Il mondiale vinto dal saltatore a Budapest completa una collezione di titoli: europei all’aperto e indoor, mondiale indoor, olimpico. Una sorta di Gimbo Slam. Così l’atletica si domanda adesso se ci sia mai stata nella storia italiana una figura più grande
Dicono che nell’Olimpo suonino la cetra. Nel suo, di Olimpo, Gimbo suona la batteria. Tamberi nella notte. Su quel monte riservato agli dei risiedono parecchi azzurri e dopo le ultime evoluzioni c’è chi suggerisce che il ruolo di Giove tocchi ora a questo simpatico e genuino giovanotto che ha vinto l’Olimpiade (divisa a metà con il fraterno amico Barshim), gli Europei (due volte), il Mondlale e l’Europeo indoor, la Diamond League, circuito dei grandi meeting, e ora, finalmente, il Mondiale all’aperto. A Budapest Gianmarco Tamberi ha chiuso il Gimbo Slam. È il più grande? «No, perché Sara Simeoni e Pietro Mennea sono arrivati al record del mondo».
Il virgolettato è suo. Gimbo è troppo giovane e non ha ricordato Adolfo Consolini: oro e argento olimpici, tre titoli europei, tre record del mondo nel lancio del disco in un periodo, il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta, in cui il calendario dell’atletica non era affollato come la metropolitana di Tokyo.
Tamberi è un caleidoscopio, ha molti volti (e non solo per le rasature) ma alla fine ne ha uno solo. È entusiasta di quel che fa, di quel che offre, è determinato, è innamorato della sua dedizione. «Io non sono il più forte ma riesco sempre a darmi motivazioni». Il personaggio invita a immagini letterarie o mitologiche: il ritratto di un gentiluomo romantico, pronto a eroiche imprese in un paese straniero, come Lord Byron o, più banalmente, una fenice che ha saputo rinascere dalle proprie ceneri.
E così la macchina del tempo propone un’escursione a sette anni fa quando sulla pedana di Montecarlo Gianmarco visse gioia e dramma in pochi fulminanti minuti: tessuti dalla Parca del Caso il volo a 2,39, l’attacco a 2,41, la caviglia che va in frantumi. Anche in questo caso soccorre la mitologia: gli dei possono essere crudeli con chi vuole spingersi troppo in alto. Ma in questo caso non è cera che si scioglie, ma legamenti che saltano come cime sottoposte a una spietata tempesta. Un vecchio amico che se n’è andato, tecnico di cultura profonda, espresse il suo cordoglio: da incidenti del genere non ci si riprende più.
E Gimbo, airone azzoppato che saltellava sulle stampelle andò ugualmente a Rio, a distribuir sorrisi appena velati, a respirare l’aria, la sua aria. Un anno dopo, le lacrime londinesi: primo degli esclusi dalla finale. Scorrevano lungo le gote, non si fermavano e non si fermava lui in quel boccaporto in cui era arduo fargli domande.
La realtà è che con Gimbo, nella gioia e nel dolore, nella fortuna e nelle avversità, è inutile far domande. Pensa a tutto lui: tema, variazioni, confessioni che vanno alla radice. «La verità è che con mio padre non c’erano solo le difficoltà che possono correre tra allenatore e atleta, ma anche quelle tra padre e figlio». Rapporti sempre difficili, sin dalla prima adolescenza. E così ha cambiato, ha rischiato e ha trovato in Giulio Ciotti più che un allenatore, un compagno di avventura. E a Budapest, insieme alla moglie Chiara, ha fatto l’esordio la mamma, Sabrina.
Tutto è cambiato e lui ha vinto con la successione di salti perfetti a 2,29, 2,33, 2,36 e JuVaugh Harrison, nato in Alabama come Jesse Owens e Carl Lewis, ci è rimasto male (alla fine, sconfitto per quel primo fallo a 2,36) e quando Gimbo gli ha alzato il braccio come fa l’arbitro della boxe, il treccioluto aveva gli angli della bocca che tiravano all’ingiù.
Gimbo è una benedizione: gli avversari sono tutti amici e qualcuno, come l’austaliano Brandon Starc, spesso va ad Ancona ad allenarsi con lui. Ma in testa alla classifica dell’affetto c’è Mutaz Essa Barshim: si conoscono da tredici anni e l’incontro fatale avvenne a un Mondiale juniores in Canada. «Tu devi essere il famoso Barshim», disse Gimbo saltando in braccio al qatariota sottile come un fuscello portato dal kamsin, uno dei venti del deserto. «Così capii subito che Gianmarco Tamberi era pazzo, completamente pazzo», sorride Barshim, ospite al matrimonio di Gianmarco e Chiara («È Mutaz il più grande saltatore della storia») e l’altra sera protagonista dell’happening insieme al pargolo che saltellava sul saccone.
Ufficialmente la gara non era finita: Tamberi, dopo aver scalato la tribuna in un viluppo di baci e abbracci, aveva tenuto un salto a 2,40, trasformato in una rincorsa per correre verso un mondo di gioia, una dimensione che lui, novello Orfeo, riesce a creare in tutti gli stadi del mondo. Come Bolt, il campione di tutti, «non il super eroe», per la capacità di coinvolgere, per la sincerità che la gente annusa in lui, in ogni parte del mondo.
Non è un istrione. È così da sempre: a Pechino, nel 2015, lasciò la pedana per incitare Antonella Palmisano, appena entrata nello stadio; a Tokyo corse ad abbracciare Marcell Jacobs che stava ancora decelerando e quell’immagine è nel cuore e nella testa di tutti. In un mondo spesso ipocrita e fasullo, Gianmarco Tamberi ha il dono della genuinità, di un’umanità mai intaccata. Non farà mai il record del mondo e lo sa, ora va incontro all’ultima avventura della sua vita volante, i Giochi di Parigi 2024. Barshim sarà anche il suo più grande amico ma una condivisione basta e avanza.
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