoscitiva che ogni apertura all’altro essere umano comporta. Specie se l’altro è difficile, disturbante, dell’altra squadra. Specie quando si tratta, quindi, di empatia negativa, come ben esplorato da Stefano Ercolino e Massimo Fusillo nell’omonimo testo pubblicato qualche tempo fa da Bompiani (Empatia negativa – il punto di vista del male).
Salvare il noi a cui accediamo grazie alla letteratura
Salvare la letteratura, insomma, e le parti di noi a cui, grazie alla letteratura, accediamo, significa riprendere a raccontare con tutta l’incertezza di un tempo diverso, più esteso, un tempo sovversivo, antagonista rispetto a quello dei social, capace di accogliere più elementi contemporaneamente, un tempo che ci permetta di stare sulla soglia, sulle soglie, di sospendere il giudizio, tentare altre strade, stare a vedere. Ricominciare a raccontare, negando la contrazione ricattatoria del tutto-già-qua, tutto-già-dato, per la quale lo spazio che possiamo occupare è solo quello binario e atomico, ultra-rassicurante, che si riserverebbe al prodotto di un’azienda a un passo dalla bancarotta, un prodotto da piazzare il più in fretta possibile, intercettando al volo un acquirente che non ha tempo perdere, e pertanto non va confuso con troppe troppi dettagli, troppi chiaroscuri, troppe variabili soggettive, personali, troppe variabili umane.
Infine, un aneddoto privato, che lego al senso di quanto ho cercato di dire finora. Per tutta l’infanzia ho avuto paura di mio nonno: un uomo burbero, introverso e intransigente, con cui ho abitato per dieci anni, conoscendone solo i divieti, le urla, le minacce e le bestemmie in dialetto. Dopo la sua morte mia madre mi ha riferito un dettaglio, tratto da un suo racconto finale: quando fu costretto a trasferirsi a Milano, da Napoli, al mattino all’alba andava in bicicletta in fabbrica, dove lavorava, percorrendo le rive del Naviglio Pavese. “Tina”, disse a mia madre, “non sai i pianti al mattino su quella bicicletta in mezzo alla nebbia”. Mio nonno, in balia di quella che fu forse una depressione mai diagnosticata, ci ha rovinato la vita, l’ha rovinata ai suoi figli, sicuramente a mia madre, e per certi versi anche a me, nella catena intergenerazionale del trauma, esercitando un controllo feroce, fatto di manie, fissazioni e violenza. Prima di morire, tre anni fa, ha chiesto di tornare a Napoli, di essere sepolto lì, desiderio che mi ha scosso a lungo, perché, con quella richiesta, lui di fatto rinnegava tutta la sua vita milanese, i suoi legami, la famiglia che aveva costruito. Ma ora io, dopo quel pezzo di storia in più, dopo il racconto di quella migrazione forzata e quei viaggi all’alba nella nebbia, dopo il racconto delle lacrime solitarie di quell’uomo che avevo solo sentito proibire e urlare, minacciare e spaventare, anche se non posso certo dire di averlo perdonato, o di poterlo in alcun modo “scusare”, ora io penso a lui in modo diverso.
Testo del discorso di apertura del Pride delle parole a Palazzo Ducale di Genova, fatto l'8 novembre scorso.
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