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Il filosofo conservatore di Harvard smaschera il demagogo Trump: ha fatto credere agli intellettuali che la nuova destra nascerà sulle macerie del liberalismo. Invece anche i conservatori devono tornare a Locke.
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Democrazia liberale significa democrazia con delle libertà. Significa diritti che sono garantiti contro l’interferenza della maggioranza. Il problema in una repubblica non è tanto lo sfruttamento della minoranza, quanto quello della maggioranza.
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Il problema dei conservatori oggi è il sentimento di sconfitta, l’idea che non possano vincere.
Harvey Mansfield e Yascha Mounk discutono dello stato del conservatorismo americano.
Yascha Mounk: Secondo lei come i conservatori dovrebbero pensare al liberalismo e alla democrazia liberale?
Dovrebbero rimanere ancorati ad esso. Farò solo qualche osservazione generale. Mi piace il nostro buon vecchio liberalismo, collaudato, che ha origini in John Locke e nella sua [visione della] tolleranza, da una parte, che è un bene per gli intellettuali, e della proprietà privata, che è un bene per gli uomini d’affari. Già così si vedono le basi di un sistema bipartitico nel liberalismo. E penso che questo sia il genere di cosa che dobbiamo custodire. Locke protegge questa visione della libertà con il costituzionalismo, e questo è stato elaborato dai fondatori americani.
Democrazia liberale significa democrazia con delle libertà. Significa diritti che sono garantiti contro l’interferenza della maggioranza. Il problema in una repubblica non è tanto lo sfruttamento della minoranza, quanto quello della maggioranza. “Fazione” è la parola usata nei Federalist Papers, o “tirannia della maggioranza”, in Tocqueville. Penso che chi meglio comprende la democrazia tema la sua tendenza verso maggioranze chiassose e prepotenti.
È il problema principale, e il motivo di ciò è che una tirannia maggioritaria appare come una giustizia della maggioranza, o addirittura una visione della maggioranza del bene comune. Queste due cose devono essere distinte e rese operativi e le rendi operative con i soliti dispositivi del costituzionalismo: la separazione dei poteri, la legislatura bicamerale, il federalismo. In più c’è il Bill of Rights, che sono gli emendamenti alla costituzione. Poi c’è la costituzione stessa. Tutte queste cose sono ancora preziose e non dovremmo metterle in pericolo, tanto meno buttarle via.
Il problema dei conservatori oggi è il sentimento di sconfitta, l’idea che non possano vincere. E innanzitutto penso che sia esagerato. Come un’osservazione di Yuval Levin: i liberali pensano di stare perdendo perché non vincono in campo economico, il capitalismo prospera e si interessano meno di vincere nei valori culturali. Mentre i conservatori sono l’opposto: pensano di stare perdendo perché perdono sulla cultura e dimenticano che stanno vincendo nell’economia, a cui attribuiscono un po’ meno importanza.
Così ognuno pensa di stare perdendo perché perde ciò che desidera di più. Ma se uno guarda a queste due cose, l’economia e la cultura, risalgono ai due diritti di Locke: l’economia con la proprietà privata e la cultura con la tolleranza. Penso che siamo ancora dentro al mantra liberale. Dovremmo tenercelo stretto e, secondo me, lo faremmo un po’ di più se lo capissimo meglio.
Perché ritiene che il movimento conservatore americano, che è sempre stato diverso dalla destra europea e specialmente dall’estrema destra europea per il suo impegno con il liberalismo, stia ora iniziando a mettere in discussione tale impegno, sia nell’ambito intellettuale con persone come Patrick Deneen, ma anche - dico io e sono curioso di sapere se è d’accordo - nella sfera politica da persone come Donald Trump?
Trump forse è un caso particolare. Considero Trump un demagogo. In sostanza non credo che sia un uomo di profonde convinzioni, ma che sia un uomo con un desiderio di essere amato. La definizione classica di demagogo è di una persona che vuole essere amata. Non gli importa da chi: finchè lo ami, ti ricambia. Se non lo fai, allora non gli piaci o addirittura ti odia. Questo politicamente è neutrale. Penso che sia il caso di Trump: ha avuto l’opportunità di far cambiare rotta al partito repubblicano, ma sarebbe potuto essere il partito democratico. Pertanto, attribuirgli una serie di principi significa cercare la permanenza in una cosa che è piuttosto contingente.
Quando si temeva che Trump stesse giocando a “scacchi tridimensionali” Garry Kasparov rispose con ira: “Lui gioca a dama!” Lei sembra suggerire che onorare Trump come oppositore del liberalismo sia dargli troppa coerenza ideologica.
Sì, è un uomo volgare. In sostanza credo che sia questo a definirlo. E ci ricorda anche quanto sia volgare la democrazia. La democrazia non è di per sé raffinata o colta: è questo che viene dal liberalismo, e cioè la possibilità che la democrazia offre di dare spazio a individui intelligenti, artistici ed economici che riescono a realizzarsi. Trump è proprio un vivido promemoria della volgarità popolare. E non dovremmo esitare a usare la parola “volgare”. Perché è ficcante. Trump è quindi in un certo senso più democratico di noi. È più autoritario, il che significa arbitrario o stravagante, che cambia idea e insiste nel farlo. È più autoritario, ma è proprio così la democrazia, quando non è moderata e intenzionale dalle costituzioni. È dunque la parte inferiore del nostro sistema. Proprio il tipo di nemico contro il quale eravamo stati messi in guardia fin dall’inizio.
Non è poi così nuovo, direi. Ha infatti avuto questa opportunità grazie alle primarie. Ecco perché, se avessimo scelto i nostri candidati alla presidenza nelle convention e nelle stanze dei bottoni, come si faceva una volta, non si sarebbero ritrovati con Donald Trump. È una specie di conseguenza, se vogliamo dirlo così, della crescente democratizzazione del nostro paese, ed è una cosa di cui credo ci si debba davvero preoccupare: l’aumento della democratizzazione, che significa dimenticare che esiste la tirannia della maggioranza.
Condivido la tesi che le primarie, così come si svolgono negli Stati Uniti, sono un sistema imperfetto. Con le primarie siamo in un mondo intermedio molto pericoloso, in cui finiscono per vincere i partecipanti più motivati, i più estremisti politicamente. C’è comunque qualcosa di paradossale in quello che dice, perché la sua preoccupazione è per la troppa democrazia in un momento in cui tanti, e a buon ragione, si preoccupano di come Trump possa costituire un attacco alla democrazia liberale e alla costituzione.
Il problema è che troppa democrazia conduce a un attacco al liberalismo, o che troppa democrazia, quando si spinge piuttosto oltre, può effettivamente minare i presupposti della sua stessa esistenza?
Troppa democrazia mina la democrazia. La democrazia funziona bene quando ha dei limiti o quando il potere democratico è costretto a rallentare, pensare, discutere e deliberare, lascia passare un certo periodo di tempo, e poi prende una decisione.
Il governo del popolo richiede che il potere del popolo sia limitato, diffuso, qualificato e argomentato. Questo è il pericolo della democratizzazione. E Trump è un pericolo perché attacca le nostre norme e convenzioni e va direttamente alle persone: è quello che fa con i suoi tweet, le sue manifestazioni e con il modo in cui ha condotto la sua presidenza, costringendo tutti a parlare di lui e a vederlo ogni giorno.
Ha esaurito la sua accoglienza. Questo è certo. E ha perso. Perdere è stata l’unica cosa che non poteva tollerare. Ha attaccato John McCain chiamandolo perdente. E ora lui stesso finisce per essere un perdente: non lo sopporta. Non ha saputo perdere. E la cosa peggiore che ha fatto è arrivata dopo aver perso le elezioni, e cioè quella di incitare alla rivolta del 6 gennaio, o all’insurrezione, chiamiamola come vogliamo. Sono un repubblicano, e tutte le politiche seguite da Trump non mi sono dispiaciute quanto sono dispiaciute ai liberali. Ma ho temuto che durante il suo mandato accadesse qualcosa di simile a quanto accaduto il 6 gennaio, quando il risultato sarebbe stato peggiore. Non è successo. I democratici hanno fatto del loro meglio per fare l’impeachment e resistergli. Ma lui è sopravvissuto fino a quando non ha perso le elezioni, questo credo che sia il verdetto su di lui. Tuttavia i suoi sostenitori sembrano essere molto difficili da convincere del contrario.
Perchè cresce questa sfiducia, o rivolta, nei confronti del liberalismo filosofico nei circoli intellettuali dei conservatori?
Trump è stato un’esplosione per i conservatori. Non sapevano come gestirlo. I miei ex studenti vanno dai Never Trumper come Bill Kristol ai Trumpisti come Charles Kesler a Claremont. Io cerco di restare in contatto con tutti, come una chioccia, ma tanti sono tipi ribelli. Io stesso non so bene cosa fare. Penso che ci siano molte diverse possibili reazioni a Trump e mi addolora che persone con reazioni diverse si arrabbino così tanto l’una con l’altra, invece che con la causa - in Trump - e anche chi ne beneficia - nei democratici. I democratici, da quando Biden è stato eletto, non si sono dimostrati così forti per usare un eufemismo.
Trump è un problema e una minaccia. Pare essere tanto contrario quanto favorevole al conservatorismo. Come dicevo prima, si oppone alle convenzioni. È contro la moralità e il decoro, userò questa parola. La cosa che più gli manca è il senso del decoro, di ciò che è appropriato. E i conservatori vivono di questo, di decoro, indossano le cravatte e così via, cercando di comportarsi bene e cercando di mantenere la propria dignità. Penso che questo sia il modo in cui i conservatori esprimono il loro sostegno alla libertà.
Non avevo pensato alla dignità in questi termini. Dignità è un termine che nella storia ha un certo seguito a sinistra. Si dice infatti che varie forme di capitalismo siano contrarie alla dignità degli individui; ci sono tentativi di usare il termine “dignità” per giustificare aspetti dello stato sociale, e così via. Poi come lei dice, ovviamente, c’è un concetto più conservatore, che è radicato nel cristianesimo, che include anche un insieme di norme e aspettative su come le persone agiscono. È interessante che Trump attacchi la dignità in entrambe queste forme.
Esatto. Le forme e le formalità. Questo è un tema di Tocqueville ed è molto importante. È vero che il nostro paese, l’America, è sempre un paese del “posso fare”, il che significa che vuole sempre trovare la scorciatoia. Ma siamo anche un paese del giusto processo, che significa che una cosa va fatta nel modo giusto. A Trump manca totalmente il senso del giusto processo. E questa è una forma di dignità. Il giusto processo dà forma legale ai diritti. Avere diritti significa avere dignità. Quindi, in questo modo, i democratici hanno ragione sul fatto che c’è una sorta di dignità intrinseca a un essere umano. La loro [idea di] inclusività caratterizza questa importanza della dignità.
C’è un consiglio che vuole dare ai democratici, su come conquistare nuovi elettori o conservare quelli che hanno?
Devono diffidare di più dei progressisti nel loro stesso partito. Possono rimanere progressisti, per quanto irrazionale possa essere, ma non devono pensare di avere una presa permanente sulle persone a cui si rivolgono. Il progressismo ha un difetto: che non riesce a concepire la reversibilità; [postula] che il progresso sia irreversibile. Uso l’esempio di Obama nell’introdurre l’Affordable Care Act. Disse: “Non sono il primo presidente ad aver affrontato il problema dell’assistenza sanitaria, ma voglio essere l’ultimo”. I progressisti hanno in sé questo tipo di graduale restringimento della politica, secondo cui si risolvono una questione dopo l’altra, e questo si chiama progresso. Questo significa che possono tollerare di tornare indietro, la reazione. Ecco perché penso che i progressisti siano meno tolleranti dei conservatori. I conservatori sanno che non sconfiggeranno mai i progressisti, che ci saranno sempre persone attratte da quel punto di vista, per quanto irragionevole possa sembrare.
Ciononostante le persone non sono del tutto ragionevoli, e specialmente quelle che affermano di agire esclusivamente secondo ragione. Quindi i democratici dovrebbero abbracciare un progresso aperto alla possibilità di essere reversibile, di essere rovesciato. Si fa in modo che sempre più questioni siano decise dalla costituzione, quindi dalla Corte Suprema, per evitare che siano messe in discussione o dibattute dopo essere state approvate. Penso che ci guadagnerebbero di più da una maggiore apertura mentale, o libertà di credo, o fiducia nel fatto che il popolo americano nel tempo saprà scegliere abbastanza bene.
Mi fa piacere che abbia citato Alexis de Tocqueville perché lei è uno dei più rinomati interpreti e traduttori di Tocqueville al mondo. Mi sembra che La democrazia in America sia un testo che gli americani amano citare e mettere in libreria, ma che spesso non hanno letto.
Quali idee in Tocqueville pensa che ci possano aiutare a capire il paese in cui viviamo?
Ha ragione. Tocqueville dovrebbe essere la Bibbia della democrazia americana. Amo dire che è il migliore libro sull’America e il miglior libro sulla democrazia, ed è sulla democrazia in America. Una parte tratta della natura della democrazia - la sua teoria, e come si applica nelle varie situazioni - e una parte riguarda la sua speciale condizione in America. Quindi non è solo un quadro formale o teoretico, ma dà anche una sua visione pratica.
Possiamo iniziare dalla tirannia della maggioranza: qui Tocqueville è d’accordo con i fondatori americani. Ma lo preoccupa che questa si estenda alla mente. Quindi dice che l’America è un paese con pochissima libertà della mente. È un terribile difetto e rischio. E avviene perché la democrazia concentra le persone su ciò che è presente e immediato e, quindi, anche su ciò che è materiale. Ma per costruire qualcosa di valore duraturo, devi essere in grado di controllarti, mettere da parte la tua personalità. Guardiamo alle cattedrali costruite in Europa, costruite nel corso dei secoli: saremmo noi in grado di costruire una cosa del genere? Riusciremo a riparare la cattedrale di Notre Dame a Parigi, avremo la pazienza e l’energia di fare qualcosa che richiede molto tempo? A volte nella democrazia americana questo si vede, ma la maggior parte delle volte no. Il materialismo è uno dei principali rischi intellettuali della democrazia. E ci vuole molta riflessione per guardare più in là, oltre a ciò che è davanti a noi.
Ciò significa anche che gli intellettuali sono diventati una sorta di pericolo per la democrazia. Gli intellettuali democratici non credono nella mente, o nel potere della mente. Ma credono nelle grandiose teorie dei movimenti materiali, dei movimenti, delle cause su larga scala che superano le realizzazioni individuali, i pensieri o la filosofia. Quindi, la filosofia si democratizza. E questo va di pari passo con l’ulteriore attacco alla mente. Oggi vediamo questo meraviglioso paradosso per cui gli intellettuali democratici vogliono più democrazia di quanto ne voglia il popolo americano, che non è intellettuale. Parlano per il popolo e chiedono riforme a cui il popolo stesso non ha pensato o che non chiede o a cui non importerebbe affatto se non fosse per gli intellettuali che le impongono. Ciò significa che le associazioni intermedie tra il governo, o gli intellettuali, e il popolo, si svuotano e si indeboliscono, così che un popolo democratico corre il pericolo di ciò che Tocqueville chiamava individualismo, il ripiegarsi sui propri mezzi, sugli amici intimi e la propria famiglia, nella convinzione che non c’è nulla che si possa fare per influenzare la società o la politica nel suo insieme.
La politica così perde il suo senso di risultato, realizzazione e potere potenziale. E questo significa sistemarsi in una specie di burocrazia centralizzata in cui il governo fa tutto: ti risolve il dolore della vita, dice Tocqueville. Vive al tuo posto. Ciò è aiutato dalla tecnologia moderna: ad esempio, i servizi igienici che scaricano automaticamente. Anche questo compito elementare di smaltire i tuoi effluvi ti viene tolto. Lo vediamo con il grande avanzamento della burocrazia nelle università e, durante la pandemia, in tutti i modi in cui le nostre vite sono pianificate per noi, con esperti che ci mostrano come, non perché, obbedire alle diverse, e non come agire per conto proprio.
Mi chiedo però se il rapporto tra intellettuali, burocrazia e popolo non sia cambiato. Se si guarda agli inizi della democrazia - e ho studiato gli inizi della democrazia in parte a lezione da lei, quindi sono molto consapevole di stare parlando di cose che lei conosce molto bene - i problemi principali sembrano essere che gli intellettuali si sentono minacciati dall’impulso democratico. Gli intellettuali dell’antica Atene sentivano che la loro capacità di riflettere sul mondo era minacciata dall’istinto egalitario del cittadino comune. E così per molto tempo, soprattutto per i conservatori, il timore era che in una democrazia il popolo usasse la burocrazia per punire o uccidere gli intellettuali, e noi dobbiamo trovare il modo di preservare la loro libertà di pensiero.
Mi colpisce, guardando gli Stati Uniti oggi, che la situazione sembra essere un po’ diversa. Gli intellettuali che provengono da una classe sociale più elevata in passato tendevano ad essere conservatori. Ma oggi, quanto più uno è istruito e più alta è la sua classe sociale, tanto più tenderà a essere di sinistra e a riempire gli organici della burocrazia con persone con quelle idee. Non direbbe che oggi abbiamo una specie di situazione inversa?
Sì, nell’antica Atene c’erano filosofi che si contentavano di lasciare il governo ai signori, con alcuni poteri conferiti anche al popolo. Ma quel modo di pensare alla filosofia è stato sostituito dall’idea che la filosofia dovrebbe avere un progetto preciso e dovrebbe cercare di illuminare la gente comune. Questo è il periodo chiamato Illuminismo.
Non credo sia una novità che gli intellettuali siano di sinistra. Questa secondo me è l’immagine della modernità. Se sinistra significa essere per il progresso, e progresso significa progresso nella libertà e nella scienza, questo è per la maggior parte a sinistra. La combinazione di Locke di liberalismo economico e liberalismo intellettuale è finita per essere attaccata. Così gli intellettuali non erano più alleati o amici degli uomini d’affari, ma sono diventati nemici. Questo accade con Rousseau. L’idea di tenere insieme le due correnti sociali del liberalismo, cioè la proprietà privata e la tolleranza, si perde. Oggi abbiamo per lo più intellettuali progressisti. Ci sono alcuni intellettuali conservatori che reagiscono contro i progressisti e vogliono anche illuminare il popolo, a modo loro.
È sorprendente che la gamma di argomenti nelle università sia molto più ristretta che nell’intera società americana. A mio avviso è una cosa molto pericolosa, più per le università che per la società americana. Le università sono il luogo da cui provengono i nostri esperti e, dovrebbero essere il luogo della nostra apertura mentale. Ma hanno smesso di essere di mentalità aperta. È un problema reale e sta peggiorando sempre di più. Direi che la cultura woke caratterizza all’incirca l’ultimo decennio. Negli ultimi dieci anni direi inoltre che ci sia stato anche un vero cambiamento verso l’intolleranza aggressiva nelle università.
Intende con questo che le università non saranno all’altezza della loro missione nel senso più ampio, o che questo in realtà minerà le loro basi di sostegno finanziario e sociale?
Direi entrambe le cose; è un male per l’università perché ha smesso di cercare la verità e ha incominciato a indottrinare. Ed è un pericolo per loro perché stanno correndo un rischio pazzesco – totalmente inutile, a mio avviso – a schierarsi a tal punto. Lavoro a Harvard. Harvard è ormai sinonimo di intolleranza e di liberalismo folle.
Harvard si comporta pubblicamente come se fosse uno strumento del partito democratico: il suo discorso inaugurale, le persone che invita, i professori che assume. Attrae derisione e ostilità solo per non riuscire a sembrare un po’ più imparziale. Per rendere l’università di mentalità aperta, non è necessario un numero uguale di liberali e conservatori, solo pochi conservatori. Harvard non ha assunto un solo professore conservatore... Non so, di certo nell’ultimo decennio in nessun campo. Quindi penso che sia una provocazione non necessaria che fa male in entrambi i casi, sia intellettualmente che politicamente.
Lei è stato allievo in parte di Leo Strauss e c’è un modo di pensare ai testi e di interpretare i testi secondo la tradizione straussiana, che quando ero in università non credo di avere compreso pienamente. Non sono certo che l’avessi in simpatia, e semplificando grossolanamente (mi correggerà se sbaglio) l’idea è che si deve presupporre che se qualcuno aveva qualcosa di valore da dire nel passato, quella cosa era probabilmente molto impopolare nel suo tempo. E quindi i testi vanno letti con molta attenzione e un po’ in controluce per scoprire cosa si stesse effettivamente dicendo e pensando.
Come consiglierebbe ai lettori di leggere i testi in modo da essere aiutati a scoprire intuizioni sorprendenti?
La filosofia fa domande. La politica richiede risposte. Se la filosofia fa le domande, le domande più difficili e spesso più interessanti sono quelle sovversive. Cioè sono quelle che mettono in discussione le amate credenze delle persone tra le quali vivono quei filosofi. Quindi la filosofia deve essere intesa come qualcosa di intrinsecamente e necessariamente sovversivo. Vuole mettere in discussione le questioni che la maggior parte delle persone e la società chiedono che siano risolte. È dunque un’occupazione pericolosa. E i filosofi hanno affrontato questa difficoltà rivolgendosi ad altri filosofi in modo cauto e rivolgendosi alle persone tra le quali vivevano in un modo più ironico.
Prendiamo Socrate, che cerca di difendere il suo filosofare dalle accuse di corruzione delle persone e dei giovani, e per il fatto che allontana le persone dal credere negli dei. Socrate cerca di spiegare quello che fa, il suo porre quesiti, dicendo di aver consultato l’Oracolo di Delfi. L’Oracolo di Delfi gli aveva detto che era il più saggio di tutti gli uomini e lui non gli aveva creduto. Così era andato in giro a chiedere se qualcun altro fosse più saggio, e non aveva trovato nessuno che lo fosse. Che lui davvero pensasse che l’Oracolo di Delfi avesse detto questo è difficile da credere. È una specie di finzione: aveva bisogno di dare un’aura divina al suo filosofare. Quindi, non si poteva dire che fosse contro gli dèi, perché era stato un dio a dirgli che doveva andare in giro e fare domande. È un esempio paradigmatico del modo in cui i filosofi raccontano menzogne per proteggersi e per insegnare alla gente.
Leo Strauss era un rifugiato ebreo tedesco che venne in America per sfuggire a Hitler. E scoprì che i filosofi prima del diciannovesimo secolo dovevano fare pratica di quel tipo di discorso, il doppio discorso, una sorta di copertura protettiva dell’essenziale - non tanto delle verità, quanto delle domande - che stanno sotto la superficie. E ha potuto dimostrare, credo, con molti dei suoi studi che questa era caratteristica degli antichi, dei medievali e dei moderni, fino a un certo punto del diciannovesimo secolo, quando la storia venne alla ribalta e le persone cominciarono a pensare che ogni affermazione di un filosofo fosse un riflesso della storia del suo tempo, più che una riflessione nel senso di mettere in discussione il pensiero del suo tempo.
Quindi tutti i filosofi sono sovversivi, e tutti raccontano bugie, fino al diciannovesimo secolo. Ci si avvicina a un testo con questa aspettativa. Chi segue Strauss è spesso accusato di ingegno perverso, perché guarda sempre cosa ci sta dietro. Questo è un difetto caratteristico di quelli che, come me, sono chiamati straussiani. Quindi non si traduce in un -ismo, quanto in un punto di vista o in un approccio.
Abbiamo parlato del presente e del passato, quindi suppongo che ci sia rimasto solo di discutere del futuro. Come pensa che sarà il futuro del conservatorismo americano, in particolare, come movimento politico? Lei pensi che la sua attuale divergenza o indifferenza nei confronti del liberalismo filosofico diventerà un tratto permanente?
Non lo so. Non sono un veggente. Queste cose sono anche mosse dal caso. Quello che posso dire è che ci sono ragioni per vedere sia una continuazione del trumpismo - se è un -ismo - o del comportamento trumpiano, sia per metterlo da parte o per metterlo a tacere. Penso che un segnale di speranza venga dalla recente elezione in Virginia del governatore Youngkin, il candidato repubblicano che penso abbia fatto un buon lavoro per tenere Trump a debita distanza, non rendendo i suoi elettori ostili, ma anche chiarendo che non era un’estensione di Trump o un suo adepto. Se i repubblicani seguiranno il suo esempio, miglioreranno, ma non sono sicuro che lo faranno. Non sappiamo inoltre che cosa lo stesso Trump farà, il che potrebbe influenzare notevolmente le cose, o forse no. Potrebbe anche semplicemente svanire. E potrebbe scoprire che il suo fascino è molto inferiore a quello di una volta. Per ora, non credo che ci sia una risposta chiara.
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