È il 1965 quando Giuseppe Berto pubblica con Rizzoli La fantarca. Autore di romanzi immensi e dolorosi, da Il male oscuro, a La gloria, a Il cielo è rosso, tutti fortemente legati ai temi che gli stavano più a cuore – le conseguenze drammatiche della guerra e della prigionia, l’insinuante e altrettanto letale ferita del disagio mentale – con La fantarca Berto esce completamente dai propri schemi e da quelli dell’epoca e scrive uno spassosissimo romanzo di fantascienza, fortemente legato al suo tempo ma anche tragicamente visionario.

Siamo nel 2160, la Terra è divisa in due blocchi, entrambi controllati da macchine, identiche in tutto eccetto che per la forma: quella delle terre occidentali è un triangolo, l’altra un quadrato. Anche in questo mondo governato dalla tecnologia, dall’innovazione e dal progresso a ogni costo qualcosa sfugge al rigore delle macchine: i «terroni». La questione meridionale, infatti, non è ancora stata risolta, e l’innata pigrizia degli abitanti del Mezzogiorno, la loro poca propensione al lavoro e alla fatica, l’amore per il buon cibo e per la musica mal si conciliano con i valori della nuova collettività.

C’è una soluzione, però: spedire i 1.347 «terroni» rimasti in Sud Italia su Saturno, pianeta gigantesco su cui potranno riprodursi a piacimento, sempre circondato da una fitta nebbia che impedirà anche ai più lazzaroni di impigrirsi. Per aiutarli nell’impresa, i funzionari del Nord, del comitato della Felice Evacuazione delle Aree Depresse, hanno messo a disposizione la Speranza n. 5, una vecchia astronave rabberciata e ridipinta, pronta a salpare da Vibo Valentia, e il comandante Francesco Torchiaro detto don Ciccio, uomo di grande esperienza e umanità. Ma quando si parla di Mezzogiorno i progetti tendono spesso a naufragare. E così è anche per l’equipaggio della Speranza n. 5.

Non mancheranno sabotaggi, ammutinamenti, clandestini (tra cui, incredibilmente, una bresciana), una nascita in alta quota, un matrimonio, danze sfrenate, sostanze stupefacenti per sopportare il mal d’aria e atterraggi di fortuna. E nemmeno battute taglienti, citazioni colte e un finale inaspettato. Non manca niente, insomma, in questo straordinario romanzo che mescola malinconia e divertimento per ciò che non sarà più e preoccupata speranza per ciò che verrà.

Una volta, tanti anni fa, ma tanti quanti non potete nemmeno immaginare giacché forse si trattava addirittura d’un altro ritorno storico, c’era una vecchia astronave, così vecchia, poverina, che era piena di rabberciature e di pecette, ma d’altra parte questo era l’ultimo viaggio interplanetario che avrebbe compiuto e inoltre, affinché non facesse proprio brutta figura e soprattutto non scoraggiasse fuor di modo i viaggiatori, le avevano dato una bella mano di tinta fosforescente color arancione, sulla quale il nome del glorioso astromobile, che un secolo e mezzo avanti era stato tra i primi ad atterrare per così dire sulla Luna, spiccava in azzurro con tutto il suo buon sapore di vecchi sentimenti: Speranza N. 5.

In quel pomeriggio del 16 settembre, mercoledì, in cui la nostra storia comincia, la Speranza N. 5, ridipinta come si disse a nuovo, giaceva bellamente sparapanzata sull’alto dello scivolo di lancio dell’astroporto di Vibo Valentia – sapete: in provincia di Catanzaro – e a guardarla faceva venire in mente, più che altro, l’Arca di Noè. In effetti vi stava salendo una lunga processione di esseri viventi dove le bestie erano molto più numerose degli umani e, se si eccettuano le bestie feroci, vi erano rappresentate un po’ tutte, almeno quelle che vivono nel clima mediterraneo: dalle vacche alle galline, dai maiali ai canarini, dalle pecore ai conigli, e molti ciuchi si capisce, e anche un’intera famiglia di topi che s’era nascosta dentro un sacco di lupini che Massaro Vincenzo Lotorto da Coccorinello si portava sulle spalle perché i lupini gli piacevano moltissimo e pensava di seminarne un campo intero lassù sul pianeta Saturno dove la Speranza N. 5 l’avrebbe portato. Pur che crescessero i lupini, lassù: se ne sentivano dire tante, su questo pianeta Saturno...

Mentre dunque la lunga processione di bestie e di umani saliva ordinatamente dentro il capace ventre dell’astronave in partenza per Saturno, tutto intorno c’era fervore di preparativi e rapido movimento di macchine e di tecnici, e rumori di pompe, valvole, tubi di caricamento, ingranaggi, carrucole, gru, sirene come quelle che un tempo usavano i pompieri, e sopra questi rumori un buon numero di altoparlanti sparsi un po’ dappertutto diffondevano musichette piacevoli ed energetiche, le quali però a tratti s’interrompevano per lasciare posto a una voce ferma, autorevole, perfino un po’ irritata, alla quale certi diffusori speciali davano una risonanza ampia ed eccelsa, come se si fosse trattato della voce del Buon Dio proveniente dall’alto dei cieli in un suo momento di malumore, mentre in realtà era semplicemente la voce d’un superannunciatore della Propaganda che declamava motti psicopolitici: «L’uomo ubbidiente è padrone dell’universo!» «Noi stiamo vivendo nella felicità dell’Avvenire!» «Il cittadino dell’Era Cosmica è pacifico e contento!» «La Statistica ha sempre ragione!»

In verità né Massaro Vincenzo Lotorto da Coccorinello, né Mastro Antonio Caronte da Iòppolo, né Comare Grazia Polimeni da Panaìa, né alcun altro di quei milletrecentoquarantasette emigranti che formavano l’ultimo e definitivo gruppo di terrestri in partenza dalle regioni del Mezzogiorno, capivano bene cosa volessero dire tali motti o slogan psicopolitici, non possedendo essi ad esempio idea chiara di che fosse la Statistica, sia nel suo vecchio significato di scienza avente per oggetto lo studio di fenomeni interessanti collettività di individui presi un po’ come numeri, sia nel nuovo significato di Divinità oscura e onnipotente che in effetti prendeva gli individui soltanto come numeri, però che la Statistica avesse sempre ragione lo sapevano benissimo, e così in ogni caso il risultato dell’emissione era positivo, nel senso che ficcava loro vieppiù profondamente nella testa il concetto che, ecco, non potevano farci nulla.

D’altra parte essi parevano non addolorarsene affatto, anzi sembravano tutti allegri e contenti, sorridevano, canticchiavano, alcuni di quando in quando eseguivano perfino passi di danza e piroette mentre procedevano verso il ventre spalancato dell’astronave, e soltanto guardando un po’ più profondamente nei loro occhi ci si sarebbe potuti accorgere che l’euforia era artificiosa, prodotta dalle pillole timolettiche di eucatecoltonina che le ragazze del Comitato per la Felice Evacuazione delle Aree Depresse avevano loro somministrato durante la settimana di preparazione, e che in realtà quella gente era molto addolorata di dover lasciare la casa, il paese e, insieme, anche la Terra. La lasciavano, infatti, non di propria volontà, ma per ordine e disposizione dell’Ufficio Statistico della Questione, il quale aveva capito, verso il 2160, che sulla ormai trisecolare Questione del Mezzogiorno s’era accumulato un tale groviglio di piani, schemi, imbrogli, leggi speciali, idee risolutrici e buone intenzioni, che l’unica cosa saggia che rimanesse da fare era infine spedire gli abitanti delle zone meridionali, volgarmente chiamati terroni, sul pianeta Saturno, lasciando obbligatoriamente disabitate le loro terre d’origine, affinché presto o tardi non vi nascesse una nuova questione.

Il pianeta Saturno era stato opportunamente scelto, dall’Ufficio Centrale di Statistica del Primo Blocco, prima di tutto perché molto grande – dopo Giove il più grande del Sistema – e quindi i terroni vi si sarebbero potuti riprodurre liberamente senza pericolo vicino di sovrapopolazione, e in secondo luogo perché, essendo il grosso globo collocato lontano dal Sole e per di più perennemente immerso in densi vapori, vi mancavano quelle condizioni di clima e di paesaggio che sulla Terra avevano reso i terroni alquanto svagati e, diciamolo pure, pigri. In questo senso, ossia come correttivo del carattere e del costume, il trasloco su Saturno di intere popolazioni depresse, benché assai recente e anzi ancora in via di completamento, aveva dato risultati eccellenti, e all’Ufficio Centrale del Primo Blocco già si sapeva, ad esempio, che la produttività media dei terroni, in un clima freddo e umido, e con visibilità limitata ai 5-7 metri, era aumentata del 209 per cento, e continuava ad aumentare.

I milletrecentoquarantasette viaggiatori della Speranza N. 5 erano dunque gli ultimi abitanti dell’Italia Meridionale che lasciavano il Mezzogiorno ormai libero da popolazioni e ad essi l’Ufficio Statistico della Questione aveva applicato le stesse regole e provvidenze applicate ai 9 milioni circa di terroni che li avevano preceduti su Saturno, e cioè ciascun viaggiatore, tenuto presente che per l’intera durata del viaggio cibo e bevande sarebbero stati forniti dal Comando dell’astronave, poteva portare con sé cose, oggetti d’uso o animali per un peso corrispondente al proprio peso, essendo tuttavia consentito che separati individui si unissero per formare un peso complessivo, in modo che ad esempio due o più persone potevano mettersi insieme per raggiungere un peso che consentisse di portare un torello, o una vaccina, o un cavallo.

Naturalmente anche qui c’erano i furbi, come dappertutto, ma uno più furbo di Michelangelo Maierà, proprietario del negozio di Generi Alimentari e Diversi di Orsigliadi, sarebbe stato difficile trovarlo, almeno in quel gruppo. Infatti egli aveva una famiglia composta da moglie e sette figli, e negli ultimi mesi li aveva superalimentati con le vitamine dei polli, sicché ora tutti insieme i nove componenti la famiglia pesavano la bellezza di 11 quintali e 79 chili, ed egli aveva disposto che ognuno di essi portasse soltanto un sacco col proprio peso di sale da cucina, giacché gli avevano detto – ma chi mai gliel’avesse detto era un mistero – che sul pianeta di destinazione il sale scarseggiava e portandone un bel po’ si diventava rapidamente ricchi.

Povera Pamela Maierà! Un tempo era stata una flessuosa fanciulla dagli occhi neri come il carbone, che i giovanotti, quando veniva dalla fontana con la brocca sulla testa, si mangiavano a furibonde occhiate, tanto era splendida e ben fatta, mentre ora era una cicciona barcollante sotto 96 chili di sale, e i suoi famosi occhi neri nessuno poteva vederli dal momento che giacevano addirittura sepolti nel grasso, ma si capiva che gli occhi stavano in quel punto dove stavano giacché da lì scendevano lacrime, dato che sulla povera Pamela gli psicofarmaci timolettici avevano scarso effetto, trovandosi essa col cuore sanguinante perché Agostino Gremuglia, ossia il suo molto amato amoroso, l’aveva piantata: cicciona com’era, non gli piaceva più.

Un tipaccio, davvero, questo Agostino Gremuglia! Stava lì poco più avanti nella lunga fila che entrava nel ventre dell’astronave, magro da non dire e spavaldo, anzi sfottente – mai una volta che si fosse girato indietro verso Pamela – e sulle spalle, in luogo d’un sacco di sale, portava la sua splendida fisarmonica a centosessanta bassi e tripla tastiera. E a fianco gli camminava Serafino Parghelìa, che aveva undici anni ed era per così dire orfano, nel senso che per uno sbaglio della macchina dei conti – se è concesso dire che le macchine, naturalmente elettroniche, possono sbagliare – i suoi genitori e fratelli erano stati spediti su Saturno otto anni prima, e lui rimasto solo sulla Terra, era stato allevato da una nonna di Zaccanòpoli, e in seguito, mortagli la nonna, che d’altra parte aveva quasi cent’anni, s’era attaccato ad Agostino, e suonava il tamburello quando Agostino andava per le feste a suonare la fisarmonica, e pure lui suonava la fisarmonica quando Agostino gliela lasciava. Serafino, sconsiderato al pari di Agostino, portava su Saturno, invece di salami, galline o conigli, il suo cane Fraticchio, i suoi gatti Aurora e Tramonto, e la gazza Bettina, la quale gli stava appollaiata sulla testa ed era l’unico essere vivente che, quando gli altoparlanti gridavano: «La Statistica ha sempre ragione!» si permetteva di dissentire: sbattendo le ali, alzando il becco e gracchiando: «Guài Guà! Guà!»

Di quando in quando, in mezzo al rumore dei macchinari, delle canzonette e dei motti psicopolitici, si inseriva una voce assai meno potente e solenne di quella del superannunciatore della Propaganda, una voce anzi familiare nel suo accento inconfondibilmente siciliano, e tuttavia anche questa quanto basta irritata. «Aumentare la pressione della valvola Due-Quattro-Due!» diceva la voce. Oppure: «Tecnico Trentadue all’ascensore Sette!» O anche: «Coraggio, muoversi, gente di Calabria! Ascoltatemi: tanto di guadagnato se riusciremo a partire prima di notte!» Era la voce del Comandante della Speranza N. 5 in persona, Primo Capitano Astronauta Don Francesco (Ciccio) Torchiaro.

Don Ciccio – così siamo autorizzati a chiamarlo, almeno nei momenti buoni – si trovava nella cabina di controllo sull’altissima torre dell’Astroporto, da dove poteva osservare coi suoi propri occhi quanto avveniva nel campo, e inoltre aveva a disposizione almeno una cinquantina di canali televisivi coi quali mettersi immediatamente in comunicazione non solo coi vari reparti della Speranza N. 5, ma anche col Centro di Milano, o col Supercentro di Düsseldorf in Renania, o perfino con la Centrale Generale dei Movimenti nel Sistema di Amarillo, Texas. Don Ciccio, più che un comandante d’astronave, sembrava il comandante di uno di quei pescherecci da sottocosta in uso fino alla seconda metà del Secolo Ventesimo, tempi in cui, egli non si stancava di ripetere, le cose andavano molto meglio. Era sui cinquantacinque anni, un po’ grosso, un po’ calvo, occhi vivi, naso carnoso, e un paio di folti e lunghi baffi rossicci. Presentemente aveva i nervi, per una grande quantità di ragioni tutte egualmente buone, tra le quali però spiccava il fatto che l’avevano messo a comandare quella scassata astronave la quale, a Dio piacendo, sarebbe sì andata su Saturno, ma da Saturno non si sarebbe più mossa – declassata al rango di veicolo planetario, avrebbe svolto servizio locale – sicché lui stesso non era in fondo che un emigrante in più tra i terroni destinati a lasciare la Terra, con la differenza che mentre i terroni non sapevano in quale razza di luogo fetente sarebbero andati a finire, egli lo sapeva benissimo, giacché vi era stato una volta di passaggio quand’era Allievo Astronauta sullo Skytop of Massachusetts, ahinoi molti anni prima. «Rum!» brontolò verso la Signora Esterina che gli stava vicino.

«Comandante, non sarebbe meglio un psi..».

«Rum!» gridò con forza Don Ciccio.

La sventurata Signora Esterina non poté far altro che ubbidire: essa aveva il grado di Sergente Maggiore e comandava semplicemente la squadra delle ragazze del Comitato per la Felice Evacuazione delle Aree Depresse, e da una settimana ormai si prendeva cura di quell’orso d’un uomo che rifiutava gli psicoplegici – era fin troppo agitato e non aveva certo bisogno di timolettici – per ubriacarsi di rum come un antico bucaniere. «Ecco» disse porgendogli il bicchiere pieno a metà. «Ma sarebbe meglio anche un po’ di metripalossio…»

Don Ciccio che, evidentemente pieno di rabbia, stava osservando al televisore Quattordici il lavoro di certi tecnici tedeschi dalla tuta nera – quelli di Düsseldorf avevano appunto per divisa una tuta nera – si voltò di scatto e: «Sentite» sbuffò. «C’è una ragione se non mi sono sposato finora, ed è che non voglio donne tra i piedi. Invece quei disgraziati del Centro di Milano…»

«Buono, buono» lo interruppe la Signora Esterina. «Altrimenti vi sale la pressione».

«Al diavolo la pressione!» brontolò il Comandante, e buttò giù d’un sorso il rum, per poi tornare subito ad osservare, al televisore Quattordici, quei dannati tedeschi. Aveva le mascelle serrate, gli occhi che gli sporgevano sanguigni, le narici dilatate, le punte dei baffi tremolanti: in sostanza esprimeva uno sdegno impotente sì, ma immenso. La Signora Esterina lo sentì sibilare tra i denti: «Giubilato… Giubilato…»

In realtà, povero Don Ciccio Torchiaro, era proprio giubilato. Forse senza accorgersene ne aveva combinata un’altra delle sue, o piuttosto qualcuno aveva infilato un po’ d’invidia e di rancore nella sua scheda personale, chissà mai, un collega premuroso di far carriera, o un ignoto Capitano di più stretta origine meridionale – lui era di madre marchigiana – cui sarebbe spettato d’andare su Saturno per non tornare più indietro, oppure Belzebù in persona, fatto sta, comunque, che ad un certo punto la macchina che s’incaricava dei Movimenti del Personale l’aveva pescato, promosso Primo Capitano e messo, finalmente, al comando d’un’astronave: ma quale razza d’astronave?

A parte che era a propellente chimico, a parte che era ad avvio su scivolo, a parte che era ad accelerazione orbitale, la vecchia Speranza N. 5 avrebbe potuto essere comandata da un bambino, visto che avevano mandato quei tecnici da Düsseldorf a bloccarne i comandi e i timoni. Già, perché non lui, Primo Capitano Astronauta Francesco (Ciccio) Torchiaro avrebbe guidato l’astronave, bensì la Centrale Generale di Amarillo, Texas, giacché al Comando del Primo Blocco avevano paura che, invece di andare su Saturno dove si stava male, egli andasse su Marte o su Giove, dove si stava meno peggio, o addirittura in malora, com’era accaduto, si diceva, alla Speranza N. 3, sparita nella immensità del Cosmo senza lasciare traccia. Quanto alla Speranza N. 1 e N. 2, esse si erano spaccate, l’una sullo scivolo di Falmouth Bay, in Cornovaglia, e l’altra sullo scivolo di Portorose, in Istria, mentre la N. 4 era arrivata, pareva, su Saturno, per restarci in servizio locale. Che sarebbe ora accaduto alla N. 5, ultima della serie delle gloriose Speranza? (...)

da La fantarca, Neri Pozza, in libreria dal 3 settembre

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