«Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene…», difficile non ricordare il mantra del film L’odio (1995) di fronte allo statuario Vincent Cassel: testa rasata, camicia bucherellata bianca, sguardo da husky, sorriso da gangster. Niente a che vedere con l’eleganza di Karsh, il protagonista vestito Saint Laurent (co-produttore) di The Shrouds, l’ultimo body horror tinto di spionaggio di David Cronenberg presentato in concorso a Cannes.

Una riflessione sulla perdita e uno struggente autoritratto del regista canadese che affronta attraverso il suo alter ego, Vincent Cassel, la morte della moglie. Nel film l’attore interpreta un uomo d’affari che ha inventato un sudario capace di connettere i vivi con i loro cari defunti. Un ruolo quasi minimalista per l’ex enfant terrible del cinema francese.

Deve essere complesso interpretare il regista da cui si è diretti, come avete affrontato la cosa con Cronenberg?

La prima cosa che mi ha detto è stata: «Fai come se il personaggio fosse basato su di me, ma non sono io, mi puoi usare come modello». Mi ha svelato pochissime cose di se stesso, sapevo che era un film molto personale, ma ovviamente non è un’autobiografia.

David è un regista che vuole davvero che tu lo sorprenda, ti dà molta libertà, molta fiducia. Non ama fare prove, dal momento che ti ha scelto presume che ti presenterai sul set e farai quello che lui ha in mente. Durante le prime settimane di riprese, non mi diceva assolutamente nulla se non: «Ciao, come stai?». O mi parlava di cose che non c’entravano niente con il film. Il vero lavoro per me è stato quello di restituire la dolcezza della sua voce, sa, sono piuttosto aggressivo ed espressivo, quindi ho dovuto fare un lavoro di sottrazione per adattarmi al suo personaggio.

Diciamo che il risultato c’è, siete uguali.

Questa magia succede grazie allo sguardo che il regista ha su di te, è qualcosa di misterioso, che va al di là delle parole. Un giorno durante le riprese, sono entrato nella mia roulotte e specchiandomi di sfuggita ho visto Cronenberg. Gliene ho parlato e lui mi ha risposto: «Beh, Vincent, controllo i giornalieri ogni giorno e anch’io ho l’impressione di vedermi in te».

Che ne pensa dei registi che dirigono in modo molto preciso gli attori?

Non mi piace sentirmi manipolato come un burattino, adoro gli imprevisti. Il vero lavoro di regia avviene in realtà durante la fase di casting. Una volta scelta la persona giusta, di solito, non c’è più molto da dire, l’attore e il regista sono sulla stessa lunghezza d’onda. L’unica cosa che mi preoccupava in questo film erano il numero di battute, non ho mai parlato così tanto in un film e questa cosa mi rendeva nervoso, soprattutto perché dovevo recitare in inglese.

Condivide la passione del personaggio, e di Cronenberg, per la tecnologia?

David è un vero geek, appassionato di tecnologia, io invece sono più timido, ma appena c’è qualche novità tech o notizia sull’intelligenza artificiale ci messaggiamo. Come ci insegna la storia, ogni volta che c’è una novità, diventiamo come dei bambini, basta vedere l’uso attuale dei social media. Spero che un giorno riusciremo ad usarli per progredire invece che per specchiarci o guardarci a vicenda.

Ma non ha paura che l’intelligenza artificiale metta in pericolo la sua professione? Nel 2023 gli sceneggiatori e gli attori hanno scioperato anche per tutelarsi dall’Ia.

Certo, è preoccupante, mi informo molto sullo sviluppo delle immagini di sintesi e attualmente i personaggi artificiali sembrano quasi reali, in termini di texture o movimenti dei capelli, ma quando si mettono di fronte all’obiettivo, non hanno nulla negli occhi. Elon Musk ha detto che l’Ia può comporre solo con le informazioni che ha, gli manca l’immaginazione, che è la magia dell’umanità.

L’intelligenza artificiale è forse in grado di pensare fuori dagli schemi? Riuscirà a trasmettere la follia e la scintilla di vita che si ha in un’emozione? Non lo so. Voglio dire, finora non è così. Forse lo sviluppo dell’Ia provocherà l’effetto contrario: la gente vorrà tornare di più al teatro, agli spettacoli dal vivo, a comunicare con persone reali che si permetteranno di dire cose proibite dalla società e dalla morale, è una situazione complessa… ChatGpt non risponde ad alcune domande…è già uno strumento di propaganda, a seconda di chi lo ha progettato.

Lei è uno dei rari attori francesi con una vera carriera internazionale. Qual è il suo rapporto con il cinema francese?

Da giovane, le avrei risposto che il cinema francese è come il formaggio: un cliché. All’inizio non riuscivo a connettermi con il naturalismo francese, sognavo l’Actor’s studio, il cinema di genere italiano, americano e tutti i film che mi portavano fuori dalla realtà. Ho iniziato a lavorare negli anni Novanta con registi come Mathieu Kassovitz, Jan Kounen, Christophe Gans, Gaspard Noé, eravamo una generazione che voleva tornare a un certo formalismo, per rendere il cinema bello, più grande della vita. Volevamo uscire dal solito cinema “due stanze e cucina” e tornare a far sognare con film che si ispiravano alla nouvelle vague.

È solo andando a vivere negli Stati Uniti che ho capito che ero davvero francese e che ne ero davvero orgoglioso. È lì che ho imparato ad amare il mio paese e i miei connazionali, mi sono reso conto della libertà che abbiamo, di quanto siamo polemici e contestatori, non è un caso se abbiamo fatto la rivoluzione.

Ha paura del tempo che passa?

È da quando ho 28 anni che mi dico: «Ehi, sbrigati, perché tra cinque minuti siamo tutti morti». È così che affronto la vita, amo girare film, amo tutto ciò che accade dopo il ciak, quando parte la macchina da presa, Il resto è complicato. Onestamente, come attore, non guardo molti film, non ho tempo. La mia vita è decisamente più legata alla realtà che alla finzione. Credo che i film importanti sono quelli che hai visto prima di vivere la tua vita da adulto.

Oggi la cattiva notizia è che lavoriamo tutti per Apple, Netflix, Amazon, e questi sono soldi americani…è triste perché, ovviamente, con il tempo cambierà qualcosa nel modo di raccontare le storie. Ma questo film parla di, o meglio, ci ricorda che non siamo immortali e che non possiamo rimanere giovani per sempre.

Nel film c’è una battuta in cui dice: «Fino a che punto sei disposto a scendere nell’oscurità?». Come risponde a questa domanda?

Beh, credo di essere stato molto dark in passato. Qualche anno fa ho rivisto la versione integrale di IrreversibileVenezia, è un film fantastico che ho prodotto e di cui sono molto orgoglioso, ma rivederlo è stato veramente disturbante, mi ha fatto capire che non era più un film adatto a me. Adesso non lo farei mai, si figuri, oggi ho persino problemi a sparare a qualcuno in una scena.

Che cosa ricorda della prima di Irreversibile a Cannes nel 2002?

Ricordo che quando hanno spento le luci in sala, mi sono sentito come se avessi sganciato una bomba in chiesa, ma era l’umore giusto, volevamo provocare, scuotere il cinema francese per cambiare le cose.

La recitazione è stata terapeutica per lei?

Da giovane dubitavo molto di me stesso. Credo di aver creato la mia identità con i film. Per questo motivo il cinema è stato davvero importante per me, ed è solo quando ho iniziato a essere riconosciuto come attore che mi sono davvero tranquillizzato come persona.

È stato complicato essere figlio di un grande attore come Jean-Pierre Cassel?

Sono cresciuto in questo settore, questo è certo, ma anche se assomiglio sempre di più a mio padre (e a David Cronenberg), credo di essere molto diverso da lui, molto più aggressivo anche nel modo in cui sono entrato in questa industria. Mio padre era una persona gentile. Io non lo sono.

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