Jannik Sinner era convinto che il temporale clostebol, l’assunzione involontaria di una sostanza anabolizzante proibita rilevata da due controlli antidoping del 10 e del 18 marzo, fosse definitivamente passato.

E invece a metà settimana - la decisione di ricorrere da parte della Wada, l’Agenzia Mondiale Antidoping, è stata resa pubblica ieri ma era stata anticipata alle parti nei giorni scorsi - il numero 1 mondiale del tennis ha rivisto i nuvoloni che erano stati i suoi minacciosi compagni di banco in primavera e in un pezzo d’estate.

Il fantasma della squalifica non se ne va. E Sinner, dopo aver passato diversi mesi a dirgli lasciami perdere, giocando e vincendo, anche nella sede più complicata, il Tribunale indipendente dell’International Tennis Integrity Agency, ora lo vede ritornare in scena. A differenza del suo referente italiano, la Nado Italia, che ha scelto di accettare il verdetto, la Wada ha detto no, qui c’è qualcosa che non va. Un “qualcosa” che ha prodotto il ricorso all’ultima istanza sportiva in termini antidoping: il Tribunale Arbitrale dello Sport (Cas o Tas a seconda della lingua usata). La richiesta è quella di una pena da uno a due anni perché la dichiarazione di assenza «di colpa o negligenza» non sarebbe coerente con le leggi sportive. I risultati finora ottenuti, e quelli che realizzerà fino alla sentenza, non sono a rischio, lo dice la stessa Wada - si resta dunque ai 400 punti Atp persi e alla cancellazione dei 325mila dollari del premio conquistato a Indian Wells - ma un anno di sospensione rappresenterebbe una mazzata tremenda.
Il nuvolone è spaccato a metà. Da una parte c’è quella, facciamo a capirci, di stampo dietrologico-geopolitico. Dall’altra, invece, ci sarebbe il filone più propriamente investigativo-normativo. Non sono due storie differenti, i due fronti in qualche modo si tengono reciprocamente a galla.

I guai della Wada

La Wada, eufemismo, sta passando un periodo complicato. La decisione di non ricorrere sul caso dei 23 nuotatori cinesi sposando le conclusioni dell’agenzia antidoping di Pechino che aveva creduto all’ipotesi della “contaminazione alimentare” per la presenza di trimetazidina (un “modulatore ormonale” vietato) nelle urine, ha scatenato una bagarre soprattutto negli Stati Uniti. L’Usada, l’agenzia antidoping statunitense, ha usato parole durissime. Si è giunti a una sostanziale rottura delle relazioni diplomatiche: proprio in queste ore, l’Usada sta svolgendo il suo tradizionale simposio internazionale a Seattle. Ma la Wada, a differenza di quanto accadeva gli altri anni, non c’è.

Nel frattempo, il New York Times ha aperto un altro capitolo, parlando di un problema informatico che avrebbe impedito alla Wada di fermare atleti positivi in avvicinamento verso i giorni olimpici di Parigi. Circostanze smentite a Montreal, sede dell’Agenzia Mondiale Antidoping. Da dove quest’estate era giunta una pesantissima accusa all’Usada e agli statunitensi, chiamati in ballo per aver ingaggiato tre atleti-agenti sotto copertura per incastrare rivali dopati, il tutto senza informare la Wada. Insomma, sono volati diversi stracci. Un contesto che non favoriva certo un vento “innocentista”.

Inoltre, praticamente da decenni, la disputa fra Wada, l’organismo nato nel 1999 per centralizzare tutta la materia antidoping e assicurare una terzietà dell’apparato investigativo e di controllo, e i singoli sport (o attraverso le federazioni o per mezzo di appositi organi “indipendenti”) si è fatta sempre più insistente.

Insomma, Sinner si è trovato nel bel mezzo di uno scontro internazionale fra diversi poteri, dentro e fuori lo sport (la Wada ha un finanziamento “misto”, un po’ dal Cio e un po’ dai governi).
C’è solo questo? O la mossa ha comunque una genesi investigativa del tipo «a noi questa versione non convince»? Su una cosa non si discute: la quantità irrisoria della sostanza rinvenuta nelle sostanze di Sinner è tale che un effetto dopante, anche indiretto, anche inconsapevole, è totalmente da escludere. Per giungere alla “quasi assoluzione” (comunque a Sinner sono stati tolti punti e soldi) è stato necessario raccontare una minuziosa spiegazione della vicenda puntata per puntata: il preparatore che compra lo spray che contiene la sostanza, il fisioterapista che la usa e poi lavora sui muscoli di Sinner producendo la contaminazione, l’ammissione di colpa dei due, la quantità irrisoria della sostanza nelle urine del trionfatore dell’Us Open. Evidentemente non tutti i passaggi per la Wada sono chiari e al di sopra di ogni sospetto.

Ma che cosa c’è che non va? Si tratta della domanda chiave. Per la risposta, però, i tempi potrebbero essere lenti. Si parla di 3-4 mesi, comunque uno spazio in cui Sinner non giocherà sub judice (non sono a rischio i risultati che otterrà), ma con un punto interrogativo sul futuro addosso. Per ora, il numero 1 mondiale ha avuto una tenuta psicologica favolosa, ma ora è costretto agli straordinari.

La reazione di Sinner

«Sono sorpreso e deluso – ha detto dopo aver battuto Roman Safiullin in tre set a Pechino – Il tutto non è molto semplice, non posso controllare tutto». Poi, più a freddo, è arrivato anche il comunicato ufficiale: «Capisco che bisogna indagare a fondo per mantenere l’integrità dello sport che amiamo. Tuttavia, è difficile prevedere cosa si possa ottenere chiedendo a un diverso gruppo di giudici di esaminare gli stessi fatti e gli stessi documenti». Quanto ad Angelo Binaghi, il presidente della Federtennis ha detto di avere «fiducia perché il Tas sancirà l’innocenza di Sinner».
Diciamoci la verità, si è avuta spesso la sensazione in questi anni che una parte dell’antidoping si avventi sul caso simbolo per evitare la grande difficoltà ad aggredire il fenomeno nella sua interezza come dimostra anche la scarsa percentuale di controlli positivi. Se è vero che Sinner ha avuto il vantaggio di un’indagine a luci spente e del silenzio, e di potersi permettere un agguerrito e prestigioso collegio di avvocati londinesi a sua disposizione, nel sistema erano emerse diverse zone d’ombra molto prima del suo caso, circostanze che non hanno certo aiutato la trasparenza delle scelte (pensiamo a tutta la materia delle esenzioni terapeutiche).

I codici sportivi, e quello antidoping non fa eccezione, lasciano uno spazio interpretativo enorme a giudici e istituzioni. Il sistema è sempre più frammentato, ciò che vale per l’atletica non vale per il tennis o per il ciclismo, ciò che vale in un paese spesso non vale per l’altro, le tempistiche sono spesso dubbie, qualche volta ambigue. La materia antidoping è naturalmente complessa, ma qualcosa bisogna fare. Altrimenti finiremo per fare collezione di nuvole più che di emozioni.

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