Le Fiabe gialle raccolte dal Meridiano Mondadori sono il super racconto natalizio della nostra editoria. Ma vale la pena leggere anche il christiano Manganelli, insieme a Vargas Llosa e al dickensiano Trollope
Avevo detto che non avrei mai detto che l’avevo detto. Ma, davanti al Meridiano appena pubblicato di Agatha Christie, Fiabe gialle, devo proprio dirlo che l’avevo detto (che era una grandissima scrittrice). A convincermi della sua maestà letteraria c’erano stati certo Dieci piccoli indiani (un classico ma non un capolavoro, come sostiene Pierre Lemaitre) e L’assassino di Roger Ackroyd (un classico e un capolavoro, sempre secondo Lemaitre) e Sipario, l’ultima avventura di Poirot (romanzo giustamente incensato da Antonio Moresco, curatore del Meridiano dedicato alla scrittrice).
Ma la convinzione assoluta scattò dieci anni quando gli Oscar riproposero in un bel cofanetto Tutto il teatro della Christie e lessi due capolavori. Uno era Il verdetto, dramma del 1958 con protagonista un intellettuale, geniale e integerrimo, scappato per questioni politiche dall’Europa dell’Est e rifugiatosi a Londra. La moglie è molto malata, immobilizzata su una sedia a rotelle e assistita da una cugina, una brillante studiosa di fisica che si sacrifica nel ruolo di badante anche perché è innamorata del professore. Così come è innamorata persa del professore una ragazza bella, ricca e viziata, che vuole, fortissimamente vuole, diventare sua allieva.
A questo punto (secondo costume di casa Christie) c’è un delitto, un delitto a scena aperta di cui vediamo perfettamente esecuzione e autore. Il modo in cui Christie risolve la situazione è una performance di altissima tecnica drammaturgica.
L’altro capolavoro (e anche classico), Testimone d’accusa, è celebre per il film con la regia di Billy Wilder e le interpretazioni indimenticabili di Marlene Dietrich e Charles Laughton (probabilmente il più grande attore inglese di tutti i tempi, sicuramente il più simpatico e indubbiamente il miglior interprete del commissario Maigret dopo Gino Cervi). Testimone d’accusa è una tragedia (o una commedia?) con una serie di entusiasmanti colpi di scena finali che fanno girare la testa.
I drammi di Christie rientrano nella migliore tradizione del grande teatro inglese (da Shakespeare a Pinter). Testimone d’accusa è un testo talmente ben congegnato che si può leggere e rileggere così come si ascolta e si riascolta una canzone, ed è una rappresentazione di certa angoscia europea novecentesca anni Cinquanta che trova pochi rivali, per tensione di racconto, profondità di psicologia, abilità di intreccio e carica sentimentale.
Il super racconto di Natale
Eppure l’estrema bravura di Christie non era stata mai riconosciuta appieno, c’era sempre qualche distinguo, qualche limitazione, ma anche aperti sbeffeggiamenti (da Raymond Chandler a Edmund Wilson). Ora le cose sono cambiate (ma che fatica!) e il Meridiano arriva come la ciliegina sulla torta. È finalmente giunto il tempo di dare, letterariamente parlando, ad Agatha quello che è di Agatha.
La collana dei Meridiani Mondadori, fondata da Vittorio Sereni nel 1969, voleva (e doveva) essere il pantheon della letteratura mondiale. Non semprissimo le regole d’ingaggio sono state all’altezza (qualche arbitraggio è apparso troppo casalingo). Questo della Christie è una ventata nuova che non si accontenta di certificare il già certificato ma spalanca un portone (da quale magari entreranno maestri letterariamente meticci come John le Carré e Giorgio Scerbanenco).
Fiabe gialle è il super racconto di Natale della nostra editoria. Regalatevelo e regalatelo. Antonio Moresco presentando i titoli da lui selezionati si lancia felicemente in un confronto tra le vite (e opere) parallele di Georges Simenon e Agatha Christie e punta il dito sulla differenza di fondo tra i due scrittori: Simenon coltiva la pietà, la compassione, la Christie la spietatezza, la crudeltà. Agatha crede nell’esistenza del Demonio. La sua personalissima folgorazione sulla via di Damasco (presa contromano) avvenne al cospetto dell’armadietto dei veleni di cui era custode in qualità di infermiera durante la prima guerra mondiale. Un vaso di Pandora che le fece scoprire la contiguità del Male.
Devoti christiani
Non sono stati in tanti a spezzare lance in favore della scrittrice inglese liberi da paraocchi accademici e fisime intellettualistiche. Una benemerita nel campo è stata la regina Elisabetta che nel 1971 la nominò Dama dell’Impero Britannico.
Un altro difensore della religione christiana, valoroso come un crociato, è stato Sidney Lumet. Il regista americano fu particolarmente colpito dal sentimento che ispirava la scrittrice: «Il mondo di Agatha Christie è fondamentalmente nostalgico. Persino i titoli sono nostalgici: L’assassinio di Roger Ackroyd (che nome!), Assassinio sull’Orient Express (che treno!), Assassinio sul Nilo (che fiume!)».
La nostalgia è oggi un sentimento in disgrazia, eppure è stata la chiave di tanti capolavori (Proust, Nabokov, ma l’appello sarebbe lunghissimo). Coerentemente, la nostalgia fu la chiave di regia di Lumet nella sua versione filmica (e che versione!) di Assassinio sull’Orient Express, con Albert Finney, altro eccellente attore inglese (il casting per i film tratti dalla Christie è sempre stato d’altissimo bordo) che ci diede il più bel Poirot mai visto sugli schermi. Non so se Lumet considerasse Agatha (lei ci stupisce!) la cosa più shakespeariana accaduta in Inghilterra dopo Shakespeare (come sommessamente vorrei suggerire), ma forse sì. Nel suo Assassinio sull’Orient Express mise in bocca a Finney/Poirot molte battute shakespeariane. Se non è la prova regina, è certamente un fortissimo indizio.
Una fervente christiana è l’attrice Caterina Murino. La fede di colei che è stata una Bond girl (non sarà un titolo equivalente a quello di Dama dell’Impero, ma fa curriculum alla grande) è antica. Una volta che la intervistai mi raccontò che le sue prime esperienze di lettrice di libri non legati alla scuola furono proprio i gialli della scrittrice. Agatha era nel destino di Caterina: esordì in teatro con Dieci piccoli indiani e anni dopo girò un film, Alibi e sospetti, tratto da Poirot e la salma.
All’epoca del nostro incontro (2008) il film non era ancora uscito e la Murino me lo spiegò così: «Casa chiusa. Invito a cena. Uno degli ospiti morirà. Il protagonista ha invitato sua moglie, la sua amante in carica e la sua amante di dieci anni fa (che sono io)». Mi sembrò una delle implacabili formule con cui Vladimir Propp, supremo studioso delle fiabe, riassumeva i racconti di magia. E, in effetti, i romanzi della Christie sono fiabe gialle, come dice il titolo dato al suo Meridiano, fiabe smagate.
Un importante devoto christiano è stato Giorgio Manganelli, intellettuale sofisticato e giocoliere della scrittura, che considerava i gialli di Poirot & Co. tragedie discendenti direttamente da Eschilo e faceva notare il loro rispetto della classica unità di spazio, luogo e azione. Eppure (è un mio vecchio sospetto) non si tratta soltanto di tragedia, il giallo inglese (il giallo alla Agatha Christie) è anche la commedia all’italiana degli inglesi. Nel senso che è il loro genere letterario nazionale, quello che rispecchia i vizi di un popolo, ne illustra le caratteristiche più profonde ma anche più superficiali. Una frase della Christie dice: «In Inghilterra il caffè ha sempre il gusto di un esperimento chimico». Una battuta che avrebbero potuto scrivere tranquillamente Age & Scarpelli, i maestri della commedia all’italiana.
Potrei continuare segnalando tratti proustiani o, se preferite, perechiani in Agatha: «Il passato, i ricordi e le realtà stanno alla base della nostra vita attuale e ci vengono improvvisamente restituiti alla memoria da un odore, dalla forma di una collina, da una vecchia canzone... da qualche inezia che, d’un tratto, ci fa dire “mi ricordo” con uno strano e inspiegabile senso di piacere». E addirittura wittgensteiniani (o forse anti-wittgensteiniani): «La parola è un’invenzione dell’uomo che serve a impedirgli di pensare». Ma mi fermo qui dicendo che Agatha Christie è stata la regina Elisabetta dei romanzi.
Manganelli e Bernhard
Una volta evocato, come il genio della lampada di Aladino, Manganelli bisogna lasciarlo sfogare. La sua scrittura è uno spettacolo d’arte varia. Meriterebbe un Meridiano pure lui. Nell’attesa, Sellerio opportunamente pubblica Il vescovo e il ciarlatano (sottotitolo: Inconscio e letteratura: l’incontro con Ernst Bernhard), la raccolta di scritti (interviste, saggi, articoli) che raccontano il rapporto dello scrittore con Bernhard, leggendario personaggio che fu il suo psicoanalista (quello dei pazienti di Bernhard è un parterre de rois che comprende, tra gli altri, Federico Fellini, Natalia Ginzburg, Adriano Olivetti, Amelia Rosselli).
Freud sarebbe saltato dal divano a sentire cosa era capace di combinare Bernhard. Andava oltre ogni regola nella relazione con il paziente. Racconta Manganelli: «Ad un certo momento della mia analisi ero talmente senza soldi che me li prestò lui». Lo scrittore gli fu sempre grato, oltre che per il prestito, perché gli cambiò la mappa della sua vita e del mondo ridisegnandogliela in una geografia non tolemaica. Bernhard, scrive Manganelli, «operava nel lago del cuore», sostituiva «sistematicamente la fede con la superstizione». Gli insegnò che il sogno è «il fratello psicologico che ci accompagna costantemente e che sa raccontarci una quantità di cose in una lingua che noi abbiamo disatteso totalmente».
Da puro genio della lampada, Manganelli arriva a scrivere un galateo dei sogni: «Da qualche tempo a questa parte, diciamo, ormai, tre generazioni, i sogni hanno riacquistato una dignità ed una importanza sociale che da gran tempo avevano perduto; ed anzi nemmeno più se ne parlava, come non si discorre di duroni, catarri, foruncoli e pruriti inguinali; a ben vedere, qualche sogno mendico e irritabile sopravviveva e qualche racconto – se ne ricorda uno, specialmente impegnativo, in Guerra e pace, ce ne sono in Pinocchio, in qualche storia di spettri; ma se una volta, per sognare, occorreva essere o creature da fiaba o da orrore, o principe del sangue ferito in battaglia, oggi questo vezzo del segnare l’hanno tutti, da cascherini a ministri.
Taluni affermano, io stesso li ho uditi, di non sognare mai mai, affatto; di attraversare notti buie e tranquille, pacifici tunnel nei quali non si dànno né fosforescenze né rumori. Se costoro non mentono, non dimenticano, o non disprezzano i loro sogni, li riconosco come i veri snob, i bizzarri e bizzosi controcorrente, quelli che una volta si dicevano, in modo affettuosamente plebeo, gli “originali”. E certo, se qualcuno avesse animo ed ingegno a tenere i sogni fuori di casa, acquisterebbe una distinzione, un distacco, una superiorità che nessun titolo nobiliare, nessuna Rolls-Royce, nessuna pantera domestica potrebbe conferirgli».
Ma, continua Manganelli, negli ultimi tempi i sogni, una volta ambasciatori, inviati (agenti segreti, delatori forse?) di un universo sacro e misterioso, sono stati secolarizzati dal consumismo. Sono entrati nella vita quotidiana. La gente sogna, come va al cinema, beve bevande gassate, mangia golosi gelati.
Come un personaggio di Vargas Llosa
Manganelli mi ha sempre ricordato il personaggio di Pedro Camacho nella Zia Julia e lo scribacchino (Einaudi) di Mario Vargas Llosa, e non solo perché è autore di un libro perfettamente alla Camacho come Centuria, Adelphi, (leggetelo presto se non lo avete ancora fatto). Camacho è un esorbitante autore di radiodrammi (radionovelas boliviane, precisamente) di enorme successo popolare a cui un giorno succede, così come al Fracchia di Fantozzi capitava gli si intrecciassero «i diti» della mano, che gli si intrecciano le storie. Pedro diventa così il disperato inquilino di una Torre di Babele narrativa.
Credo che qualcosa del genere sia capitata anche a Manganelli. La sua opera omnia somiglia a un dizionario impazzito, un grandioso vocabolario pieno di lemmi straordinari. Ecco, per fare un esempio, la sua definizione di camera d’albergo: «Luogo inospite, distratto ed ostile è la camera di un albergo in un luogo che non ci appartiene; il letto non è complice del nostro corpo, nulla in quel luogo mi parla, mi conosce, mi frequenta. La mattina mi sveglierò insolitamente presto, farò di furia la valigia e fuggirò, non senza un tremito d’ira».
Manganelli è stato lo scrittore italiano più estroso. Era estroso perfino l’indirizzo di casa sua a Roma: via Chinotto numero 8, interno 8.
Il mio Dickens personale
Nel sancta sactorum dei miei scrittori un posto di assoluto rilievo spetta ad Anthony Trollope, il mio Dickens personale. Sellerio, il suo editore italiano, pubblica I figli del duca, finale di stagione del Ciclo di Palliser o Ciclo Politico. Il romanzo comincia così, luttuosamente: «Nessuno, probabilmente, si sentì mai più solo del nostro vecchio amico, il Duca di Omnium, quando morì la duchessa. Non era più Primo Ministro da appena due anni al tempo del triste evento».
Leggere Trollope è come ritrovarsi vecchi amici (in questo caso, appunto, il duca, al secolo Plantagenet Palliser, e la duchessa, al secolo la biondissima Lady Glencora, già protagonisti di intricate e appassionanti vicende). Trollope è una miniera d’oro narrativa, da leggere assolutamente. Ma ora lasciate che faccia le mie condoglianze al Duca di Omnium, un uomo che sapeva amare, in questo difficile momento per la morte della sua adorata Glencora: «Se fosse crollato il cielo per mescolarsi alla terra, se la popolazione di Londra si fosse sollevata per ribellarsi mossa da idee francesi di uguaglianza, se la Regina avesse ostinatamente rifiutato di seguire i consigli costituzionali dei Ministri… l’assoluta prostrazione del marito orbato non avrebbe potuto essere più completa. Non si trattava solo di avere il cuore a pezzi, ma anche di non sapere come affrontare il mondo».
Per antica convenzione teatrale il grande attore, il capocomico, era l’ultimo a entrare in scena. E, infatti, ora entra in scena Mario Vargas Llosa, l’ultimo grande scrittore, l’unico autore contemporaneo che, come il Principe di Salina, potrebbe dire di sé stesso: «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni». Il suo nuovo romanzo si intitola Le dedico il mio silenzio, Einaudi, e racconta l’avvincente avventura di Toño Azpilcueta, patriotticamente e fanaticamente appassionato di musica criolla, che insegue un miraggio. A 88 anni Varguitas ha scritto l’ennesimo bellissimo romanzo. Una storia commovente che è un invito a ballare con lui al ritmo di un valsecito o di una marinera. Accettatelo il suo invito e danzerete con l’impeccabile, malinconico, affascinante, ultimo Gattopardo. Perdutamente come Claudia Cardinale con Burt Lancaster.
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