- Non occorre essere fini conoscitori di Luigi Pirandello per innamorarsi del film di Paolo Taviani che dal concorso della Berlinale arriva in Italia il 17 febbraio. Una pellicola anticonvenzionale, in cui viene mantenuto il titolo tratto da un racconto pirandelliano, benché in corso d’opera sia scomparsa dal film la scena che lo giustificava.
- C’è la sostanza della visione pirandelliana del mondo senza ingombri intellettualistici ad appesantire il racconto e quell’ironia che Pirandello classificava come “il sentimento del contrario”.
- Nessun riscatto attraverso il sarcasmo. È l’assurdo dell’esistenza che rende tutti vittime, anche l’omicida che rivive, secondo Taviani, «l’insanabile dolore dell’emigrato».
Non occorre essere fini conoscitori di Luigi Pirandello per innamorarsi di Leonora addio, il film di Paolo Taviani che dal concorso della Berlinale vola in sala da noi già il 17 febbraio. Innamorarsi è un verbo strano da usare per il cinema d’autore. L’art movie, equivalente anglosassone dell’espressione, di rado è concepito per arrivare alla pancia. A 90 anni, e con una dedica «a mio fratello Vittorio» piazzata in testa, anziché sui titoli di coda come è costume ordinario, Paolo Taviani ci riesce.
Di anticonvenzionale c’è tutto, in questo film. Anticonvenzionale è quel manifesto dedicato a una figura secondaria, in apparenza. Anticonvenzionale è stato mantenere il titolo iniziale, tratto da un racconto pirandelliano, benché in corso d’opera sia scomparsa dal film la scena che lo giustificava, con la protagonista che canta alle figlie un’aria dal Trovatore.
I Taviani hanno vinto l’Orso d’oro a Berlino nel 2012 con Cesare non deve morire, la loro potente resurrezione carceraria di Shakespeare. Non ho sempre amato il loro cinema. Non tutto. Ma in questo film di Paolo in solitaria è come se respirassero insieme. Insieme lo avevano concepito, del resto, come finale del loro Kaos, nel 1984, a titolo di loro personalissimo contributo al novelliere dello scrittore, una sorta di apocrifo nutrito dello stesso humus. All’amato Pirandello i due erano tornati anche nel 1998, con Tu ridi.
Cinema neorealista
È una di quelle opere benedette in cui tutto si tiene con naturalezza, e con naturalezza sorprende. C’è la sostanza della visione pirandelliana del mondo senza ingombri intellettualistici ad appesantire il racconto. E c’è il più strepitoso collage di spezzoni di repertorio e grande cinema neorealista italiano (più fedele alla realtà di quegli anni cruciali del dopoguerra, sostiene Paolo Taviani, di qualsiasi materiale d’archivio) mai realizzato, a memoria, da un’opera di finzione. Il montaggio è di Roberto Perpignani, ma l’uso del bianco e nero, spezzato da irruzioni di colore, può fare miracoli.
Luigi Pirandello parla poco nel film, fuori campo e con la voce di Roberto Herlitzka. Perché quando inizia la storia è già morto. La storia, più paradossalmente pirandelliana di qualsiasi intreccio da lui concepito, è la travagliata odissea delle sue ceneri. Testimoni e protagonisti diretti, come l’allora studente Andrea Camilleri, hanno già raccontato quel bizzarro percorso: tre funerali e mezzo, un cursus grottesco durato un quarto di secolo.
Lo ha ricostruito nel suo libro Roberto Alajmo nel 2008. “Il figlio del caos”, per auto definizione, ha già ricevuto il Nobel, nel 1934, commentandolo - in una lettera a Marta Abba - con toni da vinto, più che da vincitore: «Non mi sono mai sentito tanto solo e tanto triste. Il dolce della gloria non può compensare l’amaro di quanto è costato».
Alla sua morte, due anni dopo, la nomenklatura mussoliniana pretenderebbe pompose esequie fasciste, coi gagliardetti e la banda. Ma lui ha stilato disposizioni precise: «Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi».
Vorrebbe che le sue ceneri fossero disperse al vento, o, se questo fosse proibito, portate in Sicilia e murate «in qualche rozza pietra della campagna dove nacqui». Qui comincia l’avventura, per così dire, così venata di assurdo e grottesco da guadagnarsi dignità di letteratura.
Oltre la cronaca
A Paolo Taviani non interessa la nuda cronaca. Sul filo del racconto scorre il travaglio di quel pezzo di storia, il processo per le fosse Ardeatine, Alcide De Gasperi in America e la difficile ricucitura con i vincitori, i carri merci adattati a tradotte, le facce degli italiani immigrati, frammenti di vita dei profughi e dei prigionieri di guerra che tornano. Le facce vere, quelle che non ci rassegnavamo a veder archiviate con Roberta Rossellini e compagni, lui miracolosamente le ritrova.
È come uscire dal tunnel del solito universo da fiction tv, blindato dagli agenti con le loro scuderie di aspiranti divi/dive rifatti e pompati. I non-attori sono la salvezza del cinema, ma da noi sono una pratica dismessa. Giorgio Diritti è tra i pochi che ancora lo sanno. Solo un paio di attori noti, qui, coerentemente in sottrazione: Fabrizio Ferracane e Claudio Bigagli. Ma tra la finzione di Taviani e gli spezzoni di Paisà, L’Avventura, Estate violenta, Il sole sorge ancora, Il bandito, Amore rosso-Marianna Sirca, Amore difficile e il Kaos di casa non c’è soluzione di continuità. È lo stesso cinema, la stessa scelta - estetica e politica - di campo.
Ironia suprema
L’umorismo grottesco degli incidenti di percorso rispecchia i fatti reali. Dopo dieci anni di parcheggio al cimitero del Verano, il giurista e politico Gaspare Ambrosini (nessun nome però viene citato dal film) ottiene per intercessione di De Gasperi di poter trasportare i resti di Pirandello ad Agrigento su un aereo militare americano.
L’antica anfora greca che li contiene viene imballata in una cassa. Scatta la superstizione: il gruppetto di siciliani accolto sull’aereo non vuole viaggiare col morto. Per superstizione o per vero guasto, l’aereo non parte. Il traghettatore (Ferracane) deve ripiegare su una littorina. Ma a metà viaggio la cassa scompare.
In tre l’hanno spostata per giocare a tresette col morto: verità di Vangelo, assicura Camilleri. Ad Agrigento spunta lo stop del vescovo (Bigagli): nessun corteo benedetto per un defunto cremato. L’espediente è nascondere l’urna in una bara. Che però è una bara piccola, da bambini. E sono i bambini, dai balconi, a scovare l’umorismo nero della morte: «È la bara di un nano!».
È la stessa ironia di Pirandello, che al suo medico, in fin di vita, diceva: «Non abbia tanta paura delle parole, professore, questo si chiama morire!». Bisognerà però aspettare il 1962 perché le ceneri, traslocate dall’anfora in un cilindro metallico, siano ricoverate sotto il grande pino nella villa dello scrittore, nella contrada Caos, dentro un masso promosso a monumento.
Per suprema ironia, un mucchietto di ceneri non entra nel cilindro, e un provvidenziale professor Zirretta le raccoglie in un giornale per disperderle secondo le volontà dello scrittore «nel gran mare africano». Nello spassoso resoconto di Andrea Camilleri sui fatti, una ventata malandrina schiaffa giornale e contenuto in faccia al professore. Non c’è Camilleri, nel film, ma ci sono fiumi di quell’ironia che Pirandello classificava come “il sentimento del contrario”.
Varrebbe la pena di ragionare sulla rilettura cechoviana – mediata da Haruki Murakami - che Ryusuke Hamaguchi fa nel suo Drive my car, in testa ai like stracinefili di queste settimane e in corsa per l’Oscar. Sono due film strutturati sulla complessità di narratori e drammaturghi di serie A. Da spettatrice barbara e triviale, che dal cinema pretende anche emozioni, un confronto ravvicinato tra i rispettivi risultati mi solleticherebbe parecchio.
L’assurdo dell’esistenza
Leonora addio ha una coda a colori. Il chiodo, estremo racconto americano di Pirandello vicino alla morte, è una riflessione accessoria sulla morte e sulla follia come ribellione. Spunta un titoletto di cronaca nera: bambina uccisa a Brooklyn da un immigrato.
C’è un ragazzino siciliano, Bastianeddu, che è stato strappato a forza dalle braccia della madre e lavora nella trattoria del padre. C’è un lungo chiodo caduto da un carro. Ci sono due bambine che si azzuffano. C’è un omicidio inspiegabile. Perché tutto, secondo Bastianeddu, che non sa dare ragioni, è accaduto «apposta».
Nessun riscatto attraverso il sarcasmo. È l’assurdo dell’esistenza che rende tutti vittime, anche l’omicida che rivive, secondo Taviani, «L’insanabile dolore dell’emigrato». Non è la vita, e non è letteratura: sono entrambe le cose filtrate dal cinema, che è spettacolo.
E a questa dimensione il regista ci conduce per mano, letteralmente: atto di umiltà o rivendicazione di specificità artistica che sia, anche il finale del film è una trasgressione che pochi autori giovani saprebbero osare.
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