Il saggio di Pasquale Palmieri e Arnaldo Greco racconta un momento fondativo di ciò che viviamo nel presente. È con la configurazione thatcheriana e reaganiana del “there is no alternative” che abbiamo smesso di immaginare il futuro
«La natura si riprende i suoi spazi» era una delle frasi più gettonate sui social durante il lockdown. Accompagnava immagini di paperelle che riprendevano a nuotare nei Navigli, fiori che sbocciavano sul cemento, volatili che tornavano a popolare i cieli delle nostre città. Piccoli squarci bucolici che significavano una sola cosa: siamo così impegnati a stare dietro ai ritmi di vita metropolitani, all’inquinamento e al trambusto che non ci accorgiamo di tutte quelle graziose creature che per colpa nostra vivono nascoste.
È molto difficile trovare qualcosa di positivo nel periodo che ci ha chiusi in casa, tra bollettini di morti quotidiani e coprifuoco. Eppure, quel senso di realtà sospesa che ci ha regalato la pandemia, con le strade delle nostre città svuotate da abitanti e avventori, a distanza di qualche anno, potrebbe riuscire a solleticare un remotissimo senso di nostalgia.
Le riscoperte
«You don’t hate mondays, you hate capitalism», dice una famosa frase-meme che sintetizza in breve una riflessione molto più lunga sul perché il ritmo della contemporaneità, dove tutto è incasellato, programmato – o forse sarebbe meglio dire «schedulato» – e a prova di produttività, ci faccia sentire prigionieri di routine e obblighi quotidiani che, una volta messi in pausa, non ci mancano per niente.
Se con la pandemia è ancora difficile fare una vera e propria scrematura tra i danni che ha creato e l’illusoria e provvisoria ripresa del senso delle nostre esistenze, anche solo nell’atto rivoluzionario della panificazione compulsiva, c’è un precedente nella storia che risale a quasi quarant’anni fa e che, a differenza del Covid-19 e della sua eredità, nel tempo ha radicalmente invertito il senso della sua memoria, passando da catastrofe a episodio simbolo di unità nazionale, gioia, riscoperta di antichi valori e bellezza.
È la nevicata del 1985, quella che Pasquale Palmieri e Arnaldo Greco raccontano nel saggio La nevicata del secolo - L’Italia del 1985 (Il Mulino, 2024), ossia il momento in cui, un po’ come nel 2020, la natura si è ripresa i suoi spazi, in un paese che viveva un periodo molto diverso da quello degli anni venti del Duemila ma al contempo fondativo di ciò che viviamo nel presente, sia su un piano ideologico, che mediatico, politico e antropologico.
Negli anni Ottanta, nessuno aveva un’app del meteo a disposizione ventiquattr'ore su ventiquattro, la televisione era il mezzo di comunicazione privilegiato che radunava ogni giorno milioni e milioni di persone davanti allo schermo e un’affluenza alle urne dell’88,34%, com’era stata quella del 1983, era considerata in calo.
L’effetto che ebbe la fortissima ondata di gelo che investì l’Italia senza preavviso nel 1985 fu quello di bloccare il paese, creando non solo danni come il crollo del Palasport di San Siro, ma anche una reazione mediatica che divideva il paese tra efficienza e nullafacenza, il classico binomio che viene usato per descrivere le differenze tra Roma e Milano, e in generale tra Nord e Sud.
Eppure si moriva di eroina
In quel momento, l’Italia viveva sì un periodo di crescita economica, ma anche un aumento vertiginoso dei prezzi, un’emergenza sociale causata dal diffondersi dell’eroina, mentre il mondo attorno combatteva una guerra fredda.
Eppure, dei ruggenti anni Ottanta, i ricordi, o meglio l’immaginario che abbiamo deciso di salvaguardare, è tutt’altro che pessimista. Le televisioni berlusconiane elogiavano il consumismo sfrenato, i giovani mettevano da parte la violenza delle questioni politiche degli anni Settanta per pensare ai loro interessi individuali, nel famoso riflusso che ha caratterizzato movimenti sottoculturali come quelli dei paninari, giovani ricchi disinteressati che più agli scioperi e ai picchetti pensavano alle scarpe Timberland.
«La nostalgia si traveste molto bene da storia, e per via della sua ambivalenza si infila ovunque», scrivono gli autori del saggio: più nostalgia non significa più coscienza storica. Ci ricordiamo i caroselli e i sapori delle merendine che non vengono più fabbricate, ma difficilmente collochiamo nella cronologia della storia eventi cruciali del passato anche recente, perché la merce, a differenza dei fatti, resiste; vivida, colorata e sgargiante, simbolo concreto del nostro potere di esseri umani che, persa la fiducia nell’iniziativa politica, la riponiamo in quella personale.
È negli anni Ottanta, infatti, che la nostalgia si impossessa nel nostro sguardo sul mondo, diventando non solo un mood ma anche un mode, ossia un’esperienza codificata in un umore collettivo o individuale – pensiamo ai prodotti culturali pop per eccellenza degli anni Ottanta: Grease, Happy Days, Il grande freddo, Ritorno al Futuro, o Bianca, con la sua scuola Marilyn Monroe, parodia della retromania che invade tutto –, ma anche attraverso dispositivi che ci consentono di accedere ai prodotti culturali del passato recente.
I saggi
«Siamo diventati vittime della nostra inarrestabile capacità di immagazzinare, organizzare, utilizzare istantaneamente e condividere una quantità smisurata di dati», scriveva Simon Reynolds, e rischiamo di essere schiacciati dal peso dell’archivio, sepolti in casa dai nostri stessi ricordi che, da un certo momento della storia in poi, sono diventati sempre più accessibili. Come scriveva Fred Davis in Sociologia della nostalgia, saggio nel 1979: «è l’abbondanza di merci visive e sonore a rendere possibile la costruzione di un passato idealizzato».
O per dirla in altre parole, senza scomodare Davis, Jameson e gli altri teorici del postmoderno, è negli anni Ottanta, con la configurazione thatcheriana e reaganiana del there is no alternative, che abbiamo smesso di immaginarci il futuro, piombando in una paralisi creativa che diventa una ricerca ossessiva del bel tempo andato, anche quando il bel tempo in realtà non c’è stato.
Del resto, senza nostalgia non esisterebbe la televisione, che si fonda sul passato e su vecchi format, oltre che su un pubblico di anziani, la vera colonna portante del consumo italiano e dunque target privilegiato delle pubblicità. Come spiegano Palmieri e Greco, citando dati Istat, «non crediamo di esagerare nel dire che la ricchezza del paese è in buona parte nelle mani dei sessantenni».
E dunque, l’importante non è tanto esserci stati ma credere di esserci stati, e persino una nevicata che mise in ginocchio il paese può diventare un concetto da mitizzare, in quanto unico momento disponibile per l’uomo italiano postmoderno di interrompere la sua attività frenetica nel tardo capitalismo della Milano da bere.
Il senso per la neve
La neve che, più che un agente atmosferico, diventa uno status symbol, nel decennio delle settimane bianche e dei Natali a Cortina, quando Moon Boot e montoni si fanno largo nell’immaginario collettivo della vacanza invernale, un lusso che in precedenza si potevano permettere solo le classi più abbienti.
La neve che, col suo candore innocente, incarna quel senso di concordia partecipe e spensierata, in opposizione alla violenza delle richieste per il cambiamento sociale dei decenni precedenti: la società non esiste, diceva Margaret Thatcher, e dunque perché le persone dovrebbero guardare al di là della propria individualità?
Ne riparleremo nel 2060, quando saranno passati quarant’anni dal lockdown, e forse, come per il trentennale del 1985, nel 2015, in cui tutti gli aspetti negativi e disastrosi di questo evento sono stati sostituiti con celebrazioni affettuose e romantiche, il ricordo sarà edulcorato dai bei momenti in cui cantavamo in balcone, quando cucinavamo torte e biscotti, e finalmente riuscivamo a passare del tempo insieme, genitori e figli, mariti e mogli, non più divisi dalla routine e dal pendolarismo quotidiano.
Tornando dunque al punto da dove siamo partiti, la risposta al perché tutto ciò avviene la potremmo trovare sempre in quella frase, «you don’t hate mondays, you hate capitalism», late capitalism aggiungerei: non è tanto la neve che blocca l’Italia a essere un ricordo di felicità o il coprifuoco una scusa per volersi bene, è il sistema in cui siamo impantanati da quarant’anni a farci credere che non esista un’alternativa se non un cataclisma per riprenderci i nostri spazi, un po’ come le paperelle sui Navigli e i cigni nel Tevere.
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