La Thailandia ha il tasso di obesità tra gli adulti più alto nel sud-est asiatico dopo la Malesia. Più aumenta il reddito, più cambiano le abitudini alimentari, con il consumo di cibi ad alta densità energetica ma basso valore nutrizionale. Anche tra la popolazione cinese la percentuale di obesi negli ultimi anni è raddoppiata
Le prime volte che venivo in Thailandia mi bastava sbarcare dall’aereo per sentirmi all’improvviso grassa. Erano i tardi anni Novanta, ed erano brutali: i magri erano magri, i grassi erano grassi, quelli in mezzo aspiravano a diventare come i primi; il termine “curvy” era riservato a creature fatte a clessidra; la sequenza aurea non era quella di Fibonacci ma 90-60-90. In ogni caso, i thailandesi all’epoca erano inequivocabilmente magri.
Così tu salivi normopeso sulla BTS, la metropolitana aerea di Bangkok, ma ti bastavano tre fermate e un po’ di spirito di osservazione per sentirti sovrappeso: intorno a te giovani, anziani, bambini, donne e uomini e tutte le sfumature arcobaleno che in Thailandia esistono da prima che noi ci accorgessimo dell’esistenza stessa dell’arcobaleno, tutti insomma, erano snelli e sottili.
Il cambiamento
Oggi a Bangkok ci vivo, prendo la BTS e la metropolitana, e come prima mi guardo intorno – ma il quadro è differente. La Thailandia sta “lievitando”, e lo fa a una velocità sorprendente. La mia osservazione empirica è che: 1) gli anziani restano mediamente sottili, mentre molti giovani vanno prendendo dimensioni americane; 2) che a via di mettere zucchero ovunque, anche nelle zuppe, si prendono chili, tanto più in un paese dove è normale che ti chiedano per qualunque beverone quale livello di dolcezza preferisci (la scala va da 0 a 120 per cento); 3) che nella capitale c’è un’offerta di cibo, dal fantastico street food allo stellato, che al confronto New York è modesta.
A Bangkok, come nel titolo del film di Daniel Scheinert e Daniel Kwan, puoi mangiare “everything everywhere all at once”, di tutto ovunque in ogni momento. Si mangia alla thai, certamente, ma anche coreano, indiano, giapponese, cinese, e ovviamente italiano.
I giovani vanno da Starbucks e da Piripiri, da Yuzu Ramen e da Mozza, nelle panetterie francesi e in quelle giapponesi, da Domino’s pizza e nelle pizzerie gourmet. È l’economia, bellezza: questo paese diventa via via più ricco (non a caso ha avviato il processo di adesione all’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) e contrae, come già abbiamo fatto noi, le malattie del benessere. A partire dall’obesità.
Le cause del fenomeno
Non succede soltanto in Thailandia, perché il problema riguarda diversi paesi asiatici, ma la Thailandia ha il tasso di obesità tra gli adulti più alto nel sud-est asiatico dopo la Malesia: il 15,4 per cento, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Non solo: secondo la World Obesity Federation il paese è quarto al mondo per sua velocità di propagazione, superato solo da Laos, Vietnam e Maldive.
Le cause? Almeno due: crescita economica e allargamento della classe media, soprattutto nelle aree urbane. Più cresce il numero di “colletti bianchi”, più la vita si fa sedentaria, più si consumano cibi pronti poco salutari e meno si fa attività fisica.
Più aumenta il reddito, più cambiano le abitudini alimentari: sempre più thailandesi, specialmente nella capitale, consumano cibi ad alta densità energetica ma di basso valore nutrizionale come fritti e bevande zuccherine, spesso acquistati in convenience store tipo 7 Eleven, oppure fatti recapitare direttamente alla scrivania. Con buona pace delle raccomandazioni di consumare almeno cinque porzioni di frutta e verdura (e minimo 400 grammi al giorno per i bambini) per assicurarsi una dieta equilibrata.
Tra eccesso di calorie e carenza di nutrienti essenziali, l’impatto economico delle condizioni di salute legate all’obesità in Thailandia è significativo. Secondo i calcoli dell’Hitap, il programma di Valutazione delle Tecnologie e degli Interventi Sanitari del governo thai, equivalgono a circa 350 milioni di dollari.
I dati cinesi
I thai si possono comunque consolare guardando alla Cina, dove la percentuale di obesi è raddoppiata negli ultimi anni, secondo l’Oms.
E il dato potrebbe peggiorare: erano 112 milioni nel 2023, ma si prevede che diventino 329 milioni entro il 2030. Anche in questo caso le aree urbane più sviluppate, come quelle delle regioni costiere orientali, si allontanano dal consumo di cibo tradizionale e “occidentalizzano” la dieta: sempre più carne, sempre più dolci.
Con il consueto contrappasso evidente nell’offerta di prodotti dietetici: il paese che un tempo doveva farsi bastare una ciotola di riso con poche proteine oggi vede gli scaffali dei supermercati rigurgitare di pasti pronti a basso contenuto calorico, polveri sostitutive del pranzo, snack chetogenici, prodotti senza o con poco zucchero, bevande “funzionali”.
Allo stesso tempo cresce veloce anche un settore un tempo impensabile in Cina, quello della moda “plus size”, che si sta avvicinando a quota 20 per cento del mercato moda globale, facendo la fortuna di brand locali come Maia Active, Neiwai e Plusmall, dell’influencer Yang Tianzhen. Neiwai ha anche promosso la campagna “No body is nobody”, ma rema controvento: quello che in occidente è body positivity lì viene chiamato fat activism, diciamo attivismo pro-obesità. E l’ideale estetico femminile, in Cina, resta ancorato a tre pilastri: giovinezza, magrezza, carnagione chiara.
Tutta diversa l’India, dove l’opulenza fisica ancora suggerisce opulenza economica. E dove l’obesità, diversamente da altri paesi asiatici, è diffusa soprattutto tra le donne, che spesso hanno ruoli più sedentari dei maschi restando molto in casa.
Il caso del Giappone
Un paese però c’è, che resta asciutto, e indifferente alle seduzioni di altre cucine: il Giappone. Il paese che non ha bisogno dell’Ozempic (cioè il farmaco che sta facendo dimagrire il mondo), ha titolato con stupore il magazine Time, mettendo a confronto due cifre: in America gli obesi sarebbero ormai il 42 per cento della popolazione, in Giappone il 4,5 per cento.
Il perché lo spiega Johann Hari, autore del bestseller Magic Pill: the Extraordinary Benefits and Disturbing Risks of the New Weight-Loss Drugs, dedicato appunto a queste nuove “pillole magiche” che hanno rivoluzionato il settore della dietologia: nel cuore della cucina giapponese c’è la semplicità. L’asciuttezza. Il meno al posto del più.
Lì dove altri aggiungono, i giapponesi sottraggono, alla ricerca della qualità assoluta che non ha bisogno di addizioni. È il principio di “less is more”, applicato però non allo stile, ma al cibo. Altro principio fondamentale è quello di mangiare più cose nello stesso pasto, possibilmente cinque, ma in piccole porzioni: un sorso di zuppa, poi un boccone di riso, quindi un assaggio di pesce (più raramente carne); ancora un sorso di zuppa, poi un assaggio di verdura.
E così via, un boccone piccolo e un sorso dopo l’altro, con calma, assaporando la differenza sia dei sapori che delle consistenze e delle temperature. Il risultato è che mangi lentamente, e avverti prima il senso di sazietà. Che comunque fin da piccolo sei stato allenato a riconoscere, perché ti insegnano a scuola che basta farlo all’80 per cento: lo scopo, nel mangiare, non è mai riempirsi.
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