Nell’opera Massa e Potere, Elias Canetti descrive l’esercizio del potere come una manifestazione della paranoia: l’avidità di potere è il nucleo di tutto. La paranoia è, nel significato letterale della parola, una malattia di potere. Un esame di tale malattia in tutte le varie direzioni permette di formulare conclusioni sulla natura del potere che in nessun altro modo si potrebbero ottenere con pari completezza e chiarezza.

Nella saga di Harry Potter risulta evidente il legame tra il Tom Riddle bambino e adolescente, orfano e rifiutato, trattato come spazzatura, e il Lord Voldemort adulto, desideroso di dominare tutto e tutti, di schiacciare tanto i nemici quanto gli alleati, di usare la magia come sublimazione di quell’adolescenza dolorosa e sofferta.

Il tratto narcisista e manipolatorio che lo studente Tom Riddle mostra nella sua esperienza a Hogwarts si traduce inevitabilmente nella necessità di dominio e nella cultura del sospetto che pervade ogni suo gesto quando diventa Colui-che-non-deve-essere-nominato.

Senza cadere nella psicologia spicciola, l’opera di Canetti dimostra in modo evidente il legame tra volontà di dominio e solitudine, laddove il potere non può sopportare la vicinanza, l’amicizia e la confidenza. Il potente non può permettersi di avere un vero amico, poiché l’amicizia presuppone spoliazione e nudità: il vero amico è colui che, conoscendo a fondo la mia natura, riesce a guardare oltre le proiezioni e le rappresentazioni che innalzo nei confronti degli sconosciuti e della società e, vedendomi per quello che sono, riconosce la mia fragilità e insicurezza.

Solitudine

Come apparirà ovvio, fragilità e insicurezza sono proprio quello che il potere non può sopportare, dal momento che il dominio non può che mostrarsi granitico, imbattibile e inscalfibile. Il potente non si circonda di amici, ma di cortigiani o, al massimo, di consiglieri.

Voldemort si circonda di adepti, personaggi le cui insicurezze e fragilità impongono di legarsi a un potere, ma al tempo stesso impossibilitati a esercitare loro stessi quel potere. I Mangiamorte non sono amici, tantomeno alleati di Voldemort: sono suoi sudditi, i quali devono obbedienza incondizionata e una grande e artificiosa distanza rispetto al loro idolo.

Per tutti questi motivi, Lord Voldemort è perseguitato dalla propria infanzia e adolescenza ed è letteralmente in fuga dal suo vero sé.

Non può fare i conti con il proprio passato, può solo tentare di cancellarlo e distruggerlo, per eliminare tutte le prove che dimostrano non solo la sua appartenenza al genere umano, ma anche il suo lignaggio di mezzosangue. Il suo odio verso i babbani e i “non-puri” è un chiaro riferimento al tentativo di fuggire dalla sua vera identità e quella di Lord Voldemort è la maschera granitica e invincibile che il fragile Tom Riddle indossa per evitare di mostrare tutta la propria vulnerabilità.

Spesso il potente distrugge e perseguita chi gli somiglia poiché deve distruggere prima di tutto la somiglianza per poter costruire un nemico che gli sia autenticamente alieno. In Voldemort possiamo tutti, chi più chi meno, riconoscere un comportamento che spesso manifestiamo: nascondere le nostre debolezze dietro identità fittizie che ci permettono di mostrarci più forti, più coraggiosi, più sicuri di quanto in realtà siamo.

Questo accade perché ognuno di noi porta dentro di sé l’adolescente incerto, pieno di domande e dubbi, privo di sicurezze, che non riesce mai ad abbandonare nel corso della maturità. Anzi, potremmo dire che maturare significhi non tanto lasciarsi alle spalle l’adolescente fragile, quanto piuttosto crescere facendo pace con le vulnerabilità che hanno messo radici dentro di noi.

Maturare non può essere un atto di fuga attraverso la costruzione di un’identità immaginaria e invalicabile, poiché quelle mura mostreranno sempre crepe oltre le quali il disastro si prepara inevitabile.

Dietro le maschere che costruiamo per convincere noi stessi e gli altri di essere migliori, più forti di quanto in realtà siamo davvero, si annida sempre il bambino, l’adolescente, l’individuo che cova dubbi e incertezze, che brancola nel buio interiore ed esteriore, e non ci sarà alcuna maschera, alcun Lord Voldemort a salvarci dalla necessità di fare i conti con quel buio.

Di nuovo, torna fortissimo il tema della paura: la paura della morte ha spinto Lord Voldemort a creare gli Horcrux, i feticci che lo illudono dell’immortalità, così come la paura della vulnerabilità ha spinto Tom Riddle a costruire Lord Voldemort, il feticcio che lo illude dell’invincibilità.

Despota paranoico

©2011 Warner Bros. Entertainment

La saga di Harry Potter lancia perciò un atto d’accusa nei confronti del potere. Chi brama di dominare l’esistenza altrui lo fa semplicemente perché è perseguitato dalle incertezze che l’esistenza ci impone durante l’infanzia e l’adolescenza.

Questo è il motivo per il quale le immagini che rimandano alle dittature del Novecento, e non solo, ricordano spesso giochi bambineschi: Adolf Hitler osserva la marcia della Wehrmacht con sguardo divertito, un po’ come un bambino osserva un’esibizione di animali al circo; Mussolini recita una parte iperbolica e caricaturale sul balcone della piazza, ricordando da vicino una recita teatrale delle scuole medie; Mao, raffigurato in modo angelicato e bambinesco di fronte a folle adoranti, incarna il ruolo del ragazzino che fa di tutto per mostrarsi adulto e maturo quando, invece, non lo è.

La storia del potere è la storia delle maschere che nascondono le fragilità, e della paranoia che quelle maschere trascinano con sé.

Voldemort, da bravo despota infragilito che vuol nascondere Tom Riddle, è pervaso dalla paranoia di essere tradito, spodestato, criticato, ed è per questo che non può sopportare di avere amici, ma soltanto adepti, sottoposti, schiavi.

La paranoia è il marchio di fabbrica del potere. Chiunque sia troppo vicino al dominatore deve temere per la propria vita più dei nemici stessi: Stalin fece di questa caratteristica il suo emblema, con le purghe che colpivano sempre i dirigenti del Partito comunista, appena il minimo sospetto di tradimento aleggiava nell’aria.

Lord Voldemort arriva a uccidere di persona quello che lui considera il suo più fedele servitore, ovvero Severus Piton, ma la sua immaturità non gli permette di accorgersi di quanto fosse profondo il tradimento perpetrato, in un ironico epilogo che lo farà apparire come un ingenuo allocco.

Nessuno può essere amico di Lord Voldemort, e questo è la vera maledizione che colpisce i potenti: creano una maschera paranoica per nascondere la fragilità dell’adolescente che permane dentro di loro, ma quella paranoia li spinge a non far avvicinare nessuno, a lasciarli solitari e abbandonati nel tugurio del loro animo, e questo li rende ancora più fragili, sperduti, brancolanti nel buio.

Voldemort avrebbe un bisogno immane di un amico, di un confidente, ma il fatto stesso di essere Voldemort gli impedisce qualsiasi confidenza o amicizia.

Ed è proprio per questo che, nell’iconica scena in cui Harry Potter incontra Silente alla fine del settimo libro all’interno di quello che pare un sogno, Voldemort è rappresentato come un grumo di carne e sangue che rantola a terra, pietoso e abbandonato: la vera forma di Colui-che-non-deve-essere-nominato non è quella del dominatore delle tenebre, del Signore oscuro che tutti temono e che nulla teme, ma quella di un corpo vulnerabile e morente, strappato dai crimini compiuti, che non può fare più nulla per salvarsi e che è destinato all’oblio, come ogni potente che (non) si rispetti.

In effetti, a essere ricordato non sarà Tom Riddle, l’individuo che cercava soltanto di colmare quell’oceano di paura che albergava nel suo animo, ma Voldemort, la maschera fittizia che non ha alcun significato se non quello di mostrare la sua inadeguatezza.

Non ricordiamo l’individuo dietro i Mao, gli Stalin, gli Hitler, ma solo il carico di terrore e violenza che hanno portato con loro. Il potere è l’arma più suicida che un individuo possa sperare di usare, poiché illude di tenere sotto controllo la vita altrui, mentre fa deragliare l’esistenza di chi lo esercita.

«Il potere logora chi non ce l’ha», disse Giulio Andreotti in una famosa citazione. Ma Lord Voldemort dimostra che non è così: il potere distrugge chi lo usa per fuggire dal suo vero sé.

R – Mi è parso che, di tutta la vicenda, una delle cose che ha infastidito di più la Vostra Signoria Oscura fosse il fatto che Harry Potter era poco più che un ragazzino. Anzi, un infante, la prima volta in cui vi ha sconfitto. 

(Gioca con la bacchetta facendola roteare sul tavolo senza

toccarla).

R – Signor presidente…?

V – Sì. Certo. Ammetto che quello mi infastidiva molto. Un bamboccio, un moccioso che teneva testa al più grande mago mai esistito. Una vera barzelletta.

R – Però, alla fine, non era una questione di età, ma di legame. Mi azzardo a proporre questa analisi: l’errore vostro è forse stato quello di puntare l’attenzione sulla differenza di età, quando, invece, bisognava comprendere la natura del legame tra voi ed Harry?

V – Non c’era alcun legame tra me e il ragazzo, sono tutte fake news di Silente…

R – Perdonatemi, ma sappiamo entrambi che questo non è vero. L’incantesimo fatale scagliato contro Lily Evans, il sacrificio della madre per salvare il figlio, il cuore delle bacchette provenienti dalla stessa feni…

V – Basta! Harry Potter è solo stato un maledetto fortunato e non c’è alcun legame, alcun significato profondo che possa spiegare quanto successo.

R – Mi pare un atteggiamento poco costruttivo il vostro.

V – Poco… costruttivo?

R – Sì, probabilmente dovreste imparare ad argomentare

meglio.

(La bacchetta ha un fremito sul tavolo e, improvvisamente, viene come risucchiata nella mano del Signore oscuro, che inizia a pronunciare un incantesimo. Ma forse sono ancora in tempo per fare un piccolo ragionamento…).

Scontro generazionale

©2011 Warner Bros. Entertainment.

La rivalità tra Harry Potter e Voldemort è prima di tutto uno scontro generazionale. Si tratta di due visioni del mondo differenti, maturate in momenti differenti del tempo e in contesti culturali tra loro alieni.

Da un lato Voldemort, di fronte a un mondo magico in grande cambiamento, vede messi a repentaglio i privilegi della sua comunità: la decadente nobiltà dei suoi antenati, la famiglia Gaunt, diretta discendente di Salazar Serpeverde e da sempre legata al concetto della purezza di sangue, metro di misura dell’aristocrazia magica.

Dall’altro un ragazzo vissuto fino agli undici anni in un contesto “meticcio”, nel quale i babbani e i maghi erano indistinguibili e il suo talento magico derubricato a mera stranezza caratteriale.

Voldemort vive la magia come un prezioso elemento di superiorità, macchiato da un mondo che si apre sempre di più alla mescolanza tra maghi e babbani, mentre Harry scopre la magia come elemento aggiuntivo a una personalità già abituata a relazionarsi a persone “normali”.

Harry Potter racconta il modo con cui due generazioni vivono l’apertura della società a una mescolanza tra mondo magico e non. Questo tipo di transizione racconta da vicino il cambiamento che anche il nostro mondo sta vivendo, un mondo che nel corso degli ultimi cinquant’anni si è aperto e ampliato, i cui orizzonti hanno incluso altre società, altre culture ed etnie, diversità prima impensabili. E anche nel nostro mondo, lo scontro tra generazioni è evidente e cruento.

Ad acuire il conflitto tra generazioni ci sono le reciproche accuse che “i giovani” muovono nei confronti de “i vecchi” e viceversa: i nonni e genitori accusano i figli e nipoti di lassismo, pigrizia, mancanza di volontà e iniziativa, voglia di vivere di soli privilegi senza fare la fatica del lavoro e della vita. Al contrario, i giovani accusano i vecchi di aver distrutto il mondo, di aver dilapidato le risorse, lasciando ai nuovi arrivati solo un pugno di mosche, di non essere riusciti a risolvere i grandi problemi del pianeta e, anzi, di averli aggravati.

Pregiudizi incrociati

Mi pare scontato dire che da ambo le parti ci sono generalizzazioni distruttive e un immaginario che andrebbe evitato, che appiattisce la complessità del reale dentro metafore decisamente poco utili per fare progressi.

Se da un lato le generazioni anziane preferiscono considerare “debosciati” i più giovani, dimenticando che i trentenni di oggi stanno producendo maggior innovazione in ogni ambito rispetto a qualunque altra epoca, dall’altro le persone con minore esperienza dimenticano che chi è nato tra gli anni Quaranta e Cinquanta ha risolto problemi prima insormontabili, soprattutto in ambito medico, nutrizionale ed economico.

Basta prendere il libro di Hans Rosling Factfulness per accorgersi che la generazione che ora è composta dai nonni e dai genitori è quella che ha prodotto il miglior contesto economico e sociale nel maggior numero di luoghi al mondo, portando il numero di persone che soffrono la della pandemia la tendenza stava ancora migliorando (ora, speriamo che le cose tornino a migliorare prima possibile).

La generazione di chi oggi è “vecchio” ha visto diminuire drasticamente ogni genere di violenza, da quella personale a quella organizzata, secondo il Global Study on Homicide. Ovviamente, come è stato per ogni generazione, la risoluzione di molte questioni che in passato sembravano insormontabili ha portato alla nascita di nuovi e preoccupanti problemi, difficili da prevedere, come per esempio il cambiamento climatico.

Ma ogni generazione eredita le soluzioni della precedente, insieme ai problemi prodotti nella ricerca di quelle soluzioni: la crescita economica, la ricerca scientifica e medica, il miglioramento del tenore di vita per la grandissima parte della popolazione mondiale, ha avuto come risultato la crescita di emissioni di CO2 e di altre sostanze nocive per l’ambiente, e la generazione oggi giovane è chiamata a beneficiare delle soluzioni trovate in precedenza, al tempo stesso cercando di migliorare i problemi prodotti da chi quelle soluzioni le ha trovate.

Insomma, il susseguirsi delle generazioni non è come una serie di camere stagne divise da invalicabili confini, ma un nastro lungo e intricato, sul quale le individualità sfumano le une nelle altre, e il compito dell’intelligenza umana è quello di accorgersi di quella complessità, rispettandola e usandola in modo proficuo.

Riconoscimenti

La saga di Harry Potter parla esattamente di questo: di come due generazioni in scontro totale siano chiamate a riconoscersi l’una nell’altra, accorgendosi che, volenti o nolenti, nessuno di noi è così diverso dal rivale. Questo è perfettamente rappresentato dalla coesistenza dei due antagonisti: dentro Voldemort c’è una parte di Harry Potter e in Harry c’è una parte di Voldemort. Narrativamente, questo è spiegato dal momento in cui il Signore oscuro tenta di uccidere l’infante Harry e, come spiega Silente, una parte dell’anima del primo si è attaccata al bambino, rendendolo di fatto un Horcrux. Proprio per questo, il legame tra i due è indissolubile e supera l’odio che nutrono vicendevolmente.

Questo fatto dà un significato importantissimo al rapporto tra Harry e Voldemort, perché rappresenta il legame esistente tra diverse generazioni: la compenetrazione che esiste tra di esse rende impossibile scinderle in modo netto, e si dovrebbe sempre capire che il termine stesso di “generazione” non designa confini netti e limiti precisi, ma è soltanto una convenzione utile a semplificare la realtà.

Ma se quella semplificazione sta poi alla base di un conflitto, ecco che si scatena il caos. La finale vittoria di Harry su Voldemort è dovuta proprio allo squilibrio che esiste tra i due personaggi: se da un lato Voldemort, guidato dal suo egotismo sfrenato e dalla ricerca dell’immortalità, non può sopportare l’idea di avere un inscindibile legame con qualcuno, tanto meno con la sua nemesi, Harry accetta suo malgrado il destino di avere dentro di sé una parte di Voldemort, e si avvicina a lui con questa consapevolezza. Accettare il fatto di includere in me anche la cosa più diversa che possa incontrare, persino il mio peggior nemico, è un atto di grande coraggio, che sta alla base della sopravvivenza: se riesco a vedere allo specchio anche il mostro che non vorrei mai diventare, anche il genitore che mi fa così arrabbiare, anche il figlio che mi pare sempre più alieno, allora avrò una comprensione più profonda della realtà e di me stesso e saprò accettare gli eventi del mondo con maggior lucidità.

A mano a mano che Voldemort è costretto, suo malgrado, a fare i conti con il pezzettino di Harry che egli porta con sé (rappresentato dalla piuma di fenice nella sua bacchetta), perde lucidità e inizia a compiere azioni stupide. Nel tentativo di staccarsi dall’unico essere che sembra renderlo ancora umano, ovvero il suo antagonista, Voldemort finisce per uccidere i suoi più preziosi alleati, sbagliando i calcoli che lo portano poi al fatale errore che gli costerà tutto, fino ad abbandonare persino la sua amata bacchetta, convinto così di potersi staccare da quel brandello di Harry Potter che lo incatena alla sua mortalità.

Al contrario, a mano a mano che Harry fa i conti con il brandello di Voldemort che porta dentro di sé, egli cerca rifugio nel proprio passato, nell’imperfezione della sua identità, negli errori dei suoi idolatrati genitori, nello sconquasso che è la vita vera, mortale, dell’essere umano, e finisce per accettare il suo tragico destino.

Riconoscere che in noi coesiste l’altro, l’avversario, il nemico assoluto, ci permette di comprendere quell’inestinguibile flusso generazionale di cui siamo tanto il frutto quanto gli artefici, ci responsabilizza nelle nostre azioni, ci permette di comprendere meglio le scelte di chi è venuto prima di noi, predisponendoci a migliori scelte per il futuro. Si tratta di un atteggiamento da cui dipende la sopravvivenza o la crisi di intere culture, non solo di individui, poiché se lo scontro generazionale porta al disfacimento del rapporto tra nonni, padri e figli, il futuro diventa buio e insondabile.

Accettare la morte

Harry vince su Voldemort perché riconosce il Voldemort dentro di sé, lo tratta da pari, da fratello nel delitto, da simile nell’alienazione. Voldemort perde su Harry perché non può accettare di contenere ancora quel barlume di umanità, di passato, di infanzia, da cui cerca di fuggire da tutta una vita.

Le generazioni si susseguono, ma in realtà, siamo all’interno di un divenire in cui gli individui sono la tensione tra quelli che sono venuti prima e quelli che verranno dopo, e in quella tensione accettiamo la nostra mortalità, la nostra transitorietà. Chiunque dimentichi ciò, credendosi immortale e distaccato da quel divenire, è destinato a venir cancellato per sempre, proprio come Lord Voldemort.

Ai Cogito Studios c’è grande silenzio. Fede ha appena sparato un po’ di fumo e io non riesco più a vedere bene VolHarrydemort. Quando la nebbia si dirada, rimango senza parole.

Il Signore oscuro sta piangendo.

R – Oh… Su, non fate così, siete stato comunque uno dei migliori cattivi nella storia della letteratura!

V – Dici… Dici così solo per farmi smettere…

R – Ma no, dico sul serio, io a un certo punto ho anche tifato per voi, leggendo i libri…

V – Davvero? Non lo dici solo per… farmi contento?

R – Ma no… ma no. Su, vi passo un fazzoletto… Ah, giusto, non c’è il naso, quindi…

V – Ti andrebbe di farti un tatuaggio, Rick?

R – Un tatuaggio? Che tatuaggio?

V – Una cosa innocente… un serpente intorno a un coltello,

con scritto…

R – … Morsmordre? No no, grazie, poi mi bannano da

YouTube…

V – Tu… hai il coraggio di disobbedire al Signore oscuro?

R – No… Beh, sì… Ma insomma, con calma… un tatuaggio

mi pare troppo… non fate così…

V – AVADA…


Il testo è un estratto dal libro di Rick DuFer La parola a Don Chisciotte. Cogitate scomode con personaggi impossibili (Feltrinelli 2023, pp. 176, euro 16)

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