Mentre tutto brucia, primo romanzo di Paulina Spiechowicz pubblicato a gennaio da Nutrimenti nella collana Greenwich Extra, è un esordio che per densità e maturità non sembra tale.

Mentre tutto brucia è la storia di Beatrice e Kamil, adolescenti italo-polacchi negli anni Novanta. Lei ha sedici anni e lui è di poco più grande. Kamil vuole lasciare la casa di Varsavia dove il padre vive con la nuova moglie e un figlio appena nato. Vuole tornare in Italia e stare con la madre Viola e gli amici del suo “branco”. Vuole parlare in italiano – anzi in vernacolo – e dimenticare il polacco. Beatrice porta gli anfibi e il rossetto nero, va incontro alla crescita con slancio e sospetto, vuole scrivere, vuole leggere, vuole capire cosa vuole.

Arrivati a Ostia per trascorrere l’estate, Kamil e Beatrice tornano a prendere confidenza con la grande villa con piscina della madre, perché Viola lancia i posaceneri ed è sempre sull’orlo della ricaduta nelle dipendenze, ma è anche ricca, molto ricca. Beatrice e Kamil sono il frutto dell’amore marcito tra Witold (rifugiato, intellettuale, austero) e Viola (eccentrica, tormentata, proprietaria di un ristorante vista mare).

Kamil e Beatrice sembrano crescere e trasformarsi di ora in ora e fuori dalla villa si muovono dove «il mare era di colla», mentre «a Ostia tutto sembrava imbevuto, frastornato dalla luce, nell’estate che stava per avere inizio». 

È uno di quegli anni in cui in televisione si agitano le ragazze di Non è la Rai e nelle cuffie cantano le Hole così come gli Ace of Base, in una costante oscillazione culturale e mentale tra underground e pop. Sullo sfondo, quel mare fatto di colla non è altro che la carta moschicida in cui ogni adolescente può – e non di rado desidera – trovarsi invischiato.

Margini e voragini

Si può abitare un universo apparentemente piccolo come quello di una provincia fatta di assenza e di privazioni (perché dove non sono materiali sono affettive, emotive, spirituali) con l’energia di chi arde al punto da bruciare tutto?

Spiechowicz narra che è possibile e non lo fa solo attraverso le vicende di Beatrice e Kamil, ma anche attraverso quelle di Nico, Ludovica, Pawel e di tutte le ragazze e i ragazzi che brulicano a ridosso di quel mare appiccicoso. Giovani, giovanissimi. Alcuni poveri, poverissimi. Altri smaccatamente benestanti. Come sempre accade in una società che incrudelisce e in cui la forbice della disparità di censo si allarga a dismisura, nel mezzo c’è una voragine. Ma le ragazze e i ragazzi di Mentre tutto brucia, anziché stare al limite dei rispettivi margini e confini, in quella voragine si buttano e in fondo a quell’abisso si incontrano.

Nell’abisso assolato di un’estate sul litorale romano le ragazze e i ragazzi si parlano e negoziano i codici che servono a comunicare chi sono e che cosa vogliono. Il dialetto di Kamil è la lingua ostinata di chi vuole forgiarsi un’appartenenza inattaccabile che chiuda i ponti con la terra di suo padre. L’italiano ordinato di Beatrice, che conosce e nomina poeti e scrittori polacchi è più poroso. Così mentre lei muta muta anche il suo linguaggio, e di giorno in giorno slitta dolcemente tra le braccia della parlata locale in un perenne movimento di avvicinamento e allontanamento dal fratello che la protegge ma anche controlla, dalla madre che la respinge, dal padre lontano, dalla nuova amica e dai nuovi amori.

In Mentre tutto brucia la lingua è centrale come la sabbia attaccata ai corpi dei suoi protagonisti, la lingua viva dei vivi con i suoi cambi di registro e di tono, dove tutto è controllato dall’autrice e niente è finto perché niente tradisce il patto di verosimiglianza.

Le braci del pregiudizio

Tra gli elementi che al tempo stesso uniscono e separano la variegata umanità di Mentre tutto brucia c’è proprio la marginalità strisciante di Beatrice e Kamil, perché insieme alla villa con piscina (il privilegio bramato e invidiato) c’è anche l’appartenenza a una cultura e a una lingua sempre percepite come diverse, aliene. Questo fratello e questa sorella, con la loro carne di personaggi, ci dicono che quando le braci del pregiudizio sono ancora così calde potrai pure diventare ricco, ma rimarrai sempre un corpo estraneo, un profugo, un invasore e la tua origine sarà l’arma retorica per, all’occorrenza, rimetterti al tuo posto. Kamil e Beatrice paiono sempre destinati a essere corpi estranei e irresistibili per tutti, anche per Nico, che è appena uscito dal carcere e con la sua parabola sembra gridare che il cambiamento non esiste in una società che lascia le persone a provare vanamente a salvarsi da sole. Che se il “se vuoi puoi” è la favola preferita dai potenti che banchettano sulla miseria altrui, allora forse conviene inventarsi una favola nuova in cui il potente che schiaccia qualcuno di ancora più debole, una volta tanto, sei tu.

Il mare è di colla perché di colla è la vita degli esseri umani che attraversano le spiagge e le fabbriche dismesse, i locali alla moda e i campi profughi, i bungalow e le ville immacolate.

Il trauma

Del romanzo di esordio di Paulina Spiechowicz, uscito in questo 2025 appena iniziato all’insegna della violenza globale, del sopruso, dei muri alzati, del rigetto dell’altro, del disprezzo per il futuro e dunque del disprezzo per le anime giovani di questa terra si potrà dire che è un romanzo locale (Ostia, il Lazio) e generazionale (i giovani degli anni Novanta, quelli che vivevano le prime avvisaglie del disagio poi esploso, con la fine del sogno del boom economico, tra le mani di Millennial e Gen Z) e queste affermazioni sarebbero vere ma, come spesso accade in letteratura, anche false. Perché il romanzo d’esordio di Paulina Spiechowicz racconta la storia eterna del trauma della crescita, del conflitto di classe e di quello tra culture dominanti e culture migranti. Battaglie ancora più crudeli quando si consumano tra adolescenti che bruciano incontrandosi in una voragine.

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