La scrittrice Sara Marzullo, tra fiction e autoanalisi, tra pop star e personaggi tv, spiega chi sono le sad girl. Un fenomeno che da Tumblr a Tiktok si basa su archetipi che modellano un certo tipo di femminilità. Che può diventare sia gabbia che liberazione
Le vergini suicide e le ragazze interrotte, Sylvia Plath ed Emily Dickinson, Lana Del Rey e PJ Harvey, Tumblr e ora TikTok. Internet potrebbe implodere per il numero di ragazze che esprimono, o mettono in scena, non tanto la tristezza in senso letterale, ma piuttosto una sua estetica.
Un’estetica veicolata da scrittrici suicide, cantautrici indie, quadri cupi e qualsiasi manifestazione intellettuale-artistica melanconica. Forse perché l’estetica della ragazza triste non è stagionale (anche se esiste la sottocategoria autumn e summer sad girl) ma è arrivata a definire da tempo una sotto-cultura della nostra epoca. Forse perché a ben guardare i numeri su internet, le ragazze tristi piacciono.
Qualcuno potrebbe obiettare che il 2023 è stato “The Year of the Girl”, una ragazza che con l’alternarsi delle stagioni è stata una strawberry girl dal make up fragola, una clean girl acqua e sapone, una coquette pizzi e fiocchi la cui fatalità è modulata dall’ingenuità della giovinezza fino all’arrivo della mob wife che indossa pelliccia, perle e stampe animalier come Carmela de I Soprano. Estetiche che variano rapidamente come reel su TikTok ma che non hanno mai oscurato quella della sad girl, la più amata.
Una creatura di internet
La sad girl come la conosciamo oggi ha preso forma online, principalmente su Tumblr intorno al 2010 ma domina e resiste ai trend degli ultimi anni pur affondando le sue radici nella figura – idealizzata e romanticizzata – della bellissima fanciulla piangente presente nell’arte vittoriana.
Chi è sintonizzato con il mondo letterario online, o almeno con il BookTok, saprà anche che i libri descritti come “letteratura per ragazze tristi” (Ottessa Moshfegh, Coco Mellors, Meg Mason, Naoise Dolan) si sono moltiplicati notevolmente fino a dominare l’editoria dell’ultimo decennio. I video su TikTok che mostrano questi libri possono portare ai creator dalle 50mila alle 400mila visualizzazioni.
Sad Girl. La ragazza come teoria di Sara Marzullo, appena pubblicato da 66thand2nd, analizza «tra auto-fiction e non-fiction», complessità e risvolti di questa estetica, per esplorare la “cultura femminile” per come ci è data, per come ci influenza e per come la riproduciamo.
Questo perché la sad girl può essere un frutto patriarcale o una sorta di modello di emancipazione.
«La sad girl è il desiderio di sottrarsi a quello che è un modello femminile che compiace e che si adatta bene alla posizione che le è assegnata, ossia il “malessere” e il disturbo che la sad girl incarna - la sua disfunzione, sorella e diversa da quella che possiamo riconoscere nella isterica o nella strega - è una forma di resistenza a un sistema; ma allo stesso tempo questa sottrazione può diluirsi in una sorta di apatia non vitale, non riconquista, bensì resa», spiega Sara Marzullo.
Tristezza politica
La tristezza per uscire dai canoni patriarcali non è una novità, già nel 2014, Audrey Wollen, scrittrice e artista, proponeva su Instagram la sua “Sad Girl Theory”, un manifesto che cristallizzava la sottocultura online che dominava Tumblr e i blog online. Wollen con i suoi lavori sosteneva che essere una ragazza triste non fosse un segno di rinuncia ma un atto di radicale resistenza: un’aperta ribellione contro la cultura del «se ti impegni puoi ottenere quello che vuoi» e il rifiuto di sorridere beatamente in una società ingiusta e violenta.
Usare la tristezza per rivendicare il libero arbitrio sui nostri corpi, identità e vite può essere una rivalsa ma anche un rischio. La “ragazza triste” degli anni ‘10 così come quella di oggi tenta di posizionare la propria sofferenza come un atto radicale di auto-accettazione ma ciò potrebbe portare a un’insana idealizzazione della sofferenza.
Come sottolineato dalla dottoressa Gaia Cavalleri, psicologa e psicoterapeuta sistemico-relazionale, «per ogni fenomeno di tendenza sui social, il rischio di emulazione è sicuramente alto, soprattutto in soggetti che si trovano nella fascia d’età pre e adolescenziale».
L’adolescenza femminile è un terreno fertile per la mercificazione. Riviste di settore, canzoni, libri e pellicole: un’infinità di prodotti ci bombardano con messaggi su chi dovremmo essere, come dovremmo sentirci e cosa dovremmo desiderare. In un tentativo disperato di dare un senso a questa fase tumultuosa della nostra vita, ci appropriamo di queste narrazioni, spesso struggenti e idealizzate.
Nella cultura pop
La sad girl non è solo un’adolescente, come dimostra il personaggio di Phoebe Waller-Bridge in Fleabag, ma anche una donna, in questo caso distrutta e impenitentemente distruttiva. Nell’iconica locandina la protagonista è in piedi per strada e guarda lo spettatore con gli occhi che colano mascara. Un’effige da autentica sad girl. Del resto la tv vive di ragazze perdute e tristi come Laura Palmer di Twin Peaks o Effy Stonem di Skins.
Nella nostra società la sad girl è immanente e il suo tropo non è contenuto solo nei libri e nelle trasposizioni sul piccolo e grande schermo.
Come spiega bene Sara Marzullo, ogni genere musicale ha le sue ragazze tristi (da PJ Harvey a Billie Eilish, da Lorde a Olivia Rodrigo passando per Florence + the Machine, Mitski, Phoebe Bridgers) anche se quella per antonomasia è Lana Del Rey che con la sua voce languida e affranta canta «Sono una ragazza triste» (Sad girl) e altre ballate malinconiche che diventano hit, come Summertime Sadness.
«È come se ognuna di queste rappresentazioni – anche quando sono estreme – avesse un potere seduttivo e insieme normativo, come se quella tristezza fosse un marchio di elezione. Se accade non è solo per l’incapacità di (auto)analisi o un desiderio di appartenenza ma perché il mercato pervade quasi tutto e trasforma qualsiasi cosa in qualcosa di desiderabile», spiega Marzullo.
Un’emozione e un codice
La popolarità dell’estetica della sad girl potrebbe significare anche qualcos’altro, ad esempio che il comportamento delle donne è così controllato nella vita reale che è un piacere vedere versioni immaginarie di noi mettere in scena tutte le emozioni che non trovano spazio offline.
«Da un lato esistono dei benefici in questa condivisione: permette di abbattere le barriere relative alle psicopatologie, promuove l’inclusione e normalizza l’idea di poter stare male. Il rischio di questa modalità comunicativa, dall’altro lato, è legittimare in maniera disfunzionale le reciproche esperienze di malattia mentale, finendo così per romanticizzarle», aggiunge la dottoressa Cavalleri.
Il desiderio di trasformare le nostre esperienze in contenuti è tipico delle generazioni social, oggi molte ragazze esprimono online la propria identità attraverso un elenco curato ad arte delle cose che consumano, o aspirano a consumare. E dato che molte credono che la loro identità sia definita quasi interamente dalle loro nevrosi, queste raccolte servono implicitamente a segnalare in modo elegante al pubblico la propria tristezza.
«Nel caso delle sad girl gli stati di tristezza, invece di essere considerati come campanelli d’allarme, divengono un’aspirazione, uno stato quasi piacevole nel quale stare. Di conseguenza, l’obiettivo non è guarire o combattere queste sensazioni negative, bensì restarci, in quanto i soggetti che ne sono affette non le ritengono problematiche. Questa dinamica può diventare molto pericolosa perché non permette la richiesta di aiuto e inibisce la motivazione necessaria per uscirne», spiega la dottoressa Cavalleri.
L’iconografia della malinconia femminile passa dagli archetipi e i miti alle rappresentazioni mediate dall’arte e come ogni fenomeno può essere letto da più punti di vista e può incanalare diverse energie, sia distruttive che rivoluzionarie.
Nonostante le implicazioni problematiche, queste tendenze sembrano aver dato vita a un dibattito più ampio sulla femminilità e la malattia mentale, anche se le emozioni sono spesso mediate e modellate dall’algoritmo.
La sad girl prova a costruire e a decostruire il femminile anche se troppo spesso sembra una mise en place perfetta per Instagram ma c’è una differenza di cui tener conto: ritrovarsi in qualcosa e non semplicemente riprodurre e performare dei codici prestabiliti.
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