Secondo la studiosa femminista, la rete verrà progressivamente regolata, come il capitalismo. Ma per farlo servono dei «modi alternativi» di disegnarla. Nella consapevolezza «che nulla è neutro»
Cosa significa il mutamento come paradigma di resistenza politica? Rileggendo la teoria sulla soggettività nomade, il perenne divenire e il glitch sono vie per polverizzare le identità unitarie. Identità erroneamente percepite come fisse, immutabili nel tempo e nello spazio, binarie, costrutti attorno a cui istanze reazionarie e correnti politiche conservatrici da sempre costruiscono baluardi per attecchire ed erodere i diritti di autodeterminazione dei corpi, queer e delle donne in primis.
Come ritagliare alternative e fornire ai soggetti nomadi un’etica all’altezza della metamorfosi perenne in cui sono immersi? Nella nuova edizione di In metamorfosi. Verso una teoria materialista del divenire (Castelvecchi Editore), un testo che è un punto di riferimento, Rosi Braidotti, filosofa, pioniera del femminismo europeo, professoressa emerita dell’Università di Utrecht e autrice di numerose monografie e saggi, indaga gli aspetti materiali e discorsivi della frantumazione delle identità unitarie – da Gilles Deleuze a Luce Irigaray – viaggiando tra mostruoso, cyberpunk, fanta-horror e contemporaneità post moderna.
Per ripensare una soggettività nomade collettiva e polimorfa che fa della rete uno strumento di potere e coesione sociale.
In questi tempi di regressione con il via libera dei movimenti pro vita nei consultori, qual è la dicotomia tra destra radicale e forze di resistenza?
È un momento di regressione, sono d’accordo. Io però sono convinta che non può durare, è troppo assurdo, scollato dalle realtà, tecnologiche e non, e dalla contemporaneità. Forse in questo pensiero la mia fiducia nella tecnologia si fa sentire. È un microcosmo troppo ignorante quello in cui si muovono i soggetti della politica reazionaria meloniana. Non ha alcun legame con le cose che stanno succedendo altrove, con la cultura, con le scoperte dentro e fuori le università, con la ricerca scientifica e con la consapevolezza che la gente ha acquisito nel tempo. In rete non ci sono solo i leoni da tastiera. C’è anche tanta gente che studia e si informa, esistono forme di solidarietà spontanea. Ed è questa visione solidale che mi fa avere uno slancio.
Ha studiato a lungo quello che Gilles Deleuze e Félix Guattari chiamavano micro-fascismo. Quale stagione politica viviamo con la recrudescenza delle nuove destre in Europa?
Io sono diventata patologicamente ottimista, non c’è una direzione unica ed è quello che farà fallire i neofascisti. Si sbagliano se pensano che le cose vadano in una sola direzione. Siamo sempre su più piani ed è multidirezionale la contemporaneità. Abbiamo al tempo stesso il ritorno dei grandi nostalgici di “Dio, patria, famiglia”, dalla Russia all’Ungheria, sempre più si fanno sedurre da quel tipo di ritorno alla tradizione. Al tempo stesso, in rete, attraverso i nuovi movimenti del mondo accademico, del post-umano, entità trasversali ci portano, per fortuna, in altre direzioni. Assistiamo simultaneamente a grandi crisi e grandi movimenti di resistenza. E a mio avviso il senso della resistenza ai micro-fascismi risiede nella consapevolezza che questi campi identitari fissi non servono a nient’altro che a farci consumare. Consumi culturali, estetici, che rafforzano identità-gabbie.
Al contrario servirebbe adottare una prospettiva più ampia, uno sguardo polimorfo...
Il nuovo fascismo provoca una rafforzamento di questi modelli binari. Con me o contro me, una gabbia dualistica, risposta a ciò che è invece rizomatico, nomadico e fluido. Si possono ritardare i processi di fluidità, ma non si possono sicuramente cambiare, perché sta tutto andando dalla parte delle trasversalità, grazie alle nuove tecnologie e a una comunicazione di prossimità di cui noi disponiamo. Un modello di comunicazione che non esisteva fino a dieci anni fa.
Da qui ecco nuovi modi di diventare soggetti che ci permettono di relazionarci in maniera diversa. Il capitalismo avanzato è un sistema post-binario, post-dualistico. Non è più una linearità hegeliana, non ha una logica interna, una grande fame, consuma tutto quello che può senza meta precisa. È il capitalismo come schizofrenia. Il capitalismo è un sistema di mercato che distrugge sé stesso. È un sistema catastrofico.
Perché è così importante parlare di soggetto nomade come forma di resistenza alle identità fisse o rese tali da politiche conservatrici?
Il discorso identitario è comunque sempre un discorso reattivo, di reazione, non sempre reazionario, spesso reazionario. Questo ce lo insegnano tutti, da Marx con la sua critica delle ideologie alla psicoanalisi col rapporto che abbiamo con l’interiorizzazione dei codici culturali. L’identità è sempre retrospettiva, relazionale e a posteriori. So sempre da dove vengo, dove vado esattamente lo saprò dopo. Il presupposto secondo cui l’identità è costruita e formata a posteriori rende le identità fisse sospette fin dall’inizio dei tempi.
Con queste premesse la tecnologia è una forza liberatrice. Qual è il reale potere al di là delle promesse dei tecno-utopisti?
Amo la musica pop da sempre, inizierei da qui. Con David Bowie, con Ziggy Stardust siamo già sulla luna, altroché Elon Musk. Ce l’avevamo già da decenni, un paradigma di come ripensare il mondo a partire da spazi siderali, la differenza diventa una forma di alienità quasi materiale e poi Laurie Anderson e la tecnologia come seconda natura. Movimenti radicali di pensiero e creativi sono sempre stati amici della tecnologia e nemici della strumentalizzazione capitalista della tecnologia. C’è un elemento utopico persino nei primi movimenti socialisti, una corrente secondo cui le tecnologie ci libereranno dalla fatica, dal lavoro, dall’obbligo di fare i lavori pesanti, poi a fine anni Sessanta l’utopia secondo cui le tecnologie riproduttive ci avrebbero liberato dal peso della natalità, dalla maternità, che è qualcosa che ci opprime. Utopie fino a un certo punto, qualcosa è diventato reale. Ora serve una grande immaginazione radicale che veda nella tecnologia uno strumento di liberazione e che voglia strapparla alla strumentalizzazione meschina e ottusa che ne fa l’economia di mercato.
Cosa potremmo fare, noi utenti, per riprendere il controllo?
Ci sono due livelli. Dobbiamo inventare altri modi di regolare, di pensare la rete. Io penso sia un po’ analogo al primo capitalismo, in cui ci fu la prima ondata di sfruttamento e terrificante poi lunghe negoziazioni che hanno portato e continuano a portare a vari gradi di miglioramenti, mai sufficienti, ma comunque rinegoziazioni di spazi. L’altro livello è concettuale, servono modi alternativi di disegnare la rete. Si chiamano algoritmi alternativi. Sempre con la consapevolezza che nulla è neutro. Sulla base del genere, di classe, dell’etnia, di pregiudizi di ogni tipo, tutta la programmazione in rete va rivista e la falsa neutralità degli algoritmi va chiamata in causa. Schermi scintillanti non servono a niente se le tecnologie non possono cambiare il modo in cui viviamo e organizziamo le nostre relazioni.
A proposito di identità in transito, quelle digitali sono tutt’altro che fisse o binarie…
Mi pare che le nuove generazioni comunichino raramente via mail, non siano più anche su Facebook, stiano appena su Instagram, si spostino da una piattaforma all’altra. Ecco, io direi, invece di spostarsi e basta, perché non disegnate cose alternative a livello di villaggio digitale in modo che possiamo cominciare a ragionare nella diversità dei modelli di programmazione e non solo modelli di consumo? Io rimango ottimista. Serve ripensare l’intero sistema anche quello accademico. Spero che le nuove generazioni in maniera collaborativa diventino attiviste della rete.
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