Al Museo della Rivoluzione Americana di Filadelfia, una mostra celebra l’incredibile sopravvivenza della tenda di George Washington, il primo presidente degli Stati Uniti, e invita a riflettere sulle condizioni che hanno plasmato il mito della democrazia americana.

Simbolo di potere

George Washington, prima di diventare il primo presidente degli Stati Uniti, fu nominato comandante dell’esercito delle Colonie Unite nel 1775, all’età di 43 anni. Nei successivi otto, viaggiò per le colonie dal Rhode Island fino alla sua terra natale, la Virginia, trovando rifugio, notte dopo notte, in tenda.

Incredibilmente, questa tenda è sopravvissuta e oggi campeggia al Museo della Rivoluzione Americana a Filadelfia. È ovale: viene considerata l’antenata dello Studio Ovale della Casa Bianca, costruito novant’anni fa, con lo stesso intento di far sembrare il potere una grande tavola rotonda, invisibile ma presente, attorno a cui tutti possono sedersi. Coi suoi 28 metri quadrati, e un’altezza che nei punti più alti supera di gran lunga la statura di Washington (che era un metro e 80), è un luogo inaspettatamente spazioso. Dentro, c’era tutto il necessario per il generale: una camera da letto, un ufficio, un ripostiglio e persino una zona dedicata al suo valletto William Lee.

Ogni volta che si accampava, i soldati al suo seguito impiegavano circa tre ore per montarla e arredarla, un segno tangibile di efficienza nonché di potenza diplomatica. I visitatori, infatti, prendevano nota, come un diplomatico inglese, che la definiva «bellissima e pittoresca». Ma la tenda non era solo un messaggio rivolto all’esterno; era anche il fulcro di un complesso gioco di simboli interni. Arricchito da pergolati che i reggimenti erigevano non solo per fare ombra ma anche per decorare con emblemi delle loro origini e valori, l’accampamento si trasformava da campo militare a manifesto di libertà e fratellanza.

Conservazione eccezionale

Una mostra, “Testimone della Rivoluzione: gli improbabili viaggi della tenda di Washington”, attualmente in corso e visibile fino al 5 gennaio prossimo, esplora la vita di questo straordinario cimelio.

Dopo la guerra, Washington se lo portò dietro a Mount Vernon. E alla sua morte, nel 1799, passò ai parenti della moglie Martha, che ne ritagliarono pezzi e li spedirono ai fan del presidente, quasi fosse la tunica di Cristo. Contribuirono così a trasformare la tenda in una reliquia, esponendola qua e là in eventi patriottici. Non era più solo stoffa, pali e corde, ma il motore della santificazione di Washington, quell’operazione di propaganda che lo elevò a padre della nazione, con tanto di testa appiccicata su busti di imperatori romani e apoteosi celesti in cui Washington, nudo, vola tra angeli e muse.

Nel corso della Guerra Civile, la tenda passò nelle mani della famiglia di Robert E. Lee, il generale confederato sposato con una pronipote di Martha. Quando le truppe dell’Unione saccheggiarono la loro residenza, Arlington House, fu Selina Norris Gray, una donna schiavizzata dalla famiglia, a proteggere la tenda. Le truppe la confiscarono comunque, ma quarant’anni dopo, i Lee presentarono addirittura una petizione alla Corte Suprema per riaverla.

Ci riuscirono, ma solo per rivenderla nel 1909 a un reverendo, W. Herbert Burk, che decise di creare un museo dedicato alla storia delle origini della nazione. Questo progetto divenne il Museo della Storia Americana di Valley Forge (il sito dell’accampamento invernale dell’esercito di Washington), la cui collezione formò poi il nucleo dell’attuale museo a Filadelfia.

In questi giorni, in cui il dibattito pre-elettorale, con i suoi tentativi di omicidio, accuse infondate e interferenze estere, sta creando un clima di allerta, la mostra ricorda la fondazione degli Stati Uniti come un atto tanto miracoloso quanto vulnerabile. Nella sua fragilità (non fu nemmeno impermeabilizzata), la tenda simboleggia non più l’origine militaristica dello stato e l’energia degli instancabili padri fondatori, quanto l’idea che una democrazia è necessariamente il prodotto della dedizione di innumerevoli persone.

Spettacolo e revisionismo

Il museo stesso può essere visto come un riflesso dell’attuale bipolarismo culturale americano. Progettato da Robert A. M. Stern, l’edificio neoclassico evoca quelle desolanti magioni di periferia che esprimono il potere attraverso stanze enormi, archi trionfali e pavimenti così lucidi da richiedere un mini esercito per la ceratura quotidiana. Nel cuore dell’atrio principale svetta, inspiegabilmente, un imponente scalone. (Ci sarebbe da scrivere un libro sugli scaloni che appaiono dal nulla negli edifici americani e sul loro ruolo nell’immaginario collettivo: simboli di mobilità sociale e della convinzione che un edificio debba, prima di tutto, offrire un’entrata hollywoodiana per il padrone).

La curatela del museo, però, contrasta nettamente con la pomposità dell’architettura. Al di fuori della mostra temporanea dedicata alla tenda, l’esposizione permanente continua a rendere omaggio al cittadino comune nella Rivoluzione attraverso cimeli, testi e diorami. Manichini di cera rappresentano una zuffa da bar, un promemoria delle volte in cui soldati del Maryland e della Pennsylvania si prendevano a pugni, per poi combattere fianco a fianco il giorno seguente. Una sala ricorda il contributo fondamentale dei nativi americani, alcuni dei quali si schierarono con gli inglesi e contro Washington per difendere le loro terre.

Un’altra stanza ricostruisce la prua di un veliero e invita i bambini a vestire i panni dei marinai e a manovrare cannoni, ma ricorda anche le migrazioni forzate e le scelte strazianti (arruolarsi o fuggire?) che ciascuno dovette affrontare durante il conflitto. Il museo, piuttosto che concentrarsi sulla Dichiarazione d’Indipendenza, esplora le complessità delle libertà appena conquistate, inclusi i diritti negati a donne e persone schiavizzate.

Non si limita a esaltare i grandi protagonisti, come Washington, ma ne mette in discussione la loro celebrazione, puntando i riflettori su quelle che erano considerate un tempo comparse. Ma non pensate che questo significhi rinunciare all’epica. Il museo è un trionfo di musica grandiosa e spari finti, arricchito da una miriade di video che catturano orizzonti lontani e nuvole al tramonto. Questa immersione visiva e sonora non solo coinvolge il visitatore, ma suggerisce anche che la storia americana possieda una dimensione cosmica e universale.

Tra questi film, il più spettacolare è quello dedicato alla tenda di Washington. In una sala cinematografica progettata appositamente, gli spettatori vengono immersi per dodici minuti in un turbinio di rulli di tamburo e immagini. E come la reliquia quale è, la tenda si rivela in tutta la sua magnificenza solo alla fine: lo schermo si solleva e, per meno di un minuto, ecco che appare il cimelio, illuminato da luci che formano l’ombra di Washington che cammina su e giù al suo interno, nell’atto di prendere una decisione certamente cruciale.

È una manovra di spettacolarizzazione della storia, un tentativo di renderla emotivamente tangibile e, nel contempo, di far sentire gli spettatori come eredi di quegli anonimi che si sono battuti per conservare la tenda, contribuendo in tal modo al processo, tutt’ora in corso, di costruzione della democrazia americana.

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