- Dieci anni dopo il Limonov di Emmanuel Carrère, un altro romanzo europeo mescola realtà e letteratura per raccontare il lato oscuro della Russia contemporanea.
- La filosofia politica di Putin consiste nel promuovere un’alternativa radicale alla modernità, un nuovo ordine fondato sulla violenza e sul caos.
- Il modello del romanzo di Giuliano da Empoli è la grande letteratura russa, che da due secoli interroga l’enigma della Storia.
Da quando è iniziata l’offensiva militare della Federazione russa sul territorio ucraino, in febbraio, l’opinione pubblica occidentale è impegnata nel tentativo di decifrare il senso del progetto geopolitico di Vladimir Putin. Non bastano le riviste specializzate, gli approfondimenti televisivi e i saggi più o meno universitari: la logica di questa crisi continua a sfuggire ai calcoli e alle deduzioni, estranea com’è alla nostra sensibilità moderna, razionalista, utilitarista. Che resta quindi da fare quando il sovraccarico informativo inizia a generare rumore e l’eccesso di ragioni offusca la ragione? Forse soltanto rivolgersi alla letteratura, con le sue ragioni che la ragione non conosce.
Ci viene in soccorso il romanzo d’esordio di Giuliano da Empoli, racconto in prima persona (semi-finzionale) dell’ascesa di Putin e oscura profezia sul futuro del mondo. Dando la parola per un lungo monologo a Vadim Baranov – ispirato alla figura realmente esistente del consigliere dello zar, Vladislav Sourkov – il libro racconta un quarto di secolo di storia russa, dalla caduta del muro all’invasione dell’Ucraina. Una cavalcata lunga una notte in cui lo spin doctor del Cremlino svuota il sacco e rivela la logica arcana del potere putiniano.
Baranov come Limonov
Chi se lo aspettava che dietro al saggista Giuliano da Empoli – spin doctor, pure lui – si nascondesse un grande romanziere? Eppure è unanime il parere della stampa francese e persino quello del pubblico, che ha plebiscitato il suo libro uscito solo due mesi fa per Gallimard. Forse non ce ne saremmo nemmeno accorti, se da Empoli non avesse imbroccato il tema del momento, uscendo – per caso o per intuizione – in piena crisi russo-ucraina. E sarebbe stato un grandissimo peccato, perché nel parlarci della Russia questo libro ci parla soprattutto di noi. Noi, che ci eravamo illusi di tenere in pugno il senso della Storia, e iniziamo seriamente a dubitarne. Noi, che abbiamo creduto che la modernità liberale fosse un destino inevitabile.
Ora Il mago del Cremlino esce anche in italiano, per Mondadori. Il paragone con il Limonov di Emmanuel Carrère è d'obbligo, anche perché il fondatore del partito nazional-bolscevico riappare fugacemente tra le pagine di da Empoli. Ma se Carrère inseguiva il destino straordinario del suo personaggio per regalarci un brivido estetico, allo scrittore italiano interessa osservare il passaggio dalla stagione degli oligarchi, in cui si credeva che la Russia si sarebbe infine modernizzata, alla formazione di un nuovo ordine politico e culturale, risolutamente antimoderno, segnato dall’impronta di Vladimir Putin.
Incontriamo il futuro presidente una prima volta quando è ancora un grigio funzionario, per poi assistere alla sua rapida trasfigurazione. Putin diventa quello che conosciamo nel momento in cui su di lui cade la rivelazione di come si debba governare la Russia: attraverso il terrore, nella continuità di una stirpe secolare di zar. Perché solo un terrore più grande può mettere fine al regno dell’insicurezza, determinato dall’anarchia dei poteri, come ai tempi di Ivan il Terribile contro i boiardi.
Contro l’occidente, contro la modernità
Ma Putin segue anche la lezione di Lenin e di Stalin, dal momento in cui capisce che non c'è strategia politica che non richieda una strategia geopolitica. La coesione interna si gioca su scala planetaria. La fragilità dell’economia russa va compensata con un surplus d’ideologia.
Per continuare a farlo dopo le caduta del socialismo reale, la Russia raccoglie il vessillo sotto cui ha combattuto la Germania nella prima metà del Novecento, ai tempi della rivoluzione conservatrice: quella di una cultura che si oppone strenuamente alla “civilizzazione” moderna liberale, con il suo universalismo che mal si adatta alla complessità del mondo.
Documento più esplicito di questa vocazione sono probabilmente le Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann, successivamente ripudiate dall’autore. All’epoca per i tedeschi l’avversario ideale era l’ideologia francese dei diritti umani, oggi per i russi sono gli Stati Uniti d’America: identica è la vocazione di un singolo paese, orgoglioso della sua relativa arretratezza, a presentarsi come nazione-argine alle tendenze degenerative della Storia universale.
Il soft power russo si fonda interamente sull’offrire un’alternativa alla modernità. O meglio non una sola ben definita ma centomila alternative, perché la modernità bisogna soprattutto sfibrarla. La tesi del Mago del Cremlino è la logica prosecuzione di quella proposta nel saggio Gli ingegneri del caos, pubblicato da Giuliano da Empoli nel 2019: attraverso il web e i social è oggi possibile instillare il dubbio, moltiplicare le visioni del mondo, incrinare la narrazione dell’avversario senza proporre una sola contro-narrazione bensì un caleidoscopio di narrazioni più o meno aberranti. Putin lo ha capito – è lui, e non Baranov, il vero mago del Cremlino – e questi sono solo alcuni dei grandi temi toccati dal “romanzo russo” di Giuliano da Empoli.
Un romanzo russo: sì ma quale? Il Limonov di Carrère era demoniaco, posseduto, karamazoviano, insomma dostoievskiano. Qui invece il pensiero, più che a Dostoevskij o Tolstoj, va al capostipite di quella tradizione letteraria, ovvero Puškin. La sua venne definita una “poesia della realtà”.
La lezione di Puškin
Da Empoli osserva l’ascesa di Putin proprio come l’autore della Figlia del capitano restituiva le scorribande del ribelle cosacco Pugačëv – un altro personaggio bigger than life che volle farsi zar – lasciando trasparire un’ombra di fascinazione. Lo stesso Puškin aveva a lungo esitato se trattare il suo argomento nella forma della ricostruzione storica o in quella del romanzo, e arrivò alla scrittura della Figlia del capitano, una specie di epopea western dell’Estremo Oriente, dopo avere dato alle stampe un saggio, la sua Storia di Pugačëv, ritratto di un “ingegnere del caos” ante litteram.
Difficile dire quanto sia la realtà russa a imitare il modello letterario e quanto invece questa tremenda simmetria sia farina del sacco di Giuliano da Empoli. Certo è che quando vediamo Putin, ancora dirigente dei servizi segreti, farsi supplicare per correre alla presidenza, non possiamo fare a meno di pensare al precedente dello zar Boris Godunov, che nelle prime scene dell'eponimo dramma puskiniano si comporta nello stesso identico modo: si nega, furbescamente.
E ancora: nella Figlia del capitano come nel Mago del Cremlino, il primo fugace incontro con il futuro condottiero non impressiona più di tanto il narratore. Colpisce in entrambi casi lo scarto gigantesco tra ciò che gli uomini sono nella loro carne e ciò che la Storia fa poi di loro quando li veste di un ruolo epocale. Pugačëv appare più umano della sua terrificante leggenda e Putin come l’esecutore furbo di una sceneggiatura impeccabile. Entrambi sono presi nel delirio d’imitare Ivan il Terribile o Pietro il Grande; ma è un delirio lucido, pragmatico. Il delirio come arte di governo.
Come nella Figlia del capitano, le pagine di Giuliano da Empoli mescolano la verità storica e la finzione romanzesca, persone reali e personaggi inventati, al fine di restituire una comprensione più profonda dei fatti. Ed è fondamentalmente identica la domanda posta, a due secoli di distanza, dai due romanzi: cosa porta la Russia, in maniera ricorrente, a consegnarsi a certe figure eroiche e folli, venute fuori dal nulla, che sembrano voler dar fuoco al mondo?
Dopo la sbornia liberale
Anche la risposta è simile: le parabole di Pugačëv e di Putin, come quella del falso Dimitri che contende il trono a Godunov, ci insegnano che la smisuratezza è condizione essenziale per governare quel territorio smisurato. E il nostro invece?
Aleksandr Puškin, dopo essersi formato sulla letteratura francese del Settecento, era reduce dalla delusione dell’esperienza riformista dei moti decabristi degli anni 1820; Giuliano da Empoli – si parva licet – dai postumi dell’esperienza renziana. Entrambi reagiscono con una personale “narodnost”, ovvero un ritorno al popolo.
Al risveglio dalla sbornia liberale, ad attenderci troviamo il mago del Cremlino. Sapremo resistere alle sue lusinghe?
© Riproduzione riservata