Con Macellaio Joyce Carol Oates racconta la genesi della ginecologia e della psichiatria nell’Ottocento, facendoci riflettere su patriarcato, sulla sorellanza e sulle contraddizioni che ancora oggi esistono
C’è qualcosa di sorprendente nella capacità di Joyce Carol Oates di trasportarci nel New Jersey della metà dell’Ottocento, più precisamente in un ospedale psichiatrico femminile, e poi da lì farci risalire fino a oggi, sbattendoci in faccia – come solo la grande letteratura sa fare – riflessioni sul contemporaneo: origine della misoginia, salute mentale, stereotipi e pregiudizi legati al corpo femminile, sistema patriarcale e la potenza della sorellanza.
Nel suo ultimo romanzo, Macellaio, edito in Italia da La Nave di Teseo, la scrittrice americana prosegue idealmente il lungo percorso di analisi del cuore nero della società attraverso storie femminili – da Una famiglia americana passando per Babysitter – scavando nelle più sottili fenditure dell’animo umano e consegnandoci un ritratto spietato di quello che siamo stati e, in molti casi, siamo ancora.
Non deve ingannare che, per raccontare la storia di Silas Aloysius Weir – il macellaio dalla mano rossa da cui prende il titolo il romanzo –, dottore in medicina e direttore dell’Istituto per donne malate di mente del New Jersey, Oates si sia ispirata ad alcuni episodi tratti dalla vita di personaggi storici come J. Marion Sims, Silas Weir Mitchell e Henry Cotton, tutti uomini e (controversi) padri della medicina: perché questo è un romanzo che parla di donne.
Utero e isteria
Macellaio ci narra del tempo in cui si pensava che la salute mentale femminile – in particolare l’isteria, termine che deriva dal greco utero – fosse strettamente legata agli organi riproduttivi: «L’isteria è causata da un utero sconnesso, da frammenti dell’utero che circolano nelle arterie e in modo ancora più virulento nel cervello. Così ci avevano insegnato gli illustri medici antichi, a partire da Aristotele; persino nella nostra epoca illuminata, nessun uomo di scienza era andato oltre questa convinzione».
La soluzione, quindi, era asportarli chirurgicamente – via l’utero, via le ovaie, via anche la clitoride – per rendere mansuete le donne, che al tempo potevano essere figlie, mogli e madri (quindi mansuete agli occhi del marito o del padre, agli occhi degli uomini) oppure serve, schiave, emarginate, persone considerate meno di nulla, perfette cavie per la medicina sperimentale – chi mai le avrebbe reclamate?
In ogni caso – che fossero figlie o mogli o madri o emarginate – gli interventi venivano effettuati senza consenso, erano le mani degli uomini a stringersi dietro porte chiuse per decidere il loro destino, racconta Oates nel suo romanzo. Un tempo che sembra lontanissimo da quello in cui viviamo, ma lo è davvero? Il controllo sul corpo delle donne non si esercita anche impedendo l’aborto, rendendolo illegale o non accessibile a causa dell’obiezione di coscienza? Scegliendo di dirottare il fondo da 500mila euro, destinato all’educazione sesso-affettiva nelle scuole, alla formazione degli insegnati per prevenire l’infertilità?
Perpetuando un sistema che costringe a diventare madri, a interpretare quindi l’unico ruolo (ancora) socialmente accettato, quello riproduttivo, a scapito della salute fisica, mentale e del diritto a decidere della propria vita?
Donna, moglie, madre
Quali erano i sintomi delle donne che venivano considerate affette da disturbi della salute mentale? Sbalzi di umore, risate improvvise seguite da stati depressivi, desiderio sessuale, risposta violenta agli approcci notturni del marito, incapacità di conformarsi al ruolo sociale che gli veniva attribuito: figlia, moglie, madre.
Tra le figure a cui si ispira la scrittrice per ricostruire le pratiche mediche del tempo c’è Silas Weir Mitchell (non un caso che sia quasi omonimo del protagonista) che inventò la controversa cura del riposo – metodo di cui fu vittima anche la scrittrice e attivista Virginia Woolf – che costringeva immobili a letto, isolate, alimentate a forza per aumentare di peso (si pensava che infelicità e sterilità fossero causate da un’eccessiva magrezza).
Oates, nel suo romanzo, dando voce in forma di diario a una delle pazienti ricche del dottor Silas Weir, racconta: «Mi facevo del male (…) facevo male alla mia bellezza. Che la mia bellezza non fosse un bene a mia disposizione, un bene che potevo distruggere, bensì una proprietà di mio marito, era la lezione che dovevo apprendere». La donna tornerà a casa con venti chili in più, pronta ad essere fecondata, il suo enorme corpo come una incubatrice. Morirà subito dopo.
L’orrore di questo trattamento e le conseguenze, come follia, depressione e suicidio, non hanno impedito – nel romanzo come nella realtà, esiste un confine? – al dottore (vero) Mitchell e al dottore (finto) Weir di ottenere importanti riconoscimenti e onorificenze.
Oggi, queste patologie hanno trovato, faticosamente, un nome e una terapia pur restando in parte dei tabù: la depressione post partum è diagnosticata nel 15 per cento circa delle neo-mamme ma si parla di dati reali molto più alti (e si continua a pensare che sia legata a una qualche incapacità materna) mentre l’endometriosi, che colpisce tre milioni di donne in Italia e ha ripercussioni sulla salute mentale e la vita sociale, è stata riconosciuta come malattia invalidante solo nel 2017 e nei nuovi Livelli essenziali di assistenza (Lea) si continuano a prevedere cure gratuite solo al III e IV stadio.
La normalizzazione medica del dolore – durante il parto, le mestruazioni, i rapporti sessuali, l’allattamento, la menopausa – ha ritardato l’individuazione di diverse patologie (come l’endometriosi) e continua complicare l’accesso all’analgesia epidurale durante il parto. Tu, donna, partorirai con dolore. Nel 1800 come nel 2025.
Sorellanza
Nel tempo narrato da Oates, il disinteresse generale, unito a un certo disgusto, per l’apparato riproduttivo femminile ha portato un rallentamento della scoperta di cure per patologie come, per esempio, la fistole vescico-vaginali che fino a metà dell’800 non veniva trattata e condannava chi ne era afflitta a essere emarginate socialmente e morire in condizioni terribili.
La cura – una riparazione chirurgica con filo d’argento resa possibile con la scoperta dello speculum – arrivò grazie a James Marion Sims, altro medico dalla cui biografia ha attinto la scrittrice per Macellaio e a tre donne (schiave) finite nel suo reparto, che divennero, loro malgrado, cavie per sperimentazioni senza uso di anestesia.
Per tutto il romanzo ci chiederemo: mostro o innovatore che fa fare passi avanti alla scienza? Il (finto) dottor Silas Weir sperimenta, invece, le sue tecniche e idee mediche sulle pazienti non ricche dell’istituto, tra mutilazioni e privazioni, e su una delle serve a contratto, svenduta dalla madre a soli cinque anni e costretta a lavorare come se fosse proprietà del padrone: Brigit Kinealy, la fanciulla smarrita e poi ritrovata, l’orfana albina sordomuta, la favorita.
«Sei un’orfana, una serva a contratto, non hai una famiglia a proteggerti, prendi da loro ciò che puoi, salvati. Come facciamo tutte» le dice Gretel, serva, levatrice, sorella. Insieme, si prenderanno cura l’una dell’altra, l’una delle altre, dando vita a un sistema di mutuo soccorso tra donne, nelle stanze chiuse e fetide, tra gabbie e giacigli di paglia, tra la follia e la lucidità di chi non ha più nulla e, nel nulla, deve sopravvivere.
Il dottor Weir osserva l’empatia con cui si assistono – turni notturni al capezzale, spugne per lavare corpi inermi, parole gentili – e riduce tutto a una predisposizione femminile alla cura, la natura delle donne, la vocazione all’assistenza. Nulla di pericoloso. Un terribile errore di valutazione.
«È vero, Brigit Kinealy venne salvata dal dottore Macellaio – ciò non si può negare. E per questo prova gratitudine. Ma lei è legata alle sue sorelle, è con le sue sorelle che deve allearsi. Come dichiara Gretel. Quando il dado è tratto, stiamo con le nostre sorelle fino alla morte».
«Voce imprescindibile»
Ho iniziato a leggere Joyce Carol Oates – autrice, intellettuale, docente, poetessa e drammaturga incredibilmente prolifera: oltre cento libri in sessant’anni – con un ingiustificabile ritardo, screenshottando una storia Instagram dello scrittore Jonathan Bazzi (grazie) che parlava del suo Bookclub da Verso Libri. Non ho più smesso.
Nata nel 1938 in una fattoria di Lockport – dalla quale idealmente non si allontanerà mai – Oates racconta la sua vita e formazione da scrittrice ne I paesaggi perduti (Mondadori), ricordandoci con una lucidità abbagliante che «sulle nostre ferite costruiamo monumenti di sopravvivenza. Quando sopravviviamo».
Qualcosa che accompagna molte delle nostre vite (vere) e delle sue vite (vere e immaginate) e che torna anche nel Macellaio, con il personaggio di Brigit. Docente all’Università di Princeton, ha vinto numerosi premi, dal National Book Award per la narrativa – dove è stata più volete finalista, come al Pulitzer – fino al riconoscimento intitolato a Fernanda Pivano e ha pubblicato racconti per il New York Times.
Un’esistenza dedicata alla letteratura e a indagare le contraddizioni della famiglia nucleare borghese, le fragilità dietro le apparenze, la facilità e casualità con cui ogni certezza si può sgretolare, i fili che legano ogni vita a quella degli altri. Come spiegato nella motivazione per il Premio Raymond Chandler 2024, «una voce letteraria inconfondibile dall’imprescindibile valore morale di monito a tutti noi: raccontare la realtà con le armi seduttive della finzione, è salvare la nostra memoria e noi stessi dall’estinzione».
Ecco, questa è Joyce Carol Oates.
Macellaio (La Nave di Teseo 2024, pp. 496, euro 24) è un libro di Joyce Carol Oates
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