Il capolavoro di uno dei più grandi disegnatori è stato ripubblicato da Logos, a 40 anni dalla sua uscita a puntate. Un’opera in cui « l’immagine è portante e certe volte il testo è come la musica nel cinema: è il contrappunto»
Lorenzo Mattotti è il più importante disegnatore e illustratore italiano. Tra le altre cose, ha realizzato ben 35 copertine per il New Yorker o i manifesti dei Festival di Cannes e Venezia. Vive e lavora a Parigi, in un suo altrove.
Nel 1984 esce Fuochi, pubblicato per la prima volta a puntate dalla rivista alter alter. Fuochi è un libro fondamentale nella storia personale dell’autore e per la storia del fumetto. È considerato il suo capolavoro.
La corazzata Anselmo II entra in una baia dell’isola di Sant’Agata, che fa parte del nuovo stato di Sillantoe, nell’emisfero meridionale, per scoprire cosa è accaduto ad alcune navi mercantili scomparse nelle sue acque e verificare la possibilità di civilizzare le popolazioni indigene. Sceso a terra insieme ai suoi uomini, il tenente Assenzio è turbato, il verde dell’isola lo affascina e lo accoglie, contrapponendosi al ferro della nave da guerra. I fuochi si agitano nel buio e iniziano a riscaldare la sua mente.
Durante l’esplorazione, Assenzio ha l’impressione di vedere qualcosa ma, spinto da uno strano desiderio di proteggerla, riferisce al comandante che l’isola è deserta. Una seconda spedizione per la quale si offre volontario lo conduce a un cimitero di giganteschi relitti e il tenente intravede alcune figure rosse e guizzanti che gli danno appuntamento vicino al faro. Assenzio diserta e per non farsi prendere uccide uno dei suoi uomini. «Io ho ucciso un uomo ma ho salvato le mie emozioni…» racconta, mentre diviene sempre più succube del potere dell’isola…
Oggi Logos edizioni riedita il libro includendo 15 tavole inedite in occasione dei 40 anni trascorsi dalla prima pubblicazione. Abbiamo incontrato l’autore.
Sono 40 anni dalla prima uscita del libro. Fuochi “brucia” ancora?
Oggi finalmente Fuochi viene pubblicato nella sua “dimensione” originale, rispettando la grandezza delle tavole. Un modo per dare una forza alle immagini che sono il centro di questo racconto. È un libro che ha un’intensità interna, ha un misterioso equilibrio. Sono immagini concatenate l’una con l’altra, ognuna con una sua forza evocativa. Sono immagini stratificate, colori su colori che danno questo effetto di matericità.
Il mio modo di fare fumetto è paragonabile all’opera lirica dove i testi di certi libretti sono piuttosto modesti, ma la musica li fa “sublimare”.
Quale rapporto esiste tra il disegno e il testo nei tuoi lavori? Si ha l’impressione che si tratti di un fumetto che si «sente» oltre che leggersi...
In generale il testo del fumetto è lo scheletro portante, è la logica. Il disegno è sempre complementare al testo, lo segue. Il disegno è illustrazione del testo e sua descrizione. Nel mio caso, come in altri, invece, l’immagine è portante e certe volte il testo è come la musica nel cinema: è il contrappunto. È l’evocazione sonora delle immagini. Il testo come evocazione di odori e di sapori. La struttura di una mia storia si basa sullo sviluppo del disegno e non sulla logica del testo. Sono spesso storie «inattive», fatte di evocazioni e non di spiegazioni. Storie che si basano su un altro tipo di comunicazione. Come se cercassero uno sviluppo non razionale. E questo modo di procedere è sempre considerato come sperimentale e difficile, mentre il fumetto si dice debba essere popolare, diretto, facile.
Fuochi è una storia intensa. Con un mistero. Non è una storia razionale, ma ha una sua logica interna emotiva.
I tuoi libri sono ricchi di immagini archetipe e ritmi ancestrali...
Il mio libro Fuochi è stato disegnato tutto senza parole. Sono sempre stato affascinato da certi tipi di narrazione cinematografica come quella di Tarkovskj, quando usava la voce narrante come momenti di poesia in Stalker. O ne Lo specchio dove ad un certo punto non sai più chi stia parlando. È come se il film iniziasse a parlare da sé e non sai più qual è la voce narrante. Ed è per questa maniera di raccontare non lineare, che mi piace usare a 360 gradi il colore, il testo, il ritmo delle immagini. Una cosa affascinante di quando lavoravo al mio libro Fuochi, era avere le tavole completamente mute, solo disegnate.
Aggiungevo una parola, poi un’altra... era come se arrivasse la musica. A volte erano parole che non c’entravano nulla con quello che si vedeva. Questa complementarietà, questo essere assieme, quest’unione creava una magia. Che è la magia del fumetto. È come scoprire, mentre lo facevo, le leggi basiche di un codice e sfruttarlo per la sua magia e non per le cose già acquisite del creare fumetti.
Le tue storie sembrano essere delle epiche minimali.
Sì. In effetti ho molto lavorato sulla atemporalità e sull’oggetto in sé. L’oggetto, il fumetto, e i suoi meccanismi dovevano reggere da sole. Dovevano diventare una scatola quasi fuori dal tempo. È quello che mi ha portato a fare Fuochi o La Zona Fatua. Dei mondi e degli universi. Un po’ come Herzog per esempio che era riuscito a creare dei film fuori del tempo. Ne Il rumore della brina racconto una storia piccola, una storia che può succedere a tutti. Mentre la disegni ti accorgi che i simboli che metti dentro sono tutti riferiti ad un linguaggio che può essere mitologico epico, quasi archetipo. Tutta la nostra vita quotidiana è fatta da un’avventura se la si vive in una certa maniera e non la si chiude nel piccolo. Faccio continuamente il collegamento tra un dettaglio e una visione assoluta delle cose. Può essere ingenuo, ma mi sembra che tutta la realtà minimale diventi simbolica. Per De Chirico, ad esempio, una piazza di provincia diventava una sfinge, da decodificare, misteriosa…
All’inizio degli anni Ottanta hai fondato il gruppo Valvoline con Igort, Jori, Carpinteri e altri per fare sperimentazione. Cosa ha significato Valvoline?
Il segno è stato lasciato sicuramente. Dopo Valvoline c’è stata la restaurazione. Tutte le colpe allora, nei primi anni Ottanta, vennero date a Valvoline. Ci veniva detto «avete ucciso il fumetto»... Allora abbiamo realizzato delle opere e delle sperimentazioni che sarebbe affascinante rivalutare oggi. Sicuramente delle opere che dimostrano ancora oggi con quale libertà e follia era realizzato tutto. Noi eravamo influenzati da tutto quello che c’era intorno. Era il momento giusto per tirare fuori delle cose, sia a livello personale che di linguaggio. Certe volte abbiamo preso delle strade non tanto provocatorie, ma che non davano via d’uscita. Infatti tutto il mercato è andato da un’altra parte. La lentezza, l’astrazione, l’autoironia, il doppio gioco ironico, la metafisica... Noi il pop non l’abbiamo cercato. Forse però eravamo tanto pazzi da pensare di poter fare delle cose popolari senza essere popolari. Era un nostro bisogno. Tutto questo, e anche il mio lavoro, ha seminato tra molti autori: i più sperimentali hanno come riferimento noi.
È un libro nato negli anni Settanta e il linguaggio del fumetto, così come era capitato nel cinema della nouvelle vague o nel cinema tedesco o russo, esplodeva. Sembrava che fosse naturale che succedesse. Ma come sempre capita, dopo la rivoluzione c’è la restaurazione. E infatti arriva Dylan Dog.
Tu sei un artista che potremmo definire globale.
Sì, ho sperimentato tutto a parte la musica. Anche se, recentemente, con la Philarmonie di Parigi abbiamo sviluppato un lavoro sul mio Hansel e Gretel e una riflessione sulla paura. Con dei grandi schermi, con delle voci recitanti, con l’orchestra da 90 elementi. E con me, seduto al tavolo luminoso, che disegnavo dal vivo tra l’arpa e i violini. Siamo stati in tournée, in 27 città. Stiamo lavorando per essere in Italia nel Natale del 2025.
Un’ultima domanda: mi raccontavi che non hai più l’edizione originale di Fuochi, della Granata Press del 1984. E ora?
Sì è vero. Devo aver regalato tutte le copie che avevo. Ma non importa. C’è la nuova edizione del libro che è bellissima. E poi l’isola di Fuochi esiste e vive ancora, sempre dentro di noi. L’isola è il nostro bisogno di trovare un posto dove nascondere i nostri misteri.
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