- Nel mondo intellettuale (e forse solo lì) si discute molto dello schwa, una proposta per importare il neutro nella lingua italiana.
- Usando lo schwa, ci rendiamo riconoscibili come membri della comunità di coloro che usano lo schwa. Il rischio è che la sua diffusione contribuisca a segmentare il corpo sociale: da una parte la lingua scritta dei mandarini e dall'altra quella vivente delle minoranze.
- La scrittura inclusiva esclude principalmente chi, per ragioni di classe, è lontano dai centri di elaborazione delle nuove convenzioni culturali, chi faticosamente sta imparando l’italiano e scoprirà che al suo italiano manca l’ultima update di sistema.
Sospetto che la maggioranza degli italiani non abbia mai sentito parlare dello schwa, la proposta della linguista Vera Gheno per importare il genere neutro nella lingua italiana: per capirci, se avessi voluto usarlo in questa frase avrei dovuto scrivere “lə maggioranza dellə italianə” (ho un dubbio su dellə). Eppure pare che nel ristretto mondo di chi scrive per professione non si parli di altro. Degli editori lo hanno già impiegato nei loro libri e alcune persone vi ricorrono nelle intestazioni delle mail di gruppo. Sebbene si tratti di un fonema, che suona a metà tra la “a” e la “e” – un po’ come il corsivo parlato di TikTok – ad oggi pochissimi lo usano anche nella lingua orale. Eppure sullo schwa bisogna prendere posizione, anzi la si prende per forza dal momento che si inizia a scrivere. Un altro linguista, Andrea De Benedetti, ha recentemente pubblicato per Einaudi un libro piuttosto critico intitolato Così non schwa, del cui contenuto avevo avuto occasione di discutere con l’autore mentre lo stava scrivendo. Il sottotitolo annuncia il tono: “Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo”.
Il linguaggio inclusivo
Con linguaggio inclusivo s’intende un linguaggio ripulito da espressioni, parole o forme grammaticali che potrebbero discriminare e far sentire escluse alcune categorie di persone: a un livello superficiale, appare chiaramente più inclusivo parlare senza usare epiteti razzisti, sessisti o abilisti. Possibile che un simile programma abbia dei limiti e persino degli eccessi?
Il principio del linguaggio inclusivo è quello per cui il modo in cui nominiamo le cose ha un’influenza sul modo in cui ci comportiamo: la riforma della società si realizza intervenendo sul linguaggio. Il dibattito nasce innanzitutto dal problema di stabilire esattamente in che direzione operi l’influenza – dal linguaggio alla società o dalla società al linguaggio? – e secondariamente dalla difficoltà di quantificare questa eventuale influenza. Perché soltanto risolvendo questi due enigmi si potranno stabilire i costi e i benefici, come scrive De Benedetti, di ogni intervento normativo sul linguaggio.
Inoltre se in molti casi è facile capire che cosa ha l’effetto di includere o escludere, talvolta è più soggettivo, dal momento che nella lingua che parliamo sono stratificati secoli di storia: ad esempio, per vicissitudini che rimandano ai tempi dell’Impero romano, in varie lingue si usa il termine “schiavi” (in inglese slaves, in francese esclaves) la cui etimologia rimanda al popolo slavo. L’inclusività non può essere applicata meccanicamente a partire da una regola generale: inevitabilmente dipende da decisioni politiche soggettive.
La questione del genere
Ultimamente il dibattito sul linguaggio inclusivo si è spostato sulla questione del genere. Come evitare di escludere le donne – o chi rivendica di non appartenere a nessun genere – quando usiamo il maschile sovraesteso? Un dibattito simile a quello sullo schwa si è avuto in Francia, dove si preferisce ricorrere alla punteggiatura: noi diremmo “unə gattə”, loro “un.e chat.te”.
L’impiego dello schwa – ad esempio nella forma scritta “carə tuttə” all’inizio di una mail – risponde a due scopi primari: il primo è di evitare l’impiego del maschile sovraesteso che potrebbe far sentire escluse le donne; il secondo è di includere anche le persone che si identificano come non binarie, e si sentirebbero escluse dalla forma “tutti e tutte”.
In questo modo, chi comunica non intende semplicemente salutare i propri interlocutori – e interlocutrici, eccetera – ma anche segnalare la propria sensibilità riguardo alle questioni di genere: parità uomo-donna e/o rifiuto del binarismo.
In realtà la quantità di cose che comunichiamo, volontariamente o involontariamente, ricorrendo a questa soluzione è molto più ampia. Poiché la diffusione dello schwa è una moda recente, impiegandolo mostriamo innanzitutto di essere aggiornati sui dibattiti interni al mondo culturale italiano. Ma poiché lo schwa è soltanto una delle possibili soluzioni proposte per affrontare il medesimo problema – in lizza contro tuttə continua a prevalere il classico tutt* oltre che i meno diffusi tuttx, tuttu, tutt’ – chi lo usa segnala la sua appartenenza a una specifica rete di parlanti. Millennial, livello di studi elevato.
Un interprete poco caritatevole potrebbe vedere nello schwa un modo di distinguersi, un’esibizione di superiorità morale o persino un tentativo di imporre agli altri i propri usi linguistici. In effetti lo schwa resta ad oggi appannaggio di una piccola nicchia e appare irrimediabilmente politicizzato.
Dobbiamo usare lo schwa?
Inutile girarci intorno: ad avercelo sulla tastiera dello smartphone, lo schwa è comodo. Devi scrivere a un gruppo di persone dei due generi? Permette di risparmiarsi la fatica di scriverli uno per uno, tutte e tutti. Basta un tap ed ecco tuttə.
Io preferisco non usarlo: semmai uso l’asterisco o il femminile sovraesteso. Perché vedo l’effetto che sortisce l’impiego nella comunicazione di un carattere o di un termine irrituale per la grandissima maggioranza di persone, che non lo conoscono o addirittura lo percepiscono come un colpo di mano normativo, da parte di un segmento della classe intellettuale, su quel bene comune che è la lingua. Facendo la tara, il calcolo costi-benefici direbbe De Benedetti, ad oggi lo schwa appare anche a me più esclusivo che inclusivo.
In effetti il linguaggio non si limita a descrivere il mondo ma descrive anche chi lo parla. Parlando una certa lingua, un certo dialetto, un certo idioletto, ci rendiamo riconoscibili come membri di una comunità: e usando lo schwa ci si rende riconoscibili come membri della comunità di coloro che usano lo schwa.
La capacità culturale di maneggiare questo segno linguistico – o anche solo di sopportarlo senza mostrare sorpresa o fastidio – rischia di diventare l’ennesima competenza tecnica richiesta, in una lista sempre più lunga, per essere presentabili in certi contesti sociali e professionali.
Sarebbe scorretto ribattere che lo schwa esclude soltanto chi merita di essere escluso, ovvero chi esclude gli altri: di fatto esclude principalmente chi, per ragioni di classe, è lontano dai centri di elaborazione delle nuove convenzioni culturali, chi faticosamente sta imparando l’italiano e scoprirà che al suo italiano manca l’ultima update di sistema.
Questo, va detto, è il paradosso ricorrente dei processi di modernizzazione. È innegabile che le trasformazioni sociali debbano pur cominciare da qualche parte, da un’avanguardia consapevole (nel caso delle riforme dall’alto) o inconsapevole (nel caso delle rivoluzioni dal basso).
Ed è inevitabile che vi siano frizioni e resistenze, legate ad abitudini consolidate. Insomma per far avanzare le cose talvolta bisogna prendere il rischio di essere antipatici. Ma la rivoluzione non si fa senza condizioni rivoluzionarie, né senza mezzi, e allora la domanda da porsi è se oggi vi siano i mezzi e le condizioni perché lo schwa s’imponga trasversalmente.
Una battaglia persa
Su questo c’è qualche ragione di essere pessimisti: se l’attenuazione delle differenze di genere procede spedita presso le popolazioni urbane istruite, nella classe intellettuale e manageriale, queste differenze sembrano invece accentuarsi ai margini della società, dove assistiamo a processi di de-assimilazione e una resistenza attiva ai processi di modernizzazione (populismo, comunitarismo, ripiego identitario, religione). Se questa polarizzazione non viene frenata, la più magnifica delle riforme linguistiche non farà altro che segmentare ancora di più il corpo sociale: da una parte la lingua scritta dei mandarini e dall'altra quella vivente delle minoranze.
Cambierà col tempo? Non è detto. Per quanto ingegnoso, secondo De Benedetti lo schwa non costituisce una soluzione funzionante ai problemi morfologici che solleva. La stessa Vera Gheno ne ha spesso parlato come di una provocazione utile per sollevare un dibattito sul rapporto tra lingua e società.
Che un simile dibattito sia sorto è sicuramente un segno della vivacità della lingua. Ripensandoci tra qualche anno forse ci verrà da sorridere, semmai ne avremo ancora l’umore.
© Riproduzione riservata