Internet per come lo conoscevamo non esiste più. Il paesaggio online è segnato dalla commercializzazione estrema, dalla polarizzazione e dall’incertezza sulle informazioni.

C’era una volta internet, la terra di tutti e soprattutto delle possibilità. Che ne è stato oggi della rete immaginata come un luogo di anarchia creativa e culturale? La promessa del cyberspazio immaginata decenni fa è stata tradita da tempo ma negli ultimi anni la rete sembra sempre di più un limbo apolide in cui nessun posto sa di casa.

Per qualcuno internet è morto, per qualcun altro il web è una foresta nera, per altri i social sono sotto la dittatura degli algoritmi. Quel che certo è che stiamo assistendo alla fine dell’utopia digitale: internet più che un luogo dai tratti rassicuranti e isotropici, è un non-luogo, sempre più frammentato e in balie di correnti.

Teorie tra serio e faceto

Cos’è internet? Se qualcuno avesse posto questa domanda all’inizio degli anni 2000, dieci anni dopo e oggi, avrebbe ottenuto tre risposte radicalmente diverse.

Nel contesto attuale, in cui il web gioca un ruolo fondamentale nelle nostre vite, è del tutto naturale interrogarsi su cosa sia diventato e quale ruolo abbia assunto.

Se ne discute molto, in rete come offline, e trovare una risposta univoca è impossibile ma nel frattempo si susseguono sempre più ipotesi.

Tra le più recenti troviamo “la teoria della foresta nera” che in realtà è stata formulata nella trilogia, ora serie tv, Il problema dei tre corpi. Lo scrittore di fantascienza Liu Cixin l’ha elaborata in risposta al paradosso di Fermi: se non siamo gli unici in quest’universo perché non abbiamo trovato altre civiltà?
Secondo l’autore gli alieni si stanno nascondendo, terrorizzati e pronti anche ad annientare qualsiasi forma di vita che riveli la propria esistenza. Potrebbe sembrare un’idea fantascientifica, ma stranamente rispecchia la realtà del nostro mondo online.

Proprio come nella “foresta oscura”, gli utenti di internet stanno battendo in ritirata di fronte al caos dilagante. Stanchi di combattere contro orde di bot, troll e inquietanti Ia (se siete stati abbastanza fortunati da non esservi imbattuti nell’immagine di Gesù gamberetto preservatevi dallo spam Ia), cercano rifugio in angoli digitali più tranquilli e protetti (newsletter, gruppi privati, podcast… ) che potrebbero determinare la prossima era di internet.

Da anni, la “teoria sulla morte di internet” afferma che l’intelligenza artificiale ha quasi interamente preso il sopravvento sulla rete. Come molte altre teorie complottiste, attira un pubblico sempre più vasto, composto da convinti sostenitori, troll sarcastici e curiosi che seguono avidamente i thread.

Al netto del parere di qualche troll, l’Ia oggi gioca un ruolo non marginale. Durante l’ultima conferenza sugli utili del primo trimestre di Meta di aprile, Mark Zuckerberg ha dichiarato che circa il 30 per cento dei post sul feed di Facebook vengono forniti dal sistema di raccomandazioni basato sull’intelligenza artificiale. Una cifra che è raddoppiata negli ultimi due anni. Zuckerberg si riferisce a un sistema “For You” simile a TikTok nel feed di notizie in cui vengono consigliati contenuti che non provengono da pagine o gruppi che gli utenti hanno particolarmente apprezzato, né contenuti con cui gli amici delle persone hanno interagito.

L’ansia algoritmica 

Su internet siamo utenti, creator, comunicatori, commentatori, clienti e… merci. Gli algoritmi raccolgono e metabolizzano i nostri dati personali, quindi qualunque cosa stiamo facendo o osservando, usiamo e veniamo usati.

Concetti come il doomscrolling (l’abitudine compulsiva di scorrere incessantemente feed di notizie negative o catastrofiche) e le filter bubble (situazioni in cui le persone sono esposte principalmente a contenuti che confermano e rafforzano le proprie convinzioni preesistenti) sono entrati già da tempo nel nostro lessico – ma abbiamo davvero fatto i conti collettivamente con il modo in cui hanno trasformato la nostra cultura e la nostra personalità?

Cosa succede quando le nostre vite culturali e artistiche vengono “comandate” da un algoritmo? O quando la condivisibilità sostituisce l’innovazione? Come possiamo fare una scelta quando le opzioni sono state organizzate con tanta attenzione per noi? Dalle pubblicità ai social media in tutto il mondo, le raccomandazioni algoritmiche prescrivono le nostre esperienze tant’è che si comincia a parlare di cultura algoritmica e “ansia algoritmica”.

Kyle Chayka, giornalista del New Yorker, autore di Filterworld: How Algorithms Flattened Culture (ancora inedito in Italia) spiega che i suggerimenti algoritmici, come il feed “Nei per te” di TikTok o la home page di Netflix, controllano la maggior parte di ciò che vediamo e sentiamo online. Sebbene promettano la personalizzazione, il risultato netto di così tanti algoritmi è un appiattimento della cultura.

Dalle playlist musicali a ciò che mangiamo o chi incontriamo, stiamo accidentalmente esternalizzando i nostri gusti culturali e i desideri personali. Si sta creando una cultura dell’algoritmo che prova a mostrarci contenuti potenzialmente interessanti e allo stesso momento porta verso l’omogeneizzazione.

Decadenza

Ma non è solo questo il punto, le piattaforme social non sono più così interessanti.

È stato creato un nuovo termine per descrivere questo processo di deterioramento della qualità: enshittification, noto anche come platform decay, o decadimento delle piattaforme. Questo neologismo che deriva dalla parola shit (merda) denota la trasformazione delle piattaforme online in qualcosa di scadente, coinvolgendo non solo i social media, ma anche giganti come Amazon e altre aziende simili. Le persone oramai sono utenti e difficilmente riescono a staccarsi dalle piattaforme, allo stesso modo i venditori non possono fare a meno del business online.

Quando sia gli utenti che gli inserzionisti sono completamente dipendenti dall’utilizzo della piattaforma, inizia il declino con un processo di deterioramento dei modelli di business digitali. Le piattaforme accumulano sempre più valore per sé stesse senza più considerare adeguatamente le esigenze degli utenti e degli inserzionisti. Anzi, con le strategie di monetizzazione, hanno cominciato a guadagnare direttamente attraverso modelli premium.

Per esemplificare il processo in cui una piattaforma di successo inizia a diventare gradualmente meno gradevole e meno utile per i suoi utenti, fino a raggiungere una fase di crisi, basta citare X, l’ex Twitter.

L’amministrazione di Twitter da parte di Musk ha portato a tagli indiscriminati, alla rimozione dei sistemi di moderazione dei contenuti e al ripristino di alcuni utenti precedentemente banditi dalla piattaforma per aver diffuso contenuti razzisti, violenti e antisemiti. In pochi mesi, l’esperienza su Twitter è drasticamente cambiata sia per gli utenti che per gli inserzionisti pubblicitari. Secondo quanto dichiarato da Musk stesso, circa la metà dei principali mille inserzionisti del sito ha interrotto gli investimenti sulla piattaforma.

Già nell’81 un gruppo di nerd e computer freak si era chiesto come sfruttare internet per migliorare la società in cui viviamo, Valerio Bassan, giornalista ed esperto di strategia digitale, con il suo saggio Riavviare il sistema. Come abbiamo rotto internet, e perché tocca a noi riaggiustarla vuole contrastare enshittification (Chiare Lettere, 2024).

Secondo Bassan dobbiamo riflettere sull’impatto sociale della tecnologia e sui modelli di business che governano il nostro vivere ogni giorno online per ricostruire una rete che sia più giusta e sostenibile cambiando il modo in cui collettivamente investiamo tempo e attenzione online.

L’appiattimento delle nostre vite virtuali rischia di impattare la nostra umanità, la fiducia online ha raggiunto i minimi storici, tra noia e caos, disinformazione e contenuti generati dall’Ia, serve un rinascimento per rendere di nuovo internet un posto piacevole in cui navigare.

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