Aspromonte, 1908

«Voglio andare in America, appena sarà svezzato» disse Cetta alla madre, mentre allattava suo figlio Natale.

«E per fare che?» borbottò la madre senza alzare gli occhi dal cucito. Cetta non rispose. «Tu appartieni al padrone e ai campi» disse allora la madre.

«Io non sono una schiava» protestò Cetta.

La madre lasciò il cucito, si alzò. Guardò la figlia che allattava il nuovo bastardo della famiglia. Scosse il capo. «Tu appartieni al padrone e ai campi» ripeté, poi uscì.

Cetta abbassò lo sguardo sul figlio. Il seno scuro, col capezzolo ancora più scuro, contrastava in modo quasi stonato con i capelli biondi di Natale. Se lo staccò infastidita dal seno. Una piccola goccia di latte scivolò a terra. Cetta mise il bastardo nella culla ormai decrepita nella quale erano cresciuti lei e i suoi fratelli e anche l’altro. Il bambino cominciò a piangere. Cetta lo fissò con uno sguardo duro. «Dovremo piangere ancora molto tutti e due» gli disse. Poi uscì e raggiunse la madre.

Porto di Napoli, 1909

Il porto era gremito di pezzenti. E qualche signore. Ma pochi, e solo di passaggio. I signori prendevano un’altra nave, non quella. Cetta li guardava tutti da un oblò sporco, con la cornice arrugginita. La maggior parte di quei pezzenti sarebbero rimasti a terra, non sarebbero partiti. Avrebbero aspettato un’altra occasione, avrebbero provato di nuovo a salire, avrebbero impegnato le loro povere cose sperando di comprarsi un biglietto per l’America e nell’attesa tra una nave e l’altra avrebbero dilapidato la loro piccola fortuna. E non sarebbero mai partiti.

Cetta sì, invece, stava partendo.

E pensava solo a questo guardando fuori dall’oblò sporco, mentre dietro di lei sentiva il piccolo Natale, che ormai aveva sei mesi, rigirarsi inquieto nella cesta di vimini con la copertina di lana, piena di peli, che la signora elegante alla quale Cetta l’aveva rubata usava per far stare comodo il suo cagnolino. Solo al lungo viaggio per mare pensava Cetta mentre il liquido appiccicoso che aveva già sperimentato al tempo del suo stupro le colava freddo lungo le cosce.

Solo all’America pensava mentre il capitano si riabbottonava i pantaloni, soddisfatto, promettendole di tornare a trovarla con un tozzo di pane e un po’ d’acqua verso il primo pomeriggio e rideva dicendole che si sarebbero divertiti, loro due. E solo quando sentì il portello di ferro che veniva chiuso dall’esterno Cetta si allontanò dall’oblò e si pulì le cosce con la paglia che ricopriva il pavimento della stiva, graffiandosele. Prese in braccio Natale, si tirò fuori un seno, ancora arrossato dalle mani del capitano, e diede il capezzolo al bastardo che si portava appresso.

Poi, intanto che il bambino si addormentava nella cuccia che puzzava di cane, Cetta si rincantucciò in un angolo più buio e mentre le lacrime le rigavano le guance pensò: Sono salate come il mare che mi separa dall’America. Sono un assaggio dell’oceano e le leccò cercando di sorridere. E infine, quando la sirena cominciò a sbuffare le sue note bolse nell’aria del porto, annunciando che si salpava, Cetta si addormentò, raccontandosi la favola di una bambina di quindici anni che era scappata di casa, da sola, col figlio bastardo, per andare nel regno delle fate.

Ellis Island, 1909

Cetta era in fila con gli altri immigrati. Spossata dal viaggio e dalle angherie sessuali del capitano, guardava il medico dell’Ufficio federale dell’immigrazione che apriva occhi e bocche ai disgraziati, come faceva suo padre coi somari e le pecore. Ad alcuni scriveva una lettera sui vestiti, sulla schiena, con un gesso. Quelli con la lettera sulla schiena venivano allontanati verso un padiglione dove altri medici li aspettavano. Gli altri proseguivano il cammino verso i tavoli della dogana. Cetta guardava i poliziotti che guardavano i funzionari timbrare i documenti. Vedeva la disperazione di chi, dopo quel viaggio da bestie, veniva rifiutato. Ma era come se lei non fosse lì con loro.

Tutti gli altri avevano avvistato la nuova terra che s’avvicinava. Lei no, era sempre rimasta chiusa nella stiva. Aveva temuto che Natale morisse. E si era scoperta, nei momenti in cui era più debole e più stanca, a non sapere se sarebbe stato un dolore. E allora adesso se lo teneva stretto al petto, cercando di farsi perdonare da quella creatura che non poteva aver sentito i suoi pensieri. Ma lei li aveva sentiti, e se ne vergognava.

Prima di sbarcare, il capitano le aveva detto che avrebbe provveduto lui a farla passare. E appena a terra, nel grande stanzone dove erano ammassati tutti gli immigrati, aveva fatto un cenno col capo a un uomo piccolo come un topo, al di là delle traverse di legno che delimitavano la zona libera. L’America. Il topo aveva unghie lunghe e appuntite ed era vestito di velluto, appariscente. Aveva studiato Cetta e anche il piccolo Natale. A Cetta sembrava che li guardasse con occhi diversi. Come se loro due non fossero la stessa cosa.

Il topo spostò lo sguardo sul capitano e si portò una mano al petto. Il capitano sollevò Natale sorprendendo Cetta e le afferrò un seno, mettendolo in evidenza. Cetta si avventò sul figlio e se lo riprese, poi abbassò mortificata lo sguardo. Ma prima vide il topo che rideva e annuiva verso il capitano. Quando rialzò gli occhi, il topo era vicino a uno degli ispettori dell’immigrazione e, parlottando a bassa voce, gli allungò dei soldi e gli indicò Cetta.

Il capitano palpò il culo a Cetta. «Sei in mani ancora migliori delle mie, adesso» le disse ridendo e se ne andò.

E Cetta, senza nemmeno rendersene conto, provò un senso di smarrimento mentre lo vedeva allontanarsi. Come se ci si potesse affezionare a quello schifo. O come se quello schifo fosse preferibile al nulla che ora si ritrovava davanti. Forse non sarebbe dovuta scappare di casa, forse non sarebbe dovuta andare in America.

Quando la fila fece un impercettibile scarto in avanti, Cetta tornò a guardare verso l’ispettore della dogana e vide che stava facendole cenno di avvicinarsi. Accanto all’ispettore ora c’era un altro uomo e non più il topo. Era un individuo con folte sopracciglia, grande, con una giacca di tweed che tirava sulle spalle larghe. Aveva una cinquantina d’anni e un lungo ciuffo di capelli che gli partiva da un lato della testa e arrivava fino al lato opposto, a coprire quella parte di cranio dove i capelli non crescevano. Era ridicolo. Ma nello stesso tempo aveva una forza che metteva in allarme, pensò Cetta avvicinandosi.

L’uomo e l’ispettore della dogana le parlarono. Cetta non sapeva cosa dicessero. E meno capiva più quelli ripetevano, a voce sempre più alta, come se fosse lei sorda e non loro che si esprimevano in una lingua incomprensibile. Come se il volume potesse tradurre quel linguaggio sconosciuto.

Durante la discussione a senso unico si avvicinò anche il topo. E anche lui parlò ad alta voce. Gesticolando. Le mani deboli dalle lunghe unghie si agitavano nell’aria, come rasoi. Un anello brillò al mignolo. L’uomo grosso lo prese per il bavero, strillò più forte. Poi lo lasciò, guardò l’ispettore, gli sussurrò qualcosa che sembrava una minaccia ancora più grave di quella che aveva urlato al topo. L’ispettore impallidì, poi si voltò verso il topo. E improvvisamente anche lui prese a minacciarlo. In un attimo il topo girò sui tacchi e scomparve.

E allora l’uomo grosso e l’ispettore ricominciarono a parlare a Cetta in quella loro incomprensibile lingua. Poi fecero un cenno a un giovane basso e tarchiato, dall’aria energica e solare, che era oltre la dogana e aspettava in un angolo di tradurre gli idiomi di quei due popoli divisi da un intero oceano.

«Come ti chiami?» disse il giovane a Cetta, con un sorriso aperto e amichevole, che la fece sentire meno sola, per la prima volta da quando era sbarcata.

«Cetta Luminita.»

L’ispettore non capì.

Allora il giovane lo scrisse sul foglio dell’immigrazione al posto suo. E di nuovo sorrise a Cetta. Poi guardò il bambino che Cetta reggeva in braccio e gli fece una carezza. «E tuo figlio come si chiama?» le chiese.

«Natale.»

«Natale» ripeté il giovane all’ispettore, che ancora una volta non capì. «Christmas» gli tradusse allora il giovane.

L’ispettore annuì soddisfatto e scrisse: Christmas Luminita.


Da La gang dei sogni, HarperCollins, 2024

Venerdì 4 ottobre alle 18.30 al Libraccio di via Nazionale a Roma Pasquale, Anselmo, Luca dal Fabbro, Elena Sofia Ricci e Blas Roca-Rey lo ricorderanno a un anno dalla sua scomparsa.

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