La regista danese ha adattato La bambina che raccontava i film, il best seller di Hernan Rivera Letelier, catapultandoci in una cittadina mineraria nel Cile degli anni Sessanta in cui l’unica via di fuga dalla miseria e dall’aridità del deserto dell’Atacama è la magia del cinema
«Siamo fatti della stessa sostanza dei film, della stessa sostanza dei sogni…» Citando La Tempesta di William Shakespeare, Maria Margarita, la giovane protagonista di The Movie Teller che ha il dono di raccontare le pellicole, ci ricorda che un film è un sogno che si avvera. Ne sa qualcosa Lone Scherfig che dopo il successo mondiale nel 2001 di Italiano per principianti, Orso d’argento a Berlino, ha coronato i suoi sogni internazionali con film come An Education, One Day o L’ora più bella.
Questa volta la regista danese adatta La bambina che raccontava i film, il best seller di Hernan Rivera Letelier, catapultandoci in una cittadina mineraria nel Cile degli anni Sessanta in cui l’unica via di fuga dalla miseria e dall’aridità del deserto dell’Atacama è la magia del cinema. Il film con Daniel Brühl, Berenice Bejo è stato presentato all’Umbria Film Festival.
Un altro film non danese. Essere una regista straniera in Cile le ha dato la giusta distanza per affrontare una storia ambientata negli anni portarono al golpe di Pinochet?
È stato un gioco di equilibrio tra raccontare un momento storico complesso e doloroso e rendere omaggio alla magia del cinema. Con L’ora più bella, un mio film che racconta le disavventure di una troupe di cineasti britannici, avevo già sperimentato diversi linguaggi. Con The Movie Teller ho sentito in più la responsabilità di rendere omaggio a una comunità mineraria nel deserto dell’Atacama che non c’è più.
Per comprendere e catturare l’anima di un paese faccio sempre molta ricerca e cerco di circondarmi di persone del posto fidate, che mi segnalano se sto commettendo errori. Anche se vivo in Danimarca giro quasi sempre all’estero, soprattutto nel Regno Unito, ma forse il paese più difficile da raccontare sono gli Stati Uniti, perché il nostro sguardo è talmente contaminato dal loro cinema che si ha l’impressione di conoscerli e di capirli, ma in realtà è difficile entrare nella loro cultura.
È complicato lavorare a Hollywood? Si sente più a suo agio in Inghilterra?
In Inghilterra, in Europa, in Cile… Negli Stati Uniti il cinema è un’industria, in Europa è più protetto perché l’arte è spesso sostenuta dallo stato. Quella del Cile è stata un’esperienza immensa, mi mancano soprattutto i bambini, il deserto. È un film che va visto con il pubblico, molte scene si svolgono in un cinema ed è bellissimo sentire l’atmosfera della sala, vederla riflessa come uno specchio sul grande schermo. Il mio film è un lontano cugino sudamericano di Nuovo Cinema Paradiso.
Anche lei è stata stregata dal cinema fin da bambina?
Quando ero piccola, potevamo guardare la televisione solo un’ora a settimana perché i miei genitori erano convinti che facesse male. Andavamo al cinema ogni domenica con mio padre vestendoci a festa. Ho la stessa età di Maria Margarita, la protagonista, quindi alcuni film proiettati nel suo paesino sono i miei preferiti da bambina. Io provengo però da una parte del mondo completamente diversa e molto più privilegiata.
In Cile c’è un clima di grande insicurezza, si rischia di perdere tutto da un giorno all’altro. Quello che posso trasmettere agli attori, è il mio vissuto emotivo. Cerco di capire intimamente i personaggi del film, ed è forse questo rende il film credibile e universale.
Perché gran parte della sua carriera si è svolta all’estero, la Danimarca non l’ha mai ispirata abbastanza?
In un certo senso è così. Anche se è meraviglioso dormire nel proprio letto e sentir parlare la propria lingua. Ma non basta, il mio mondo non è abbastanza interessante per farne un film e non sono attratta dai drammi intimisti, quindi spero ancora di continuare a girare all’estero e possibilmente con attori britannici, adoro la loro tecnicità. Se non riesco a viaggiare geograficamente mi piace farlo nel tempo, per questo mi piace molto lavorare su storie in costume.
Eppure lei è diventata famosa con una commedia molto danese Italiano per principianti, che tra l’altro è stata girata con le regole del Dogma 95. Quanto l’ha influenzata questo movimento?
Molto. Prima di tutto mi ha permesso di sperimentare la comicità, non sapevo se il mio umorismo funzionasse. Il film è stato proiettato in varie parti del mondo e, dal Bhutan, alla Russia fino in Giappone, il pubblico reagiva negli stessi punti in cui volevo che ridesse, e questo mi ha dato fiducia in me stessa. Mi ha anche insegnato a sfruttare le avversità e trovare un lato positivo nell’imperfezione. Se piove, giri sotto la pioggia e forse la scena funziona meglio, anche se vai fuori fuoco, il materiale è più vivo.
Ho imparato ad abbassare le difese e il controllo, ad affidarmi all’imprevisto e alla storia. Il movimento Dogma è nato prima dell’avvento dei cellulari, e ha dato la possibilità a molti registi di lavorare in modo libero e democratico, cosa che molti fanno oggi con lo smartphone. Alcuni film sono diventati dei classici, penso a Idioti di Lars von Trier, un vero capolavoro.
Un movimento libero e democratico ma allo stesso tempo con regole rigidissime… Non le sembra una contraddizione? È per questo che il Dogma è morto?
Sì, c’è qualcosa di paradossale. Il Dogma era una ricetta che, con i suoi ingredienti, tirava fuori il regista che c’è in te. Ma credo che il motivo per cui si è fermato è che non ce n’era più bisogno dal punto di vista tecnico. Anzi, con gli smartphone e la democratizzazione delle riprese era quasi necessario andare nella direzione opposta per ricordare l’importanza e la grandezza del linguaggio cinematografico.
Il Dogma affonda le sue radici anche nel neorealismo, che rapporto ha con il cinema italiano?
Beh, ho scritto la mia tesi sul neorealismo, a cui mi sento ancora profondamente legata. C’è un’attenzione, dei tempi, una visione politica e uno stile che mi hanno profondamente influenzata. Non è un caso se Italiano per principianti è un film Dogma, perché, come per il neorealismo, c’era un vero amore per la realtà: girare per strada, macchina a mano, catturare persone autentiche, sperando di sfruttare le loro storie personali. Mi sento molto più legata al cinema italiano neorealista che ai film di Ingmar Bergman o di Carl Theodor Dreyer.
È complicato per una donna affermarsi come regista? Ha mai sentito qualche forma di discriminazione nel corso della sua carriera?
Avendo avuto la fortuna di crescere in Scandinavia devo ammettere di non aver mai avuto difficoltà ad affermarmi come regista. Prima delle polemiche sulla parità di genere nel cinema, non ci avevo mai pensato, e oggi guardando la mia carriera mi rendo conto che se ho avuto problemi non erano certo legati alla discriminazione. Le persone migliori con cui ho lavorato nel corso degli anni, che mi hanno sostenuto di più, erano uomini, ma è ovvio, all’epoca c’erano molti più uomini nell’industria cinematografica.
Oggi, leggendo i titoli di testa e di coda mi sono resa conto di quante donne ci sono in più nel cinema, e ne sono felice. Ma vedo che c’è ancora parecchio sessismo, anche in Danimarca. Sul set di The Kindness of Strangers dove la troupe era americano-danese, l’atteggiamento verso le donne era chiaramente diverso, sui set americani i tempi sono radicalmente cambiati.
Il suo film inizia con la storia di una famiglia disfunzionale e finisce con la storia di un paese disfunzionale, quindi il cinema non ha nessun potere terapeutico?
Io credo che i bei film abbiano il potere di guarire e di aprire la mente degli spettatori. In questo momento c’è un progetto scientifico in Danimarca (Memory film) in cui un grande archivio di film e documentari storici viene proiettato ad uso terapeutico per persone affette da Alzheimer con ottimi risultati.
Certo, Il cinema può anche influenzare negativamente, basta pensare ai film di propaganda o come alcuni film ci insegnano a usare le armi. Il cinema ha un grande potere e per questo noi registi abbiamo una grande responsabilità, anche se giriamo un piccolo film. Ricordo che quando ho iniziato in televisione, mi dicevo: «Ma come faccio a infliggere una serie così noiosa agli telespettatori?». Poi ho visto il lato positivo: andando in onda toglievo spazio a Margaret Thatcher in tv.
Qual è il segreto per fare film internazionali che oltrepassino le frontiere?
Suppongo l’integrità e l’originalità. Il cinema deve farti viaggiare, è uno strumento che ci può catapultare in un appartamento a Vladivostok o in una sala da ballo nella California degli anni Trenta. Poter vivere una vita diversa per un paio d’ore rimane un fatto straordinario.
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