Lo scrittore figlio del fiume Po aveva una naturalezza nell’assegnare nomi e soprannomi a gesti nuovi e nuovi campioni. Ha inventato libero, centrocampista, rifinitore, goleador. Parole che avevano un immaginario e un mondo. Le innovazioni di oggi vengono da Coverciano (sottopunta, braccetti) o dall’inglese. Ma per costruire una lingua ci vuole una terra
Molti anni fa, quando non tutto nel calcio aveva un nome, ma si viveva di un vocabolario essenziale, Gianni Brera era il verbo e in una delle tante interviste che la Rai gli faceva, si lamentava di essere costretto a usare «tackle» perché «contrasto», per quanto migliore, non lo soddisfaceva.
Adesso che quasi tutto quello che ha un nome nel calcio in lingua italiana è nato da Brera e che cominciano anche ad affacciarsi nuovi nomi per azioni e ruoli e tattiche, viene da chiedersi: ma Brera che male c’ha fatto?
Perché, spesso, le parole che entrano in questo secondo tempo linguistico non sono all’altezza delle titolari che han giocato fino ad ora, qualcuna è persino derivata da Gioânnbrerafucarlo, come «seconde palle» che discende da «palla gol», e per questo si salva. Ma per il resto sono bruttine. «Un dettaglio è un mondo spesso senza confini» scriveva Aldo Busi e descrive benissimo quello che sta accadendo. È un dettaglio questo aggiornamento, eppure genera deserti di fantasia.
Brera era un grande scrittore perché battezzava o ribattezzava il campo e i suoi attori, le situazioni pallonare e i movimenti con una dimestichezza e una storia che subito diventavano correnti entrando nel parlato dei radiotelecronisti e nelle pagine dei giornali. Perché Brera era un generatore di nuovi termini, una vera e propria zecca calcistica delle parole del pallone. Un talento a parte. Per dire il romanzo migliore sul calcio italiano non l’ha scritto Brera, ma Giovanni Arpino, con una lingua bellissima, eppure senza Brera non avremmo avuto Azzurro tenebra.
Lo scrittore figlio del fiume Po aveva una naturalezza nell’assegnare i nomi e anche le radici – ogni sua parola aveva un racconto, un rimando, un eroe, una situazione analoga con agganci greci e latini e se non c’erano li inventava all’impronta con una credibilità biblica – tanto da poter essere indicato come il patriarca del gergo calcistico.
I neologismi
E ancora non basta, perché i nomi che assegnava Brera: suonavano. C’era melodia, tanto che per trovare un suo simile fuori dal campo bisogna scomodare il poeta Gabriele D’Annunzio o il neologista tramaiolo Carlo Emilio Gadda. Per chi non c’era o si fosse distratto ecco parte del catalogo breriano: centrocampista, cursore, goleador, libero, rifinitore, euclideo; e poi i verbi disimpegnare, incornare, uccellare, forcing, melina, pretattica e ancora Eupalla – la dea che governa i destini pallonari –, Abatino,
Bonimba, Rombo di Tuono, Conileone, Gazzosino, Destrorso, Cippirimerlo e Palabratico.
Ma potremmo continuare per ore, per collocare uno come Arrigo Sacchi il Gioânnbrerafucarlo dice: «uno zonagro», disegnando un lagunare perso nel latte acido. Perché il neologismo breriano non si limita a descrivere la situazione o le caratteristiche d’un calciatore, no, gli regala sempre una vita doppia e immaginifica, senza perdere di vista l’essenza.
Le sue invenzioni prima che linguistiche sono narrative, invasioni alla Totò, sguazzano nel fumetto, lo impastano all’epica mentre annodano due lingue quasi sempre. Invece, oggi, abbiamo dei termini senza padre, che escono da una scuola di calcio, quella di Coverciano, partoriti da tecnici in odore di apostasia o assunte da altre lingue: sottopunta, castello, quinti, bosco, blocco basso, catena, braccetti, marcature preventive, coccodrillo, centrocampista invasore – che fa tanto Risiko –, portiere moderno – parlatene con Lev Jašin o Gordon Banks o René Higuita – e poi ci sono i termini inglesi perlopiù: Hat-trick, Clean sheet, Box-to-box.
Arriva il mercatese
Capite che non c’è partita, né storia, né racconto. È come passare dalla Bauhaus all’Ikea. Dove Brera inventava, Coverciano riassume. E poi nel calciomercato che sta per cominciare regna la vaghezza con l’indeterminato che avrebbe bisogno di uno come Dino Buzzati per rimetterlo in ordine e Alberto Arbasino per farne un elenco-ballata: obiettivo (nuovo, vecchio, sorpassato, perso, numero uno, solo, doppio, triplo), pista (calda, fredda, perduta, da riscrivere, da reinventare), ultimatum (dato, scaduto, a X e Y), idea (pazza, clamorosa, che si fa largo, inaspettata), suggestione (concreta, sfumata, esotica, realizzabile, irrealizzabile), indizi (verificati, fasulli), ipotesi (che spunta, resta viva o che vive solo un giorno o poche ore), i nodi (da sciogliere, gordiani, doppi).
Poi ci sono i verbi tutti guerreschi: piombare, affondare, assaltare, mediati dalle telefonate, è tutto un telefonare più di quanto potesse immaginare e recitare Franca Valeri con la sua cara cornetta.
Chiamarsi Giuseppe nella Bassa
Le espressioni “si allontana” e “si avvicina”, ovvio l’operazione, la scelta, la squadra, il calciatore; ci sono i Blitz, che non fanno pensare a una vecchia trasmissione di Gianni Minà, ma a quelli della polizia. O i Mister X, summa di mancate verità come di nomi. Per finire con le firme nella notte, qualcosa a metà tra Diabolik e i carbonari. Insomma, a tutto questo manca il mondo che aveva partorito Gianni Brera da San Zenone: la bassa, col fiume, la nebbia, il lardo, la pioggia, le lepri, le quaglie, le oche, il vino e le discussioni a pranzo, ma mancano anche Goethe e Rabelais in lingua originale, masticati e digeriti come se fossero lesso, che poi esce dalla paga partorita dalla scrittura.
Perché in Brera tutto era conseguenza, non termine.
Per questo il suo vocabolario era ricco, la sua bocca piena e la sua pancia insaziabile, perché dietro c’era un paesaggio sterminato, che per brevità potremmo dire hemingwayano, dove per scriverla e raccontarla, la vita era prima vissuta intensamente e poi arrivava in tribuna stampa col carico di cose viste e attraversate, col fango sulle scarpe e diventava pure racconto della partita. Gioco sul gioco e nel gioco.
Perché Brera si sovrapponeva allo spettacolo. E per capire tutto questo basta fare un esempio semplice su un nome: «Chi viene battezzato Giuseppe, a Pianariva, si può chiamare poi con uno di questi nomi: Giusepp, Giuseppin, Giusippoeu, Giusippon; Gep, Pinén, Pinòn, Pinottu, Pepp, Pépu, Pipòn, Pipinoeu, Pipottu, Pipinén e, finalmente, Pinelu come mio nonno o Pin come vengo chiamato io che ne rinnovo il nome».
È come quando Marco Paolini chiede in quanti modi si possa dire neve a Mario Rigoni Stern nella sua lingua e lo scrittore si mette a cantarli tirando giù la neve dal cielo, fiocco per fiocco. Per fare la lingua ci vuole la terra, e il calcio si gioca pure sempre in un campo, anche se tutti intorno si prodigano per dimenticarlo e farlo dimenticare. Ecco, questo dettaglio Gioânnbrerafucarlo non lo dimenticò mai.
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