- Nel 2022 ci sono state meno di 400mila nascite, un record negativo che va a sottolineare un calo strutturale. I motivi vanno ricercati in un sistema anacronistico che pone la scelta tra figli e lavoro.
- Le donne italiane non si metteranno a fare figli perché lo chiede l’Istat, senza un cambiamento radicale della struttura patriarcale. Servono investimenti, volontà di cambiare e visione.
- Fino a quel momento, smettiamo di fingerci stupiti se sempre meno donne decideranno di fare figli, perché non siamo noi ad essere egoiste (come ancora troppo spesso veniamo liquidate) ma è il sistema a esserlo nei nostri confronti.
Le donne, in Italia, non fanno più figli. I dati Istat hanno decretato il 2022 come anno nero della natalità, con un record in negativo che segna meno di 400mila nuove nascite, soglia psicologica che ancora non avevamo superato nonostante il calo strutturale che ci accompagna dal 2008, insieme alle riflessioni sul perché sempre meno donne diventano madri.
Quella delle poche nascite è una notizia che riguarda tutta la collettività, perché avere meno bambini equivale a un (ancora) maggiore invecchiamento della popolazione, a un possibile collasso del sistema pensionistico per come lo conosciamo oggi e a un ridimensionamento di quell’idea felice di futuro che porta con se la nascita.
Motivi buoni e non
Nessuno di questi sono però buoni motivi per cui una donna può decidere di mettere al mondo un bambino, soprattutto quando la collettività alla quale dai un contributo prezioso ti risponde con un sistema anacronistico che non supporta le donne e nello specifico le madri, scaricando su di loro il peso di una scelta che è sì personale, ma anche politica.
Se l’Italia ha bisogno di far nascere più bambini, il governo dovrà decidere di mettere mano a un sistema che permetta di conciliare i tempi di vita e di lavoro, implementando i servizi per l’infanzia, l’assistenza, la scuola, le tutele sul lavoro, il supporto economico e in generale il sostegno alla maternità, dando la possibilità a chi vuole diventare madre di poterlo fare senza avere la costante sensazione di dover scegliere tra l’essere madre, donna o lavoratrice.
Perché, diciamocelo francamente, essere tutte e tre le cose costa talmente tanta fatica che viene naturale chiedersi se ne valga la pena.
Dati nuovi, problemi vecchi
Tra le cause della denatalità, da anni, ci sono l’occupazione femminile e la difficoltà di accedere ai servizi 0-3, gli asili nido, sia per il numero ridotto di posti disponibili sia per il costo della quota mensile, che mediamente è di 300 euro a famiglia. Due temi centrali e strettamente legati tra loro: senza un aumento considerevole dei posti al nido non è possibile per le donne con figli avere le stesse opportunità di accesso al lavoro degli uomini con figli (non lo sarebbe comunque ma ci si potrebbe avvicinare di più) perché (purtroppo) il lavoro di cura familiare è ancora una prerogativa femminile, sia per una questione culturale prettamente italiana che per una economica: se c’è da scegliere a quale stipendio rinunciare, sarà sempre il più basso, che statisticamente in una famiglia composta da un uomo e una donna è quello di quest’ultima.
Partiamo dai dati: la percentuale media di disponibilità di posti nella fascia 0-3 anni è del 27,2 per cento, con una grossa disparità tra le regioni del nord e quelle del sud, ben più bassa della soglia del 33 per cento fissata dall’Unione europea (e che andava raggiunta da 13 anni). Oggi con il Pnrr si dovrebbero centrare gli obiettivi (abbiamo già detto con quanti anni di ritardo?) con un investimento di 4,6 miliardi di euro suddivisi per asili nido, scuole di infanzia e poli scolastici. Sta andando tutto liscio? Non proprio: poche domande presentate dai comuni (in particolare nel sud, dove la percentuale di accesso è bassissima) che complessivamente hanno raggiunto il 49 per cento dello stanziamento totale, con conseguente riapertura del bando, ritardo nelle assegnazione e corsa finale per l’avvio dei lavori.
Nel prossimo futuro, con l’aumento dei posti disponibili (che sarà dovuto non solo al Pnrr ma anche alla denatalità, diciamocelo) ci si augura che il servizio di asilo nido venga visto non solo come supporto educativo alle famiglie dove entrambi i genitori lavorano ma anche a quelle famiglie dove a lavorare è solo il padre, così da consentire alla madre di scegliere se stare a casa o trovare un’occupazione, senza che il basso punteggio dovuto alla sua situazione decreti che al nido il posto non c’è perché lei può occuparsi del figlio.
Figli e lavoro sono conciliabili?
Anche se a gennaio 2023 l’occupazione femminile è cresciuta dello 0,2 per cento rispetto a dicembre e dell’1,6 per cento dall’anno precedente, ricordiamoci che solo il 51,9 per cento delle donne tra i 15 e i 64 anni lavora, che significa che una su due non ha un impiego, contro il 69,7 per cento degli uomini. Secondo il rapporto Save the Children 2022, dal titolo emblematico Le equilibriste, nel 2020 (anno della pandemia, teniamolo presente, ma comunque indicativo di un trend) il 77,2 per cento delle dimissioni volontarie dal lavoro riguardano le lavoratrici madri, che segnalano come motivazione più frequente la difficoltà di conciliazione della vita professionale con le esigenze di cura dei figli: il 38 per cento indica l’indisponibilità di servizi di cura come causa principale.
Complessivamente, il 98 per cento delle donne ha difficoltà di conciliazione legate ai servizi di cura mentre il 96 per cento ha problemi legati all’organizzazione del lavoro. Per gli uomini, invece, il motivo prevalente di dimissioni è il passaggio ad altra azienda. Un film molto diverso. La domanda che ci si pone da anni, senza una reale risposta da parte della politica, è se figli e lavoro sono conciliabili.
I dati Istat 2021 dicono che la metà delle donne tra i 25 e i 49 anni, con almeno un figlio sotto i sei anni, non lavora e nelle regioni del sud solo il 35 per cento delle mamme ha un’occupazione (e sono anche quelle con meno servizi per l’infanzia, coincidenza). Quello che emerge dai dati ufficiali – e anche da una riflessione assolutamente non statistica nata dalle esperienze delle mamme che incontro nei cortili delle scuole – è che lavoro e figli non sono conciliabili ma lo diventano per necessità, tenacia, impegno, desiderio di autodeterminarsi (anche) attraverso l’indipendenza economica.
Secondo il rapporto 2022 di Mastercard Donne e finanza: ritratto delle donne italiane tra inclusione e gender gap, la libertà economica è una priorità per il 75 per cento delle donne sotto i 40 anni. Oggi sappiamo quanto sia importante anche per definire una parità di potere nella coppia e avere una maggiore possibilità di allontanarsi da situazioni di violenza domestica. Se faccio un figlio e non trovo lavoro o devo rinunciare al mio, come la raggiungo?
Una questione culturale
Conciliare lavoro e famiglia è una grande fatica il cui peso, quantificato in quintali di carico mentale quotidiano, è per la maggior parte sulle spalle delle donne.
Un sistema talmente complesso da decostruire che durante un colloquio con le insegnati mi sono sentita consigliare di allenare mia figlia al calcolo mentale la sera, mentre cucino. Lo hanno detto guardando me dritta negli occhi, non il padre. Per un attimo ho pensato di essere negli anni Cinquanta. Invece siamo nel 2023 ma purtroppo, a parte la possibilità di ordinare la cena a domicilio, non vedo grandi passi avanti nella risoluzione di problemi che ci tiriamo dietro da decenni. Ne vedo invece nella consapevolezza delle donne e nella volontà di cambiare un sistema patriarcale che vuole definirci in ruoli nei quali non ci ritroviamo più.
I cambiamenti necessari
Non faremo figli perché ce lo chiede l’Inps ma perché il sistema nel quale viviamo si adeguerà alle esigenze di una famiglia contemporanea, costruendo quello spazio necessario per disegnare nuovi modelli di genitorialità, dove la narrazione della maternità non è più legata all’idea di sacrificio – sei madre, rinuncia a tutto e mostrati grata – ma alla condivisione di un ruolo di cura e al diritto di essere altro senza venire schiacciata dalle aspettative sociali e dal giudizio.
Per farlo, però, si deve rimettere in discussione tutto: la cultura patriarcale; un sistema scolastico-educativo che deve essere inclusivo e flessibile per rispondere alle esigenze organizzative delle famiglie; un sistema di welfare basato sui servizi e non sui nonni, sulle baby sitter o sulle madri che rinunciano al lavoro; un supporto alla maternità che accompagni la donna senza dare per scontato che sa fare le cose perché è nel suo dna perché non è così, che si occupi della sua salute mentale e di trovare soluzioni condivise e non modelli standard da apricare a tutte (più consapevolezza sul parto; allattamento al seno oppure no; rooming in oppure no; monitoraggio sulla depressione post parto) e di coinvolgere l’altro genitore con un ampliamento del congedo parentale anche in contemporanea, per poter sostenere chi ha partorito in maniera adeguata (che avrebbe il doppio vantaggio di fare anche uno sgambetto a quelle situazioni lavorative dove si preferisce assumere uomini perché se fanno figli non stanno a casa) e maggiori tutele delle donne sul lavoro, con un impegno a superare il gender gap salariale e di carriera.
Servono investimenti, volontà di cambiare e visione. Fino a quel momento, smettiamo di fingerci stupiti se sempre meno donne decideranno di fare figli, perché non siamo noi ad essere egoiste (come ancora troppo spesso veniamo liquidate) ma è il sistema a esserlo nei nostri confronti.
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