Il ricco calendario della rentrée di Parigi mostra tutte le lacune dell’offerta culturale della nostra capitale. Una città che comunica poco e male le sue iniziative, con poca cura per quella storia di cui è ricolma
Una delle prime cose che fa chi arriva oggi a Parigi con un minimo di curiosità per le cose nuove è cercare informazioni sulle novità della rentrée (concetto e termine cruciale per i francesi). Non c’è neanche bisogno di comprare uno dei bollettini settimanali di eventi come “L’Officiel des spectacles”. La città, infatti, comunica benissimo le sue novità, sia con le famose colonne Morris, gli alti cilindri metallici a forma di chiosco visibili dappertutto (da fine Ottocento uno dei suoi tanti segni iconici) sia con grandi manifesti di carta e oggi elettronici. Si scopre subito che l’offerta di questa rentrée è ricchissima, con molte cose insolite e originali.
Le mostre
La più importante sembra essere la mostra “Figure del folle, dal Medioevo all’età romantica”, organizzata dal Louvre. Il Museo delle Arti Decorative (parte del Louvre, magnificamente restaurato) ha una mostra su “L’intimità, dalla camera alle reti sociali” in cui ricostruisce il variabile concetto di spazio privato. Il Beaubourg celebra il centenario del movimento surrealista esponendo documenti e opere da tutto il mondo. La Borsa (oggi sontuosa sede della Fondazione Pinault) rende omaggio all’Arte Povera italiana. Al museo privato Jacquemart-André arriverà una scelta di capolavori della Galleria Borghese, sulla linea della mostra che l’anno scorso fu dedicata a Giovanni Bellini e al suo mondo. Il Museo d’Orsay porta in primo piano l’opera di Gustave Caillebotte, impressionista finora trascurato, che da tempo appare in una luce più viva. Il Museo di arti asiatiche Guimet, privato, ha una grande esposizione su “L’Oro dei Ming”.
La lista potrebbe continuare, perché non c’è museo, galleria, fondazione privata, biblioteca che non offra mostre e iniziative nuove e originali. Combinando questo fittissimo catalogo con l’enorme quantità di sale cinematografiche, spazi espositivi, luoghi di musica, ci si deve arrendere senza condizioni all’idea che sì, Parigi, a dispetto delle crisi politiche e dello spirito di sommossa che la scuote di tanto in tanto, è una grande capitale di cultura.
Le ragioni della resa
Mi è sfuggito il termine “arrendere”. C’è un motivo. La resa è l’atteggiamento che tocca a un italiano che si chieda, con un confronto naturale e istintivo, come stanno invece le cose nella nostra capitale. È Roma una capitale viva di cultura? Ripassando una a una le maggiori istituzioni culturali, nazionali e comunali (Scuderie del Quirinale, Galleria Nazionale di Arte moderna, Musei Capitolini, Museo della Cultura, Museo comunale di arte Moderna, MAXXI ecc.), infatti, la situazione si precisa all’istante: alcune hanno mostre di poca importanza, molte non hanno nulla, e comunque nessuna ha preparato qualcosa di nuovo per la rentrée. Insomma, tecnicamente, un mortorio. Sarà forse perché a noi manca il concetto di rentrée? O per qualche ragione più profonda?
Suggerisco una spiegazione di certo soggettiva, ma che troverebbe numerosi i fatti su cui appoggiarsi. A Roma è bassa la “creatività urbana”, quello speciale talento che le istituzioni delle grandi capitali dovrebbero avere, che consiste nell’escogitare trovate, invenzioni e proposte che offrano a residenti e visitatori un panorama culturale ricco, vario e magari anche divertente.
A Parigi questo talento è fortissimo e di antica data. È lì che hanno inventato le biciclette a noleggio, le automobili elettriche, le spiagge sul fiume (spiagge vere, non il malinconico Tiberis dell’amministrazione Raggi), le piscine pubbliche di design (Parigi ne ha 38, alcune create alla fine dell’Ottocento, altre aperte fino a mezzanotte, una che flotta come una gran zattera sulla Senna), la metropolitana senza pilota (la linea 14, che arriva da poco all’aeroporto di Orly), i mototaxi, le opere di Niki De Saint-Phalle e di César in mezzo alle piazze, un decoro urbano sempre reinventato, sorprendente e vivissimo.
Benché da anni gemellata con Parigi, Roma di questo talento scarseggia: ha copiato qualcosina, ma mestamente. Le biciclette a nolo sono state tutte rubate, senza dire che usarle in città era quasi impossibile (piste riservate poche e malmesse, rispetto per i ciclisti nullo). Il car sharing inventato dal comune anni fa era ed è complicato, raro e antipatico: è perfino faticoso iscriversi. Gli spazi espositivi scarseggiano, e quelli relativamente più recenti, il Macro (comunale) e il MAXXI (nazionale) hanno sempre avuto il fiatone, avendo così poco da esporre da convertirsi in luoghi per eventi: presentazione di libri, concerti, perfino festeggiamenti privati con musica all’aperto (nel caso del MAXXI, con tanto di proteste dei residenti di lì attorno).
Il caso del Macro
Il Macro è un caso di studio: nato nel 2002 per iniziativa di Rutelli sindaco, dalla ristrutturazione di uno degli stabilimenti storici della Birra Peroni, pur essendo costato, tra piogge di critiche, una montagna di denaro (26 milioni di euro), ha sempre avuto così poco da esporre e riscosso così poco successo che lo hanno reso gratuito. Malgrado ciò, è rimasto tristemente vuoto: scomparso il grazioso caffè sulla terrazza, sbarrato con spesse pareti di cristallo lo square di accesso, originariamente senza barriere per dar l’idea (banale) del museo aperto, ma usato piuttosto come orinatoio e ricovero notturno, ogni tanto ospita conferenze o piccoli concerti.
Del MAXXI, oggi politicamente molto sensibile, preferisco dire solo che a mio avviso, l’unico oggetto dell’arte del XXI secolo che contenga è l’edificio stesso, opera di Zaha Hadid (che d’altronde cozza brutalmente col contesto del quartiere). Qualcuno (me compreso) pensa che, dato quel che costano, sarebbe più sensato chiuderli sia MAXXI che Macro e riconvertirli. Ma in cosa? La loro forma architettonica (grandi volumi cavi, pareti oblique, percorsi sghembi) lascia poco spazio all’immaginazione.
Poco cinema
Capitale del cinema, Roma non solo non ha un museo dedicato, ma neanche un posto dove vedersi in pace qualche nostro classico. La Cineteca nazionale, incistata nel Centro sperimentale di cinematografia, lontano da tutto e praticamente inaccessibile ai singoli, non solo qualche mese fa ha subito un incendio che ha distrutto materiale prezioso, ma ha comunicato il fatto solo qualche mese dopo. Alla Cineteca fa capo un cinemino mal reperibile dalle parti di Fontana di Trevi. Non si può dire che la Festa del Cinema (tra poco vent’anni) abbia una forza attrattiva trascinante.
Cosa oppone Parigi a questo? Una magnifica Cinémathèque Nationale, in zona centrale, ben accessibile, con un bel museo, e un geniale Forum des Images comunale, inaugurato nel 1988 in uno degli antri delle ex Halles, dove da soli, in coppia o in gruppi (ci sono sedute di vario taglio) si può vedere in digitale qualunque film che abbia a che fare con la città e tanti altri. La Bibliothèque Nationale Française, che ha varie sedi, da quelle storiche (il bellissimo Sito Richelieu, restaurato da poco) a quelle moderne, offre ogni anno una quindicina di mostre, sulla storia del libro, della scrittura, dei suoi supporti, su grandi autori. Il Sito Richelieu dispone anche di un bellissimo museo, che ospita anche pezzi di natura non libraria. La nostra Biblioteca Nazionale, ormai datata e parecchio sciupata, muove qualche passo in questo senso solo da poco, per iniziativa della nuova direzione insediata nel 2021, ma Parigi è ancora lontanissima.
Privati e comunicazione
Parigi inoltre pullula di sedi di musei e fondazioni private, diventate rapidamente luoghi vivi di esperienze culturali. Alla Fondazione Pinault a cui ho accennato, si aggiungono una Fondazione Cartier, una Fondazione Vuitton e perfino una Fondazione Ricard (sì, quelli del Pernod). A Milano c’è qualcosa di simile, su scala minore: vedi le sedi delle Fondazioni Feltrinelli (2016) e Prada (2015). E perché allora a Roma non c’è nulla? Perché non c’è una Fondazione Caltagirone o Webuild? Perché non una Fondazione Bulgari o Gentilini (quelli dei biscotti)? E dov’è finita la borghesia ricca? Dove sono le grandi banche? Quanto a spazi espositivi privati o di origine privata, le novità (non più tanto recenti) della capitale sono il Museo Bilotti (2006, comunale) e il bel Palazzo Merulana (2018, privato), con collezioni di cose importanti. Entrambi, va detto, conosciuti da pochissimi. Roma, infatti, comunica male le sue iniziative.
Non avendo nulla di somigliante alle colonne Morris, dobbiamo accontentarci dei cartelloni sul retro degli autobus e poco più. Pochi sanno che il sito civico di rapporti coi cittadini si intitola (invenzione dell’epoca Raggi) MyRhome (non avete letto male!) ed è più tortuoso del labirinto di Shining. Anche questo sarebbe un terreno da creatività urbana. Dal confronto del sito dell’assessorato alla Cultura di Roma, dimesso fino al pauperismo, col ricchissimo La Rentrée des Cultures! (con tanto di esclamativo) del comune di Parigi, si esce immalinconiti.
Come mai Roma manca di creatività urbana, manca (come l’ha chiamata Walter Tocci nel suo bel libro Roma come se, Donzelli) di “intelligenza sociale”? Trovare una spiegazione efficace sarebbe una sfida interessante.
Città di paradossi, Roma è carica di storia ma non cura la sua storia, è “città statale” (e anche città-stato) ma rifiuta le regole dello stato, è postmoderna ma non ha mai conosciuto la modernità, è carica di arte ma è fuori dai grandi circuiti. Chissà se qualcuno ha mai ricordato al povero Gennaro Sangiuliano o al suo successore il seguente celebre frammento: «Cosa intendete fare per Roma?», chiese il grande storico tedesco Theodor Mommsen a Quintino Sella nel 1870, subito dopo la Breccia di Porta Pia. «A Roma non si sta senza propositi cosmopoliti».
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