- Si può pensare infatti che una “traduzione per la scena” costituisca una versione meno fedele di quanto possa esserlo una traduzione filologica: la teatralità ne costituisca un valore aggiunto
- Questo è particolarmente vero per i Poemetti di William Shakespeare, di recente pubblicati da Einaudi nella traduzione di Valter Malosti
-
Perché Shakespeare era anche un attore, e in quanto attore il suo linguaggio è sempre performativo. Ma soprattutto, Shakespeare non è mai un autore scrupoloso.Tutt’altro: la sua lingua è una sarabanda percussiva e impura, un materiale vulcanico, acrobatico, viscerale
Nel 2018 Valter Malosti e io facemmo uno spettacolo dai Sonetti di Shakespeare. Ne scegliemmo 50, li traducemmo di sana pianta e ne facemmo una drammaturgia per un lavoro che tuttora considero uno dei più belli della mia carriera. In quello spettacolo, Malosti era anche attore protagonista: compariva sul palco vestito da clown, col microfono in mano, malinconico, buffonesco, inquietante, recitando i sonetti uno via l’altro come un’unica fluviale lamentazione d’amore: un amore come un ring dove ci si rende patetici e ridicoli, un amore infelice, sguaiato, disperato; l’amore insomma come una zona di spreco, di scialo, di buffoneria; una no man’s land dove si soffre e si gode, si lotta e si perde sempre. Direbbe Giovanni Testori: l’amore come il luogo della sperdutezza.
Traduzione teatrale
Allo Shakespeare “non teatrale” Malosti aveva già dedicato due spettacoli, prima traducendo e poi interpretando i due poemetti Venere e Adone e Lo stupro di Lucrezia. Ora quei due testi escono con Einaudi, e credo sia un fatto culturalmente significativo che una nuova edizione dei poemetti di Shakespeare esca non nella traduzione di un filologo ma di un teatrante.
Si può pensare infatti che una “traduzione per la scena” costituisca una versione meno fedele di quanto possa esserlo una traduzione filologica: penso invece che, al contrario, la teatralità ne costituisca un valore aggiunto. In primo luogo, perché Shakespeare era anche un attore, e in quanto attore il suo linguaggio è sempre performativo.
Ma soprattutto, Shakespeare non è mai un autore scrupoloso e affilato; pulizia, nitore e limpidezza non sono le sue virtù. Tutt’altro: la sua lingua è una sarabanda percussiva e impura, un materiale vulcanico, acrobatico, viscerale. Voltaire lo definiva «barbarico», e non per fargli un complimento. Scrive Malosti: «La lingua di Shakespeare è tutta nel corpo, una sfida fisica e carnale».
Peste e teatri chiusi
Questi due poemetti, Venere e Adone e Lo stupro di Lucrezia, Shakespeare li ha scritti durante un lockdown: Londra, 1593, epidemia di peste e teatri chiusi. Shakespeare trova rifugio presso un patrono, che presto diventa uno tra i suoi più cari affetti: Henry Wriothesley, conte di Southampton. Della biografia di Shakespeare si sa poco, ma credo non si sbagli nel dire che fu, tra tutti gli amori che s’intravedono nella sua opera, quello più intimo e travolgente. A lui sono dedicati questi poemetti; di lui, di recente, è stato trovato un ritratto in abiti femminili; è lui al centro di questo crudele e scatenato gioco delle parti che, a teatri chiusi, viene approntato sulla pagina.
Un campo di forze dove il vero protagonista è un amore inteso come ossessione, spossessamento, furore: un devastante sortilegio mistico. Che cos’è Venere? «Una dea/macchina, una dea ex machina ma anche sex machine, macchina barocca che tritura suoni e sputa parola; una macchina di baci, una macchina schizofrenica di travestimento, una macchina di morte per l’oggetto del suo amore: Adone».
In Venere e Adone s’inscena infatti l’amore (diciamolo pure unilaterale) della dea Venere nei confronti del bellissimo Adone. Difficile immaginare un rapporto più asimmetrico e squilibrato: da un lato Venere, una dea immortale di prima fascia; dall’altro Adone, un ragazzino (mortalissimo, come si vedrà) poco più che adolescente. La dea però se ne frega dello squilibrio, e lo vuole, a tutti i costi. Il poemetto è la narrazione in time-lapse di questo inseguimento che –lo si intuisce – non potrà che finire male.
Non è un caso che, nello spettacolo, la parte di Venere fosse interpretata da un uomo (lo stesso Malosti); tutta tipologicamente maschile è infatti l’ansia di possesso che domina i versi; Venere studia, smania, caccia, inveisce; il ritmo stesso del testo, con il suo andamento percussivo e ansimante, è sessuale, martellante, fallico. Dice un verso: «Lo domina con la forza, non con il desiderio». È, a tutti gli effetti, la scena di una prevaricazione.
L’invettiva-vortice
Da qui al secondo poemetto, Lo stupro di Lucrezia, dove si racconta la violenza sessuale di Sesto Tarquinio nei confronti di Lucrezia, moglie di Collatino, è un attimo. Il poema è il racconto di questo stupro, affidato, sorprendentemente, alla voce della vittima, il cui monologo a un certo punto devia dalla narrazione dell’evento e devia verso una straordinaria trafila di maledizioni. È uno dei momenti più alti della letteratura di sempre. Lucrezia maledice tutto: non solo il suo stupratore, ma anche il tempo, la notte, e l’occasione, in un’invettiva-vortice in cui l’intero cosmo del maschile sembra precipitare sotto il peso di una condanna irrevocabile.
Quello che del resto Shakespeare racconta qui è la ripetizione di un meccanismo che infinite volte si è già verificato: la sopraffazione dell’uomo sulla donna, del maschio sulla femmina, un topos crudele che Shakespeare ha spesso quasi ossessivamente messo in scena: dallo stupro di Lavinia nel giovanile Tito Andronico a quello del servo Caliban nel terminale La tempesta.
Può sembrare spiacevole dirlo per un autore che troppo spesso e troppo retoricamente si associa ad accenti amorosi e stucchevoli, ma parte della grandezza di Shakespeare sta proprio nel suo saper vedere come il rischio della violenza si annidi in ogni esperienza umana. Persino (se non soprattutto) nell’esperienza dell’amore. Il teatro di Shakespeare è spesso un teatro di sangue, dove la forza dilaga incontrollata e la violenza infuria senza barriere, in preda a furori desideranti, voglie che non tollerano ostacoli e non considerano nessuna conseguenza. Nel mondo di Shakespeare, il desiderio è un demone pericoloso, pronto a scatenare forze devastanti. Chi ha abbastanza forza da sopraffare il debole, lo fa; e la vendetta che ne consegue altro non sarà che il meccanismo che produce una potenza ancora maggiore, tale da travolgere anche chi l’ha scatenata per primo.
La violenza al centro
Il centro gravitazionale dell’opera di Shakespeare, che accomuna il suo teatro alle sue opere poetiche, è proprio la violenza: quello che Fassbinder chiamava «il diritto del più forte». Dai campi di battaglia dei drammi storici alle carneficine di Antonio e Cleopatra, dal matricidio dell’Amleto al regicidio del Macbeth, dalle atroci torture di Re Lear ai cannibalismi di Tito Andronico e ai massacri di Riccardo III: lo spazio di Shakespeare è sempre uno spazio di rappresentazione e interrogazione della forza: forza fisica, forza economica, forza dialettica, forza sessuale.
In questo senso, Lo stupro di Lucrezia è uno dei suoi massimi punti espressivi, nonché una parabola interessante: giacché proprio con la violenza subita da Lucrezia qualcosa si spezza. Il suo stupro scatena infatti la rivolta popolare contro Tarquinio e la rovinosa caduta della monarchia etrusca a Roma. In altre parole, lo stupro di Lucrezia fa crollare un regime. In questo senso, questo poemetto, nella sua torrenziale maledizione cosmica, ha forse qualcosa di profetico e augurante, che parla all’oggi e lo prefigura: avrà sognato, Shakespeare, nel 1593, la fine del regime del Maschio?
I Poemetti di William Shakespeare (Einaudi 2022, pp. 234, euro 14) sono usciti da poco nella traduzione di Valter Malosti
© Riproduzione riservata