Non un metro di pellicola girato in Francia: per Momenti di Gloria erano previsti soltanto 4 milioni di sterline di spesa, una produzione in economia che rese parecchio, 250 milioni. Quel che si vede nel film non è lo stadio parigino di Colombes, ma l’Oval Leisure Centre di Bebington, una cittadina che si raggiunge in traghetto da Liverpool. Se per Full Metal Jacket Stanley Kubrick aveva creato il suo Vietnam in una zona abbandonata nella periferia di Londra, Hugh Hudson portò Parigi sul fiume Mersey. Sono vere, non create dal computer come capita oggi, le comparse, istruite dalla costumista Milena Canonero, torinese di nascita, genovese per studi, quattro Oscar (Momenti di Gloria, Barry Lindon di Kubrick, Marie Antoinette di Sofia Coppola e Grand Budapest Hotel di Wes Anderson) e nove nomination: «Andate a casa, rovistate negli armadi, nei bauli. Qualcosa troverete». Le pagliette, i cappellini, i gilet non costarono nulla alla produzione.

Dopo più di quarant’anni, e con le Olimpiadi di Parigi alle porte, Chariots of Fire (il titolo originale è tratto dal verso di salmo che compare anche in una poesia di William Blake) torna in scena. Solo i Giochi parigini del 1924 hanno avuto un film capace di tramandarli, celebrarli, farli amare. Olympia di Leni Riefenstahl è un’altra cosa.

Ma le “libertà” che Hugh Hudson, il regista, e Colin Welland, lo sceneggiatore, si sono concesse sono una quantità. Tutto perdonato – o ignorato – quando nel 1981 il film finì sugli schermi e l’anno dopo, nella notte degli Oscar, quando per la prima volta spezzò l’egemonia americana nella categoria miglior film dell’anno.

Scena iniziale, musica di Vangelis, da allora colonna sonora in tutti gli stadi del mondo: sotto un cielo plumbeo, forato da un raggio di sole, gli atleti britannici corrono scalzi, sguazzando nell’acqua. Ma non è la spiaggia di Broastairs, Kent, dove la squadra di atletica si allenò, alloggiando al Carlton Hotel, prima di attraversare la Manica. Hudson decise di girare 500 miglia più a nord, a Viking Bay, Scozia, non lontano dal più famoso campo da gold del mondo, St Andrews.

La corsa nel cortile di Cambridge (The Great Court Run), da ultimare entro i dodici rintocchi del campanile, è la summa delle “variazioni”: il cortile del Trinity College non venne concesso e così si ripiegò su quello di Eton. Harold Abrahams (interpretato da Ben Cross) riesce nell’impresa ma in realtà non corse mai su quell’antico lastricato. Chi riuscì a battere le lancette, nel 1927, fu David George Bronlow, marchese di Exeter, Lord Burghley che evitò di collaborare al film. Così venne inventata la figura di Lord Linsey (Nigel Havers) che fuma e si allena piazzando sugli ostacoli calici di champagne. «Mio padre non avrebbe mai sprecato del buon champagne», commentò al riguardo la figlia del marchese che avrebbe guidato l’organizzazione dell’Olimpiade londinese del 1948.

Un altro che rifiutò di collaborare fu Douglas Lowe, uno dei tre nella storia olimpica ad aver vinto due volte la medaglia d’oro negli 800. Hugh e Welland gli sottoposero una prima trama tripartita: in parallelo, le storie di Abrahams, dello scozzese Eric Liddell e la sua. Disse che la cosa non gli interessava. Lowe morì il giorno della “prima”, Burghley qualche mese dopo. Anche il neozelandese Arthur Porritt, terzo nei 100, non ebbe un buon impatto con il progetto, nego il suo nome (nel film viene “creato” un Tom Watson) e più tardi, dopo aver assunto il titolo di medico della Real Casa, ammise di aver sbagliato.

La grande sfida sulle 100 yards ai campionati britannici tra Liddell e Abrahams che dopo la sconfitta cade nello sconforto non è mai avvenuta. I due si incontrarono solo una volta, sulle 220 yards, ed ebbe la meglio lo scozzese che – membro della Chiesa di Scozia, destinato a diventare missionario in Cina e morto in un campo di concentramento giapponese nel 1945 – non correva la domenica. E anche qui Hudson e Welland colpirono.

Al momento di imbarcarsi per la Francia, un giornalista dice a Liddell se sapeva che le batterie dei 100 si sarebbero corse nel giorno del Signore. Liddell (Ian Charleson) ha un sussulto e da lì inizia il lungo travaglio, con autoritari interventi degli aristocratici britannici alla guida della spedizione, che lo porterà a correre e a vincere i 400. Non è vero niente: Liddell conosceva da mesi l’orario delle gare. Corse regolarmente i 200 (conquistò la medaglia di bronzo e Abrahams fu sesto) ma nel film non se ne fa cenno. E nel giorno della sua vittoria non ricevette dall’americano Jackson Scholz la striscia di carta con il versetto «Chi mi onora, io onorerò». Pare sia stato uno dei massaggiatori inglesi ad allungargli il biglietto.

La notizia della vittoria di Abrahams viene data alla fidanzata da un inserviente nel camerino del teatro londinese dove Sybil era l’interprete di un’operetta di Gilbert e Sullivan. In realtà Harold e Sybil si incontrarono solo negli anni Trenta. Ma una storia d’amore “stava bene”. Scomparso tre anni prima dell’uscita del film, Abrahams celebrava la data della sua vittoria, 7 luglio 1924, incontrando a pranzo Porritt. Da questi incontri risultò che non si era impegnato nell’atletica per combattere l’antisemitismo che avvertiva nei suoi confronti (l’elemento ricorre nel film) ma solo per essere all’altezza dei fratelli, uno atleta, l’altro medico militare.

La figura più rispettata è quella di Sam Mussabini (Ian Holm, più tardi Bilbo Baggins nel Signore degli Anelli), allenatore di Abrahams, tenuto al largo per le sue ascendenze italiane e arabe e per un approccio professionistico in uno sport, specie quello britannico, dilettantistico e destinato a pochi privilegiati.

Oggi Momenti di Gloria è una Spoon River: il primo ad andarsene è stato, quarantenne, per Aids, Ian Charleson, scozzese come il campione che impersonava: capitò mentre recitava Amleto. È stato seguito da Ben Cross, da John Gielgud (uno dei rettori di Cambridge), da Hugh Hudson, da Colin Welland, da Vangelis, da Ian Holm, da Dodi Al Fayed che nei crediti finale figura come produttore esecutivo. Resiste David Puttnam, 83 anni, il produttore che accettò la sfida.

Rivederlo è sempre un piacere e usare la lente di ingrandimento è utile per scovare nuovi particolari, come la prima fuggevole apparizione di Kenneth Branagh, non menzionato nei titoli di coda.

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