Nel 1881, quando il primo ristorante italiano aprì i battenti a Niigata, nessuno avrebbe potuto immaginare che la cucina italiana sarebbe diventata una delle più amate e reinterpretate in Giappone. Secondo una ricerca del 2023, Tokyo risultava avere il maggior numero di ristoranti italiani, per un totale di 4.982. Oggi, l’itameshi, un termine che fonde “Italia” e “meshi” (parola giapponese per “pasto”) è un fenomeno culturale e gastronomico che parla di ibridazione gradevole e meravigliosamente bizzarra.

L’Italiaken

Prima che l’itameshi diventasse un fenomeno di massa, c’era lui: Pietro Miola, un trentino con un’avventura che sembra uscita da un romanzo di Jules Verne.

Approdato a Yokohama nel 1874 dopo aver lavorato come sovrintendente della cucina sulla nave da guerra Clotilde, arrivò a Niigata, una bellissima città che si affaccia a nord-ovest sul Mar del Giappone, sfuggendo alle restrizioni per stranieri grazie a un circo francese. Ferito e abbandonato dalla compagnia, Pietro fu aiutato dal governatore, dal quale ricevette 200 yen per aprire Italiaken, un ristorante dedicato allo gyunabe (stufato di manzo), una novità assoluta in un Giappone che non mangiava carne bovina.

Si trattava, oltretutto, del primo ristorante occidentale del paese. I giapponesi vennero introdotti ai sapori italiani, come la tradizionale salsa bolognese per gli spaghetti, i maccheroni e l’Asti Spumante. Dopo un incendio nel 1878, Italiaken fu ricostruito e divenne un punto di riferimento assoluto, attivo ancora oggi.

In seguito, anche grazie a circostanze legate alla guerra, nacquero altri ristoranti italiani come Antonio e Donnaloia a Kobe nel 1952, e Amore Abela a Takarazuka. Con il tempo, la cucina italiana conquistò sempre più i giapponesi, affascinati dalla semplicità e dal gusto della cucina tricolore. Specialmente con la crescita economica del Giappone, ebbero modo di fiorire poi nuovi locali, gestiti non solo da italiani, ma anche da locali che avevano fatto esperienza in Italia, contribuendo a dare vita alla cucina Itameshi.

Spaghetti naporitan

Mentre piatti come la pizza, gli spaghetti e il risotto avevano iniziato a diffondersi in Giappone già dagli anni Venti del Novecento, l’itameshi è esplosa solo negli anni Novanta: dopo lo scoppio della bolla economica della decade precedente, i giapponesi cercavano cibo che fosse gustoso ma accessibile. La costosa cucina francese, prima di gran moda, perse appeal. Per sopravvivere, molti chef si rivolsero dunque alla cucina italiana, vista come un’alternativa gustosa ed economica dal Vecchio Continente: nasceva così la cucina itameshi.

La pasta è protagonista negli itameshiya (i locali in cui si serve cucina itameshi), dove le cucine sfornano una vasta gamma di wafu pasta, ovvero la pasta in stile giapponese. Molti soddisfano l’amore del Giappone per i frutti di mare, con ingredienti come il mentaiko (uova di merluzzo piccanti) e lo shirasu (bianchetti) spesso abbinati a spaghetti ricchi di panna. Altre proposte includono reinterpretazioni di piatti italiani classici, talvolta così distanti dall’originale da risultare irriconoscibili. Un esempio è la carbonara, che sostituisce pancetta, parmigiano e uova con abbondante panna, tuorlo crudo e verdure. Ma il piatto più iconico – e forse il più “offensivo” per gli italiani – è il naporitan.

Un piatto che, come suggerisce il nome, sembrerebbe un omaggio alla città di Napoli, ma che in realtà è una creazione 100 per cento giapponese. Nato nel Dopoguerra, grazie all’inventiva dello chef Shigetada Irie del Grand Hotel di Yokohama, il naporitan è un mix di spaghetti bolliti, ketchup, pancetta, cipolla e peperone verde.

Tutto ebbe inizio il 30 agosto 1945, quando il comandante delle Forze Alleate sbarcò all’aeroporto di Atsugi a Yokohama e si diresse verso il New Grand Hotel, trasformato in residenza per ufficiali americani. Lo chef dell’hotel, Shigetada Irie, formatosi nella cucina francese e italiana, si ispirò agli spaghetti al ketchup delle razioni militari statunitensi, e inventò questa ricetta piatto per farli sentire «a casa».

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, però, Irie non usò mai il ketchup: creò una salsa con purea di pomodoro, aglio, pancetta affumicata, funghi in scatola e verdure. Inoltre, lessava la pasta a metà cottura e la lasciava in ammollo per ore, ottenendo una consistenza simile agli udon, più vicina ai gusti giapponesi. Il piatto divenne presto un enorme successo, sinonimo di comfort food, e sono molti i kissaten (i caffè tradizionali giapponesi) e le mense scolastiche che ancora oggi lo servono, anche se si continua a discutere sulla verità delle origini della ricetta. Al posto della purea di pomodoro, cara e difficile da reperire, viene messo il ketchup. La ricetta, inoltre, prevede anche i würstel, per aggiungere un po’ di proteine a basso costo.

Milano fū doria

Un altro amato piatto itameshi è lo shrimp doria: simile al risotto, è composta da strati di riso, besciamella, crema di gamberi bolliti, il tutto cosparso da formaggio su salsa al gratin e cotto in forno. Fu ideata da Saly Weil, primo chef dell’Hotel New Grand, nel 1927. Quando un banchiere europeo gli chiese un piatto leggero, Weil improvvisò un piatto con riso al burro, crema di gamberi, formaggio e besciamella, gratinando il tutto.

Il piatto piacque così tanto che entrò nel menù come Shrimp Doria, diventando una specialità dell’hotel. I suoi allievi, in seguito, lo diffusero in altri ristoranti, rendendolo un classico della yōshoku (cucina occidentale) ancora oggi amato in tutto il Giappone.

Un’alternativa a base di carne si chiama Milano fū doria ed è nata nel 1969, quando un cliente della catena di ristoranti ancora esistente “Saizeriya” vide un dipendente mangiare come pasto un riso alla curcuma con besciamella, ragù e formaggio grattugiato.

Pizza wafu

E come potrebbe mancare la pizza? In Giappone, la pizza diventa wafu, con topping come mentaiko (uova di merluzzo piccanti), maionese, pollo teriyaki e persino miso.

A volte, l’impasto tradizionale lascia il posto al mochi, per una base gommosa e croccante, arricchita da ingredienti come funghi shiitake e tabasco. Per un’opzione leggera, c’è la nama ham salad, con prosciutto crudo, lattuga e parmigiano. E per concludere, il gelato giapponese con sapori come tè verde tostato, sesamo nero e salsa di soia.

Itameshi oggi

Si dice che la cucina francese e quella cinese siano quelle della tecnica, quella italiana e giapponese quelle degli ingredienti. Per questo motivo, il fenomeno itameshi non è rimasto confinato al Giappone ma ha conquistato il mondo, con la sua combinazione speciale di sapori con il comune denominatore dell’umami.

A New York, locali come Davelle, nel Lower East Side, servono piatti tradizionali come gli spaghetti al mentaiko (uova di pesce piccanti) in un’atmosfera da caffè giapponese, mentre al ristorante Angelina a Dalston, a Londra, il menù degustazione offre dal chawanmushi (budino a base di latte e uova) aromatizzato con pomodori datterini alla focaccia al nori e rosmarino.

L’itameshi è una cucina che non si prende troppo sul serio, come dimostra l’Alter Ego di Tokyo dello chef residente a Milano Yoji Tokuyoshi. Il ristorante gioca a mischiare ingredienti giapponesi – come calamaro lucciola e gamberetti sakura – con tecniche italiane, creando piatti come gli shiitake fritti con bottarga. Più che fusion, affinità elettive.

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