Ha oscillato tra gli estremi selvaggi sentimenti del calcio riuscendo a rimanere in equilibrio. Perché Bruno Pizzul era la voce della sobrietà: sussurrava i gol, non li urlava; accompagnava gli eventi, non si sovrapponeva; riuscendo a tenere insieme il mondo algido del nord e quello caldo del sud. Un confine. Una trincea. Era carveriano senza saperlo, a cominciare dal cognome troncato come quasi tutti i friulani. Un racconto breve. Uno che quando Roberto Baggio sbagliò il rigore a Pasadena contro il Brasile disse solo: «Alto». E poi aggiunse che il campionato del mondo era finito con la vittoria del Brasile.

Asciutto. Pulito. Un pallone calciato in tribuna. Anche perché c’era troppo sole e non la luna come a Napoli dopo la semifinale persa dall’Italia contro l’Argentina, sempre sui rigori, che tirò fuori la sua vena leopardiana: canto notturno di un narratore errante. Gli veniva facile: aveva fatto il classico, insegnato italiano alle medie, si era laureato in giurisprudenza, riuscendo anche a giocare in B col Catania e in C con l’Ischia prima di chiudere con l’Udinese: incrociando tiri e silenzi con Dino Zoff. Uno degli ultimi della stirpe friulana e giuliana con Bearzot, Blason, Toros, i fratelli Orzan, Rocco, i Maldini, Capello, Reja, Delneri.

Tutto era cominciato nella sua Cormons dove c’era un solo pallone, pure scucito, ma che univa, facendo dimenticare l’odio e le divisioni. Era quella la comunione degli intenti, come la terra per i contadini friulani. Aveva marcato Omar Sivori – lui che poteva essere un John Charles col Friuli a fare da Galles – e amato la genialità di uno Schiaffino; si sarebbe innamorato di Gianni Rivera rimanendo amante anche quando non segnava più e Jannacci lo diceva; avrebbe commentato con Suarez l’egolatria dei nuovi calciatori ma senza rimpianto, con una ironia amara tra un bicchiere e l’altro, lui che di vigne e vino ne parlava in friulano con Bearzot convincendo tutti quelli intorno che chissà quali segreti tattici si stessero passando, invece era solo nostalgia.

Un uccello, un fiume, un albero

Aveva un nome da uccello: il Pizzul, che vola prevalentemente sugli stadi, si appollaia in tribuna e canta le gesta degli uomini che in basso sulla terra corrono e cercano di segnare. Una sorta di condor con la voce graffiante che è stata la didascalia – mai banale – di tutto quello che avveniva sui campi e prima sugli spalti come quando gli toccò commentare i morti dell’Heysel, 39, cucendo il dolore e l’attesa, «Ora ho una notizia che devo dare», sopportando anche l’incombenza di dover raccontare una partita che no, non si sarebbe dovuta giocare. Si giocò, e lui riuscì, stando in bilico, con le lacrime di cui mai disse, a portarla a termine.

Il Pizzul potrebbe anche essere un fiume, uno dei tanti che hanno visto il sangue e il dolore delle guerre e le contrapposizioni: sponde di terre diverse che non si parlano ma si sparano e poi col tempo divenute squadre che per fortuna al massimo si mandano a quel paese scalciando e spintonandosi mentre corrono dietro un pallone. Affluente che sfociava in Rai come gli altri due grandi fiumi: il Carosio e il Martellini. Scorreva calmo e placido il Pizzul anche quando c’erano temporali di sconfitte. E tante ne ha viste della Nazionale, dopo l’82, non riuscendo a cantarne i trionfi. Poco importa, per uno così alto e distante.

Un metro e novanta di voce e parole che come pezzi del tetris si sono infilate nelle orecchie degli italiani trovando sempre la giusta geometria per dire della sconfitta. Molto più difficile e forse per questo è stato molto amato. Facile urlare sul gol di Fabio Grosso, difficile punteggiare il crollo di Baggio, o un golden gol che ti ruba l’Europeo, dopo aver visto Francesco Totti cucchiaiare Edwin van der Sar e Francesco Toldo parare di tutto contro l’Olanda, tatuandosi come stupore di Pelé, uno al quale Pizzul aveva chiesto chi avrebbe vinto la finale del 1970 a Città del Messico incassando un incipit da romanzo distopico: «Non conosco molto il vostro campionato, ma la vittoria è vostra. Se tenete fuori uno come Rivera, vuol dire che ne avete dieci superiori a lui. Quindi non c’è match».

Poteva essere anche un albero, il Pizzul, con tanti frutti, nel giardino dell’esattezza, dove si impara a non sprecare le parole e a non perdersi. E sotto la sua ombra sono arrivati tutti i successi europei dei club italiani: dal Napoli di Maradona al Milan di Sacchi passando per la Sampdoria di Vialli e Mancini. C’era sempre il Pizzul con la sua vocazione all’eleganza, al soffio, al sussurro. Tutta la sua esagerazione si esauriva in un «francamente» come Rhett Bluter di Via col vento, e che pur avendo frequentato l’Europa che parla difficile quando piove non usava inglesismi, che pur avendo passato mesi sotto le nuvole del Messico non ci metteva la garra, al massimo aggiungeva che era «tutto molto bello», perché è stato un cuore allegro, dovendo dividere la sua stanza in Rai a Milano con Beppe Viola, come stare in area con Eraldo Pecci, finisci a dover marcare le loro battute, e impari ad apprezzare tutto, anche gli zero a zero.

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Gli inizi

Con Viola oltre la stanza divise l’emozione della sua prima telecronaca – per fortuna in differita – una partita di Coppa Italia, a Como: Juventus-Bologna dove arrivò in ritardo a causa dell’eccessiva preparazione tattica a tavola. Perché Pizzul apparteneva al giornalismo che aveva bisogno del piatto per dire del pallone e del bicchiere per dire dello schema tattico, trovandosi a giocare con Gianni Brera, uno difficile da marcare anche per lui: «Centromediano metodista. Giocavamo con il WM, io ero il perno centrale dietro, marcavo il centravanti. Adesso in tv si esaltano per un tre contro tre, io mi trovavo sempre tre contro uno».

Erano altri tempi, altri uomini, altro calcio. Ma Pizzul non ne ha fatto un gospel del lamento, anzi, è uscito di lato ed è tornato a casa. Uscito da una macelleria per raggiungere il campo come era successo a Nereo Rocco, strappato alla scuola da Paolo Valenti, dopo «o mundo», ha scartato di lato e ri-scelto l’osteria, specialità scopa d’assi. La variante milanese dello scopone scientifico: dieci carte in mano, si gioca a coppie e l’asso prende tutto. Strategia, arguzia, parole e qualche bicchiere. Niente più sigarette, lui che ne ha fumate tante e molte in faccia a Boninsegna.

Il lessico

Aveva le tasche piene di parole Pizzul, ma le tirava fuori con parsimonia, centellinandole, così una sera tirò fuori uno «sciabordio», appoggiandolo sulla notte di calcio. I colpi di tacco erano «finezze», la precisione «certosina», c’erano «gli angolini», e prima si «convergeva», per gli errori il verbo era «svirgolare», il cross era «un traversone» e il tiro forte «una sventola», e se la palla usciva «andava fuori per destinazione».

Tore Andre Flo, calciatore norvegese, nella sua bocca divenne solo uno «spauracchio» con l’aiuto di Pagliuca, insieme avevano smentito la narrazione degli altri, che facevano di Flo un Ronaldo. Era tutta di sottrazione la sua lingua, con sorrisi e giusta misura, mentre si provava a dire che odore avesse la storia. Un solo aggettivo, quello giusto. Un solo verbo e sempre di movimento. Un solo complimento, eventuale. Il resto era architrave, la Pizzul, che reggeva da solo la partita. Ma la sua voce non fu mai di solitudine. Era di coscienza, quella di chi fa un lavoro da privilegiato e si diverte pure. Che si gode da vicino campioni e partite. Con un bicchiere di whisky sempre di fianco, «così quando pronuncerai qualche stupidaggine potranno dire che avevi bevuto», teorema di Nicolò Carosio.

Se le ha dette non ce le ricordiamo. Perché Pizzul conosceva quello che raccontava, sapeva che «il problema di girarsi» non era solo una semplificazione delle marcature ma un modo di stare al mondo, che non a caso è tondo. Cattolico, apostolico ed eretico a Göteborg – secondo la visione di Enrico Ameri perché stava andando a messa in una chiesa di culto protestante – era immune alla mitologia, non riusciva ad esaltare, perché incapace di adorare, il suo è stato un vangelo di Luca: raffinato, greco, funzionale alle gesta. Era nato nello stesso palazzo di Tina Modotti forse per questo sapeva mettere a fuoco gli eventi, sapeva distinguere le storie, trovando l’unico dettaglio che serviva. Perché il racconto è continuità cromatica, ritmo, sguardo. E Bruno Pizzul sapeva passare dalle formule al concreto senza esotismi esibitivi. Restava una linea di confine. Un mondo che guarda a un altro mondo e lo racconta con una bava di vento, sfumando.

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