Duecentocinquanta anni fa, il 21 luglio 1773, papa Clemente XIV firmava il documento Dominus ac redemptor che decretava lo scioglimento dei gesuiti. La decisione, pur preceduta dalle loro espulsioni dai domini portoghesi e spagnoli, era comunque inaudita. Da oltre due secoli, infatti, nonostante difficoltà e contrasti, la Compagnia di Gesù fondata da Ignazio di Loyola era divenuta in tutto il mondo – dai paesi europei, anche protestanti, fino alle missioni nei diversi continenti – la punta di lancia della chiesa cattolica.

Nel lungo testo papale si richiamavano le precedenti soppressioni di ordini religiosi, quindi si passavano in rassegna i rapporti dei gesuiti con la sede romana e i problemi insorti con i sovrani cattolici. Incidenti di tale portata da essere «ormai divenuto impossibile che la Chiesa abbia pace vera e durevole finché quest’Ordine esiste» sottolineava il pontefice. Per questo – affermava Clemente XIV – «estinguiamo e sopprimiamo la più volte citata Società».

Case, scuole, collegi e ogni istituzione dovevano essere chiusi, ogni gerarchia interna all’ordine era annullata e i religiosi venivano sottomessi ai vescovi diocesani. Le conseguenze del provvedimento di papa Ganganelli furono devastanti per l’ordine concepito da sant’Ignazio, che era stato canonizzato già nel 1622. Il «breve» – questo il nome tecnico del documento – legittimò infatti «un’orgia di sistematici saccheggi, condotti con il consenso ufficiale» scrive lo storico gesuita John O’Malley in un profilo breve e intelligente del suo ordine (Gesuiti, Vita e Pensiero).

Una ferita profonda

Successe di tutto: opere d’arte confiscate, biblioteche preziose disperse, mentre il generale dei gesuiti, il mite e debole Lorenzo Ricci, fu imprigionato a Castel Sant’Angelo, dove morì due anni dopo. La ferita fu profonda e ha lasciato tracce durature.

Al punto da suscitare una sorprendente uscita di Francesco, l’unico papa gesuita, già tre giorni dopo l’elezione, prendendo spunto dall’inusuale nome che aveva scelto e che – asserì il pontefice – era stato commentato da alcuni cardinali. «Un altro mi ha detto: “No, no, il tuo nome dovrebbe essere Clemente”. “Ma perché?”. “Clemente XV: così ti vendichi di Clemente XIV che ha soppresso la Compagnia di Gesù!”. Sono battute…» concludeva il papa.

Anche in Bergoglio, dunque, resta la memoria del trauma della soppressione, che ha segnato uno spartiacque nella storia dell’ordine, contribuendo nello stesso tempo ad alimentare il mito dei gesuiti, sia in positivo che in negativo. Mito che ha coinvolto l’immagine di Giovanni Vincenzo Ganganelli, il pontefice francescano demonizzato dai sostenitori della Compagnia ed esaltato invece dagli avversari dei gesuiti.

Eletto nel 1769 dopo un conclave lungo tre mesi e nel quale i contrasti sui gesuiti furono centrali, il conventuale romagnolo dovette affrontare subito il problema. Già le prime misure prese nel 1771 dal papa contro la Compagnia provocarono profezie sulla sua morte. Clemente XIV morì nel 1774, un anno dopo la soppressione. Subito si diffusero dicerie opposte: da una parte la leggenda di un avvelenamento del pontefice, escluso da una relazione dei suoi medici; dall’altra quella del rimorso per aver sciolto l’ordine, che avrebbe tormentato l’agonizzante papa Ganganelli. Fino a una terza diceria, secondo la quale il pontefice avrebbe pubblicato un breve di revoca dello scioglimento.

La leggenda del rimorso arriva a Chateaubriand, che la mette in bocca a Pio VII pentito di aver firmato a Fontainebleau il concordato del 1813 con Napoleone, il quale aveva forzato il papa a questa decisione (poi ritrattata). «Morirò pazzo per questo, come Clemente XIV» avrebbe detto il pontefice prigioniero dell’imperatore.

Le immagini contrapposte di Ganganelli – Voltaire aveva contribuito a creare il mito di un papa amico dell’illuminismo – hanno oltrepassato lo scioglimento della Compagnia, durato oltre quarant’anni, e la sua ricostituzione nel 1814. E hanno oscurato la reale figura del papa, secondo Mario Rosa «non priva di un senso istintivo e, tutto sommato, di una percezione duttile del momento storico in cui si trovò a operare»: la grande crisi dell’Ancien Régime.

L’apogeo

Ma come si era arrivati – due secoli e mezzo fa – alla soppressione, peraltro annunciata, dei gesuiti? L’ordine sembrava nonostante tutte le difficoltà ormai consolidato, dopo aver raggiunto il suo apogeo a metà del secolo precedente. Tutto era iniziato molto prima per iniziativa di un quarantenne, il nobile basco Íñigo (poi Ignacio) de Loyola, nell’ambiente universitario parigino.

Uomo d’armi rimasto gravemente ferito nel 1521 a Pamplona combattendo contro i francesi, Ignazio si converte dopo esperienze mistiche che saranno poi alla base dei celeberrimi Esercizi spirituali. Anni più tardi, completata la sua formazione alla Sorbona, Ignazio e sei altri studenti – tra cui Pierre Favre, Francesco Saverio e Diego Laínez, figure poi fondamentali nella storia dei gesuiti – s’impegnano nel 1534 a operare per «il bene delle anime».

Impossibilitata a recarsi in Terrasanta, la piccola «compagnia di Gesù» (la societas Iesu poi resa celebre dalla sigla S.I.) si riunisce a Roma mettendosi a disposizione del papa. E questi – Paolo III, con la bolla Regimini militantis ecclesiae – nel 1540 l’approva formalmente. Lo sviluppo, riassunto da Peter Hartmann (I gesuiti, Carocci), è davvero sbalorditivo: già mille nel 1556, i religiosi balzano a più di 8500 alla fine del secolo; addirittura oltre 15mila nel 1627, arrivano a quasi 20mila nel 1710 e circa 23mila sono nel 1773, l’anno della soppressione.

Questo successo si spiega con la rigorosa formazione dei religiosi, sul piano culturale e spirituale, e con le considerevoli realizzazioni sui due fronti principali su cui si muove la Compagnia di Gesù, molto studiata di recente anche da storici laici. I gesuiti s’impegnano infatti, da una parte, nello studio personale (dei classici profani, delle scienze e della teologia), nell’educazione dei giovani – aprendo scuole e collegi, presto all’avanguardia in tutta Europa – e nella formazione delle coscienze come confessori e direttori spirituali; dall’altra, moltiplicando audaci e innovative missioni, in Asia, in America e nell’Europa ormai lacerata dallo scisma protestante.

L’impostazione larga e tollerante dei loro studi umanistici e teologici caratterizza le novità nelle scuole e nelle missioni. Insieme agli Esercizi spirituali, fondamentale è l’equilibrata Ratio studiorum, l’ordinamento degli studi pubblicato nel 1599 dopo una lunghissima consultazione tra gli stessi gesuiti.

Celeberrima è poi l’apertura alle culture di civiltà millenarie nelle missioni in Giappone, in Cina e in India grazie a uomini di genio come Alessandro Valignano, Matteo Ricci e Roberto De Nobili, fino all’esperimento straordinario delle «riduzioni» guaraní nell’America meridionale, che già nel 1743 viene celebrato da Muratori.

La caduta

Diversi sono i motivi che spiegano tra il 1757 e il 1767 le espulsioni dai domini portoghesi e spagnoli, i divieti in Francia e la soppressione del 1773. Oltre crisi interne all’ordine, i metodi missionari adottati dai gesuiti sono considerati troppo tolleranti nei confronti delle tradizioni religiose delle antichissime civiltà asiatiche.

Il motivo scatenante è il successo delle missioni tra i guaraní, assicurato dal modello di organizzazione sociale ed economica egualitaria delle «riduzioni» e che ostacola lo sfruttamento degli indigeni da parte di portoghesi e spagnoli. Questi muovono una vera e propria guerra che porta alla fine delle missioni, raccontata da Roland Joffé in Mission. Ma già nella Via lattea di Buñuel un episodio sceneggiava lo scontro teologico e politico –molto aspro in Francia, dove Le provinciali di Pascal assestano un duro colpo alla Compagnia – che i gesuiti sostengono con il rigorismo dei giansenisti.

Nei paesi non cattolici il provvedimento papale non viene applicato. Così, nella Prussia di Federico il Grande e nella Russia di Caterina la Compagnia di Gesù sopravvive fino al ristabilimento nel 1814. La ripartenza è quasi da zero – i gesuiti sono 600 – ma lo sviluppo è di nuovo rapido: alla fine del secolo sono oltre 15mila e addirittura 36mila nel 1965, quando si conclude il Vaticano II. Poi il crollo, che in mezzo secolo li ha ridotti ai circa 14mila attuali. Ma la storia dopo la ricostituzione della Compagnia è del tutto diversa. Poi, l’elezione di Bergoglio ha sorpreso anche, «e forse di più», i gesuiti, scrive O’Malley. Con effetti imprevedibili sul futuro dell’ordine.

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