Sono lontani gli anni del boom di Masterchef: oggi le iscrizioni sono in calo e sul settore pesano ancora le conseguenze della pandemia. Come può quindi l’alberghiero diventare contemporaneo? Più rapporti con il mondo del lavoro, più attenzione alla sostenibilità e più apertura a culture gastronomiche internazionali
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Lavorare quando gli altri si divertono. Una frase che è un po’ il mantra di chi è nel campo dell’accoglienza e che sembra aver allonta
nato sempre più gli studenti dagli Istituti Alberghieri, i vecchi Ipssar, oggi chiamati Istituti professionali per i servizi di enogastronomia e ospitalità alberghiera. La quota degli iscritti rimane bassa nel quadro generale – a sua volta in sofferenza - degli istituti professionali.Secondo i dati diffusi nel febbraio scorso dal Ministero dell’Istruzione e del merito si è passati da un 4 per cento nell’anno scolastico 2023-2024 al 4,2 per cento nel successivo (con la Campania in testa che segna un 6,26 per cento). Poca cosa rispetto al successo dei licei e degli istituti tecnici che continuano a richiamare più studenti.
Sono lontani i tempi della prima edizione di Masterchef, la nota trasmissione tv dedicata all’alta cucina, il cui successo fece fare un boom di iscritti alle scuole alberghiere tra il 2013 e il 2015. L’immagine dei cuochi e della ristorazione che veniva veicolata attraverso il talent show, però, era un po’ diversa dalla realtà.
Dagli oltre 60mila studenti di un decennio fa si è passati a poco più di un terzo. Alla disillusione vanno aggiunte altre criticità, come spiega Leonardo Romanelli che nella doppia veste di giornalista e insegnante di enogastronomia-settore cucina presso l’Istituto di istruzione superiore Chino Chini di Borgo san Lorenzo a Firenze, sa cosa succede nella aule, ma anche nelle cucine e nelle sale dei ristoranti: «Archiviato il mito dello chef che raggiunge facilmente successo e retribuzioni generose – spiega Romanelli – la realtà è che, dopo il Covid-19, molti addetti di sala hanno preferito andare a fare i corrieri e quello di cucina hanno scelto i supermercati. Se le paghe non sono migliori, si ha almeno più tempo libero».
La grande scuola italiana dell’accoglienza
L’arte dell’accoglienza parla italiano da molti decenni, sin da quando, con lo sviluppo del turismo di massa, il paese è diventato una delle mete turistiche più ambite al mondo. Gli anni Sessanta sono quelli del riconoscimento ufficiale di questi istituti da parte del governo italiano, ma i primi avevano visto la luce già alla fine del XIX e l’inizio del XX secolo, quando il turismo iniziava a espandersi grazie all’industrializzazione, ai progressi nei trasporti e alla crescita della borghesia, che cominciava a viaggiare per svago.
L’Italia ha ancora un bisogno enorme di personale qualificato, ma a essere cambiata pare sia la predisposizione dei più giovani verso questi mestieri.
Questo almeno è quanto sostiene Silvio Pannace, vicepresidente di Amira, Associazione maîtres italiani ristoranti ed alberghi, tra le più longeve esistenti, che ha stretto diversi protocolli d’intesa con il Mim per mettere a disposizione delle scuole le competenze degli associati: «Quando andiamo nelle aule – racconta Pannace – non nascondiamo il fatto che si tratta spesso di lavori massacranti, ma si ha la possibilità di girare il mondo e di conoscere le lingue, tant’è che una volta l’alberghiero era considerato la scuola dei vagabondi! Oggi i programmi scolastici sono molto più ricchi di teoria e la pratica viene, a mio avviso, un po’ penalizzata.
Durante una lezione ho visto un professore che spiegava come sfilettare un pesce con una slide». L’alberghiero prevede tre indirizzi, Enogastronomia, Servizi di sala e di vendita e Accoglienza turistica. Il percorso ha una durata quinquennale impostato sulla formula 3+2 e tutti gli orientamenti hanno in comune le cosiddette “materie tradizionali”.
Più difficile invece dare un’unica entità ai programmi specifici, perché, di fatto, questa non esiste. Il ministero detta le linee guida, ma sta poi all’istituto con il corpo docenti definire le peculiarità dell’offerta formativa. Nascono così scuole di gran lunga – è il caso di dirlo – più appetibili.
Il caso del Vespucci
L’Ipseoa Vespucci è lo storico alberghiero della città di Milano nato nel 1962. Di storie di grandi chef, di maître leggendari e anche di imprenditori della ristorazione di successo ce ne sono così tante che il preside Luigi Costanzo sta pensando a un libro che le raccolga tutte. Mille alunni divisi in cinquanta classi: il calo c’è ma non è drammatico.
Ci sono laboratori nuovi, sia di sala che di cucina, forni all’avanguardia che le cucine di chef stellati si sognano, un dimostrativo di pasticceria che farebbe invidia al più bravo dei pastry chef e, soprattutto, nel 2026 verrà conclusa la nuova sede unica – al momento c’è una principale e un distaccamento – grazie ai fondi del Pnrr per un valore di nove milioni di euro: «Problemi finanziari non ne abbiamo – racconta il preside – contiamo su un corpo docente stabile e di grande esperienza. Certo, tra qualche tempo, si porrà la questione del ricambio. Intanto però posso dirle che, grazie anche al contributo familiare delle famiglie, al Vespucci si fa la spesa tutte le settimane acquistando in quantità e qualità».
Se una nota stonata c’è, il dirigente scolastico la individua nell’intermediazione scuola-lavoro: «Succede sempre più spesso – continua Costanzo – che durante i tirocini curriculari gli studenti si accorgano dell’impegno importante che questi lavori richiedono. Quindi negli ultimi anni del percorso finiscono per decidere di proseguire gli studi scegliendo l’università. Altra cosa invece sono i percorsi di Istruzione e formazione professionale – le Fp – che noi abbiamo e non tutti gli istituti hanno, che offrono una qualifica triennale.
Qui i ragazzi arrivano già con la consapevolezza di dover e voler lavorare». Il preside dell’istituto milanese non pensa vi sia, tra i suoi studenti, una paura dell’impegno, piuttosto preferisce parlare di consapevolezza, un cambio di passo sul tempo da dedicare a sé e al lavoro: «Serve un’attenzione alle nuove generazioni, sensibilizzarle già dal quarto-quinto anno di scuola verso il mercato del lavoro. Quindi, quali sono le paghe, dove si può arrivare, com’è il mestiere, quali sono gli orari. Attività di orientamento in uscita che, a mio avviso, andrebbero fatte più che dai miei docenti – che comunque le fanno – dalle imprese di ristorazione, dagli alberghi, dai bar di alto livello, dalle pasticcerie».
Chef mentore e divisa
Il pensiero del preside Costanzo ha preso forma in un altro luogo non lontano da Milano, a Cornaredo per l’esattezza, dove l’alberghiero Olmo è conosciuto come “l’istituto di Davide Oldani”, lo chef due stelle Michelin – più stella green – del ristorante D’O. L’idea è stata del dirigente scolastico Luca Azzolini, preside dell’Istituto statale di istruzione secondaria Paolo Frisi di Milano, di cui l’Olmo è un distaccamento. Nel 2017 Oldani dà l’assetto formativo al nuovo alberghiero, puntando tutto su stagionalità e territorialità: «Innanzitutto non bisogna chiamarla scuola di periferia – sottolinea Oldani – ma di campagna.
Se vuoi fare questo mestiere, quello del cuoco, stare fuori dalla città può aiutarti perché sei più vicino ai prodotti e hai meno distrazioni. Nel programma ho inserito le giornate con i grandi chef che non arrivano in aula però a preparare dei piatti, bensì a raccontare il mestiere, dicendo la verità, cose belle e cose brutte. Lavoriamo molto sulla motivazione, ma al contempo è importante far capire ai miei colleghi che urge una regolamentazione degli orari di lavoro perché bisogna offrire a questi ragazzi la migliore prospettiva di futuro possibile».
Nel programma didattico firmato Oldani si dà prima spazio ai prodotti e poi alle ricette, si lavora il più possibile con il fresco e con ingredienti di qualità e gli studenti devono indossare la divisa: «È il modo – sostiene lo chef – per creare familiarità con la disciplina che nel nostro mestiere è importante». L’Olmo ha inoltre anche un ristorante didattico, aperto il giovedì a pranzo al pubblico e sta puntando alla costruzione di un secondo comprensorio didattico dedicato agli studi agrari. I soldi ci sono, come ribadisce il preside Azzolini, è che spesso non si sa come spenderli: «Il Pnrr ci offre diverse possibilità, io, ad esempio, vorrei utilizzarli per portare a scuola il mondo del lavoro, ma non è facile convincere i professionisti del settore a venire in una scuola di periferia. Ecco perché penso che Oldani sia una mosca bianca».
Le idee dei più giovani
C’è invece chi, come l’Ipsseoa Aurelio Saffi di Firenze, i professionisti dell’hôtellerie e dell’accoglienza li ha messi dentro a una stanza tutto il giorno con gli studenti per lavorare a diversi workshop. Il progetto si chiama “R-Innoviamo l’Ospitalità” ed è al suo secondo anno come spiega la preside Francesca Lascialfari: «L’idea è quella di far incontrare gli hotel manager di strutture fiorentine di altissimo livello, come il Four season, Marriott e Savoy, con gli studenti del quarto e quinto anno. Si lavora in gruppo su determinati temi e si presenta poi uno speech in italiano e inglese.
La squadra vincitrice ha diritto a un contratto extra curriculare. Partecipano anche scuole del resto d’Italia perché l’obiettivo è ripensare l’ospitalità partendo dalle idee dei più giovani». La preside difende a spada tratta le scuole alberghiere, a suo avviso, luoghi dinamici e in contatto diretto con i territori: «Semmai il problema – aggiunge – è la percezione che si ha all’esterno di questi istituti, ancora ritenuti dei “parcheggi” per chi ha poca voglia di studiare. Di attività se ne fanno tantissime. Pensi che noi come Saffi facciamo il doppio delle ore previste dal sistema di alternanza scuola-lavoro perché in un posto come la Toscana il contributo dei nostri studenti è importante». Fin qui gli adulti, ma anche chi siede tra i banchi l’orgoglio “del fare l’alberghiero” c’è eccome. È il caso di J.B, 17 anni, nato a Kinshasa, nella Repubblica democratica del Congo, ma cittadino italiano.
Studente modello del Vespucci, appassionato di cucina e con l’obiettivo di diventare uno chef. Rappresentante di istituto, da un anno è entrato nella Consulta provinciale degli studenti che, per la prima volta, accoglie un rappresentante delle scuole alberghiere. La sua idea è quella di proseguire con gli studi universitari e alcuni stage gli hanno fatto capire che il lavoro che lo aspetta non fa sconti: «Devi imparare ad autogestirti perché si è lontani da casa, si è sotto pressione per il servizio, gli orari sono lunghi e le paghe non eccellenti, però se vai in strutture importanti puoi far tuoi tanti segreti del mestiere».
Anche sul fronte dell’impegno “politico” lo studente ha le idee chiare: «Se devo pensare all’alberghiero del domani punterei più sul tema della sostenibilità legato all’ospitalità e alla cucina. C’è da rivedere il carico di lavoro di verifiche e interrogazioni quando si è in fase di stage. E poi sarebbe bello riformulare i programmi di cucina, aprendoli di più ad altre culture gastronomiche, per una visione internazionale. Come Vespucci abbiamo corsi anche per gli esterni e questo crea un senso di comunità intorno alla scuola. Anche mia madre ha frequentato un corso di pasticceria».
Della riforma scolastica del “4+2” voluta dal ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara – e che riguarda gli istituti tecnici e professionali, anche se in chiave sperimentale – J.B non ha una buona opinione. Teme un’eccessiva ingerenza da parte delle aziende che potrebbero imporre i loro programmi: «La scuola deve rimanere il principale veicolo degli strumenti più idonei alla nostra crescita professionale. Il futuro deve prendere forma tra le nostre mani, non siamo macchine aziendali».
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