- Tutto inizia con Berlusconi, che porta la lingua della pubblicità in politica: il meccanismo è quello di fingere di porsi al livello dell’interlocutore.
- La lingua che si usa, dagli anni Novanta in poi, non è semplice ma semplificata. Le parole non diventano più chiare, ma vuote e sempre più indirizzate alla pancia degli elettori
- In questo, ha fatto scuola la Lega di Umberto Bossi, il senatùr in canottiera che porta dialetto e frasi a effetto. Il suo successore Matteo Salvini invece diventa maestro nel comunicare sulla base delle oscillazioni dell’opinione pubblica
Nel passaggio tra prima e seconda repubblica la lingua rispecchia la crisi della politica. Al vecchio rischio dell’autoreferenzialità (i politici parlano un gergo che capiscono solo loro perché sono lontani da ciò che la gente realmente sente e vuole) tende a sostituirsi, almeno in molti rappresentanti del popolo, l’appiattimento su un linguaggio semplificato che rispecchia il sentire comune.
Parla come me
Sostiene il linguista Giuseppe Antonelli: «Tutto è cominciato con Berlusconi, che ha applicato alla comunicazione politica il meccanismo di quella pubblicitaria: non mi pongo come modello positivo, superiore, fingo di pormi al livello dell’interlocutore. Gli piaccio non perché lo rassicuro in quanto più bravo di lui, ma proprio perché ho gli stessi difetti, anche linguistici. Le stesse debolezze, anche linguistiche, che può avere lui».
In oltre 25 anni di berlusconismo ci siamo assuefatti (ma non vaccinati) all’“esuberanza” del Cavaliere nella scena pubblica. Il Cavaliere divertente, il Cavaliere inopportuno, il Cavaliere fuori dagli schemi, il Cavaliere cabarettista. Tutti i volti dell’uomo pubblico ampiamente criticato per aver, in numerose occasioni, creato più di qualche imbarazzo all’Italia sul palcoscenico internazionale, ma ciononostante sempre lì, al centro(destra) dell’agone politico.
Dalla metà degli anni Novanta in poi il progressivo e quantomai rapido adeguarsi del livello stilistico del discorso politico a quello medio-basso della lingua quotidiana porta con sé il grande equivoco o forse raggiro che questo sia sinonimo di trasparenza. Non c’è semplicità, ma semplificazione, le parole non diventano più chiare, ma vuote, alle “argomentazioni” si sostituiscono le “emozioni”, con l’obiettivo non di avvicinare la politica alle persone ma quello di parlare alla pancia della gente.
A me gli occhi, anzi la pancia
Chi si distingue sin da subito per la violazione deliberata dell’etichetta parlamentare è la Lega guidata da Umberto che entra in Parlamento nel 1992. Il discorso politico del Carroccio si fondava sulla critica ai partiti tradizionali e anche il linguaggio doveva marcare una distinzione chiara dal linguaggio formale e burocratico, quello del palazzo.
Accenti, modi di dire e termini dialettali vengono non solo usati, ma ostentati. Frasi a effetto volgari e offensive, oltre a uno spiccato utilizzo del dialetto sono funzionali a sottolineare la rottura con il vecchio linguaggio della classe politica, della classe dirigente, di chi vive i “palazzi romani”, e a rafforzare l’idea di un partito fatto di uomini duri e decisi («la Lega ce l’ha duro») “prestati alla politica con il compito di proteggere le loro terre (la Padania) da “Roma ladrona” e dai “terùn”.
Le pratiche messe in atto dal nuovo movimento politico producono un terremoto anche nei modi tradizionali di presentare il corpo del politico: l’immagine del leader Umberto Bossi, in canottiera diventa l’incarnazione più tangibile di questa rottura.
Tra le canottiere del senatùr Bossi e le felpe indossate dal Capitano Salvini, con le scritte adatte a ogni situazione e a ogni città passano circa vent’anni. Un passaggio in cui certamente nella comunicazione, assieme alla canotta, viene “rottamato”, si direbbe, anche il mondo di valori promossi dalla vecchia guardia leghista, che avevano la loro voce negli slogan di “Roma ladrona” e “Indipendenza al Nord”.
Il Capitano carabiniere, il Capitano, vigile del fuoco, il Capitano con la ruspa. Con la t-shirt o col bomberino, il leader del Carroccio si veste come i suoi elettori, seguendo gli argomenti di tendenza di cui parlano su internet. Per raccogliere consensi, ovvero follower, è cruciale la scelta dei messaggi: più toccano temi divisivi e più generano seguito (engagement). In generale funzionano gli slogan motivazionali, gli attacchi ai rivali politici, le immagini di vita privata.
La comunicazione di Salvini (ma non è il solo) si fonda tutta su dualismo – c’è sempre un “noi” contro un “loro” –, una contrapposizione basata sul buono e cattivo che mira a provocare una reazione da parte degli utenti. Dal crocifisso obbligatorio nei luoghi pubblici, agli immigrati negli hotel a cinque stelle, dal censimento dei rom ai furbetti del reddito di cittadinanza, quotidianamente Salvini disegna “l’elefante del giorno” costringendo gli avversari politici a rincorrerlo sui suoi temi e dando in pasto all’emozione pubblica argomenti che servono a verificarne il sentimento da cavalcare.
Spiega il politologo Luigi Di Gregorio nel suo saggio Demopatia: «Io definisco la leadership contemporanea come followship: i leader vincenti di oggi sono quelli che meglio degli altri si sintonizzano sulle oscillazioni continue dell’opinione pubblica. Che forse ormai è più che altro emozione pubblica. Non ci guidano verso idee loro, convincendoci che siano le migliori. Ci vendono idee nostre come fossero loro».
Questo facilita il raggiungimento del consenso, ovviamente. Quando però si è chiamati a mettere in pratica le promesse (ossia quando si è al governo), subentrano le difficoltà.
Rosiconi
Quella di squalificare l’avversario che sia esso un politico, un intellettuale, un giornalista, un elettore e in più in generale “chi non la pensa come te”, è un’altra delle caratteristiche che meglio connotano il parlare politico degli ultimi dieci/quindici anni.
Tra gli insulti preferiti nella storia più recente, radical chic è tra quelli di maggior successo.
Dell’espressione radical chic ormai si abusa, in un’accezione che, tra l’altro, esula dal suo contesto originario, per indicare una presunta incoerenza tra chi professa un qualunque tipo di idea “di sinistra” e uno stile di vita medio-alto. Più che un insulto radical chic diventa un modo per chiudere o minimizzare ogni dibattito.
Un altro appellativo che nel tempo è diventato per certi versi bipartisan nel suo uso denigratorio è “professoroni” che, al pari di “gufi” e “rosiconi”, descrive tutti coloro che commentano criticamente le scelte dello schieramento che si trova di volta in volta al governo. «Cos’è un gufo per me? Chi scommette sul fallimento dell’Italia». diceva Matteo Renzi nella conferenza stampa di fine anno nel 2014. Berlusconi li chiamava i catastrofisti.
La retorica del merito
In questi anni, a questo radicale cambiamento di paradigma, si accompagna anche una rivoluzione lessicale: da stato, classi, partito, lavoro, solidarietà, eguaglianza, collettivo, pubblico, interesse generale, bene comune, compromesso, si passa a un nuovo vocabolario costituito da individuo, mercato, impresa, governabilità, profitto, merito, leadership (…). Nei decenni 1990-2020 il conflitto è strutturato su un sistema a élite multiple, in cui la contrapposizione è tra vincenti e perdenti, con il consolidamento di una retorica meritocratica che tende a glorificare chi ce l’ha fatta e stigmatizzare come colpevole chi è rimasto vittima del sistema economico per mancanza di merito e virtù. Tutto questo ignorando volutamente le responsabilità di quello stesso sistema – edificato dai vincenti – nel produrre disuguaglianze ed esclusione sociale.
I perdenti sono i fruitori del sistema di protezione sociale, siano disoccupati o poveri, precari o bisognosi di assistenza, raccontati come colpevoli della propria condizione, incapaci di mettersi in gioco per risollevarsi, se non veri e propri approfittatori che preferiscono stare sul divano ricevendo un sostegno pubblico, anziché attivarsi per rientrare in quel sistema economico che li ha posti ai margini.
La pacchia è finita
La capacità che ha la politica di far cambiare significato alle parole è un’altra cosa che ci deve far riflettere e forse anche un po’ spaventare. Perché quando Salvini o Meloni dicono che «la pacchia è finita», a proposito di persone che rischiano la vita o muoiono in una nave abbandonata in mezzo al mare, si capovolge completamente un dato di realtà, si crea una nuova cornice attraverso la quale guardare ai fatti.
E la cornice determina la percezione della realtà. Piano piano, a furia di ripeterla, diventa una possibilità che essere su una barca, abbandonati, affamati ammalati, sia una pacchia o che gli immigrati vivano negli alberghi a cinque stelle, ci rubino il lavoro, vengano stipendiati con 35 euro al giorno.
Da lì a farne scarti residuali, è stato davvero un attimo.
Paola Di Lazzaro e Giordana Pallone hanno da poco pubblicato Com’è successo. Una repubblica in crisi parola per parola (Fandango2022, pp. 240, euro 17). L’11 dicembre alle 15.00, in occasione di Più libri più liberi, le autrici presenteranno il volume con Filippo Ceccarelli alla Nuvola di Roma.
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