C’era una volta la battaglia di Natale. Quella del cinema, dico. È antiquariato, come quel lessico militarista di vincitori e vinti, morti e feriti. La roba sostanziosa non si butta più nella mischia, si tiene in serbo per l’anno nuovo. Perché salire sul ring contro il peso massimo di casa Disney? Mufasa, il Re Leone, live-action generato al computer, farà terra bruciata. Non sembra animazione, è l’avatar del nostro gatto di casa.

L’archeologia dei cinepanettoni si aggrappa ai malinconici sopravvissuti, ai Siani-e-Pieraccioni, ai De Sica-e-Lillo strategicamente accoppiati per punteggiare a vicenda il proprio crepuscolo.

Le piattaforme rigurgitano di evergreen natalizi da ripassare senza esborsi molesti, dal divano domestico. Le attempatelle madame dei quartieri buoni convoleranno a giusti singhiozzi con la tribù sartoriale di Ferzan Özpetek. Diamanti è un «vaginodromo», Geppi Cucciari dixit: cinquanta sfumature di rosa sbiadito.

Proviamo insieme a salvare da una sorte di nicchia un film sommesso e perfetto di Stéphane Brizé che era in concorso a Venezia 2023 e arriva temerariamente in sala dal 23 dicembre con I Wonder Pictures. Le occasioni dell’amore è il titolo italiano di Hors-saison, con Guillaume Canet e una Alba Rohrwacher che inchioda. Il titolo non è allettante ma il film è un regalo.

Indagine intima

Stéphane Brizé è imperdibile, sempre. Qui si allontana dai binari della sua memorabile trilogia sociale (La legge del mercato del 2015, In guerra del 2018 e Un altro mondo del 2021) per tornare all’indagine intima di un suo altro gioiello, Une vie (2016), da Maupassant. Non tolgo nulla ai registi che hanno diretto Rohrwacher finora: Hungry Hearts di Saverio Costanzo, per dire, è un film che è vietato dimenticare ma che di norma non è citato tra le sue hit.

In Hors-saison però naviga in acque profonde, senza rete e senza scialuppa di salvataggio. Lavora sulle espressioni e sul linguaggio corporeo, sulle ombre e sui lampi improvvisi di luce, su uno scorrere di emozioni che sostituisce il linguaggio verbale. È il pifferaio magico del film.

Aveva già recitato in francese – tra gli altri, per Arnaud Desplechin – ma qui usa una lingua non sua per certificare il disadattamento della sua Alice in un "altrove” di serenità senza sogni. Il Mathieu del film (Canet, che subentra alla lunga e proficua simbiosi tra Brizé e Vincent Lindon) è una popolare star del cinema che sul punto di debuttare in teatro se l’è data a gambe per paura di un fiasco, lasciando tutti nei guai.

La talassoterapia high tech sulle coste bretoni, fuori stagione, è galeotta per far riemergere dal passato Alice, amata e abbandonata sedici anni prima, quando è arrivato il successo. Lui ha un legame da tabloid con una distratta anchor-woman tv. Lei ha guarito le sue ferite sposando un tranquillo medico di provincia.

Chirurgia a cuore aperto

È un incontro pieno di ritrosie, di non-detto, di complicità perdute e di silenzi violati. Riporta a galla scelte non fatte e scelte subìte. Lei è saggia, solare, più benefica di quella lussuosa spa. E così, in fondo, come una pausa-benessere, vivrà lui quell’effimero ritorno di fiamma, mentre le piaghe di lei si riaprono. È chirurgia a cuore aperto, quella di Brizé. Scava nei rimpianti e nel gioco di specchi. Alice, che suona il piano per gli anziani di una casa di riposo, vede nel tardivo matrimonio gay della settantottenne Gilberte l’approdo che a lei è mancato. C’è una diseguaglianza insanabile al fondo di ogni rapporto amoroso. C’è sempre chi sente e soffre di più. Gli uomini non danno voce ai propri fallimenti. Le donne sì. «Promettimi di non tornare più», è il congedo finale di Alice. Nervi scoperti che appartengono a tutti.

C’è sempre un mistero dietro l’alchimia tra un’interprete e il suo personaggio. «Quando ho letto la sceneggiatura ho sentito che questo film mi parlava, mi riguardava –  dice da Parigi, al telefono, Alba Rohrwacher – Per questo ho fatto l’impossibile per esserci, anche se era complicato». «Se fosse un quadro sarebbe un acquerello. E Alice è un personaggio di sfumature, anche se è il vero motore della storia. In apparenza è invisibile, ma è lei a dettare il progredire degli eventi».

Un vaso di coccio?

Sarò brutale, ma un film di questa natura sugli schermi di Natale non fa la fine del classico vaso di coccio? «La distribuzione puntava già allo scorso Natale, ma bisognava aspettare l’uscita in Francia. È una scelta sensata perché è l’alternativa al classico film natalizio. E al tempo stesso emotivamente è molto caldo, riguarda esperienze che appartengono a tutti, costringe a fare i conti con il passato e i rimpianti del presente. Non c’è conflitto con i prodotti stagionali: è spettacolo anche quello delle emozioni, e tutti abbiamo bisogno di epifanie dell’anima. Ricordo ancora i tuoi occhi, alla proiezione a Venezia, ho visto le reazioni in Francia e in Germania. Ha un superpotere catartico rispetto all’amore e a cosa significa viverlo, o non viverlo, che è in sintonia col clima natalizio».

Una volta Marcel Carné mi disse una cosa che mi ha trapanato il cervello: «Solo tre cose contano in un film: la sceneggiatura, la sceneggiatura e la sceneggiatura». Ne ho fatto a lungo il mio speciale Vangelo. Oggi non credo più che sia così vero. Cosa ritrova di Alba in Hors-saison? «Posso dire quello che mi interessa, cioè la complessità e forse la contraddittorietà. Mi interessano i personaggi che fanno scelte inaspettate. Quando guardo un film spesso corro più veloce dell’azione. Sono felice quando mi lascia indietro, perché scopro una possibilità “altra” rispetto a quella dove la mente mi aveva condotta. Nel film di Brizé spesso il mio personaggio mi sorprendeva. Mi interessa quello che ti sposta da una traiettoria e ti fa sentire scomoda».

Sarà una domanda da bischeri, ma cosa fa grande un piccolo film? «Non esistono piccoli e grandi film. Ci sono film che restano nel tempo o che dimentichi subito. Contano quelli che puoi reincontrare per caso e continuare a sorprenderti, che non evaporano. Forse dipende da un’aderenza, da una necessità a monte che il pubblico avverte. Dietro l’eco devi sentire che il suono è autentico. Per arrivare alla gente bisogna partire da cose che ti riguardano, non chiederti che effetto faranno sugli altri».

Alba Rohrwacher la ritroveremo anche a gennaio nel film sulla Callas di Pablo Larraìn, Maria, tra volenterosi esercizi di ugola di Angelina Jolie che eviterei di raccomandare. E sul piccolo schermo è appena calato il sipario sulla quarta e ultima stagione di L’amica geniale. C’è un diverso grado di libertà, quando si è parte di un film come Hors-saison e quando si marcia sui binari obbligati di una serie ancorata a un bestseller?

«È un altro tipo di libertà. Io da L’amica geniale ho imparato tantissimo, perché se il lavoro ti impone dei paletti ti spinge a cercare soluzioni alternative. Anche mettermi nei panni di Elena Greco mi ha aiutato molto. Sono arrivata a capirla davvero, anche nei suoi sbagli, e mi ha fatto bene».

Per l’ultima benedizione ufficiale del film siamo tutti invitati alle 21 del 23 dicembre chez Nanni Moretti, al Nuovo Sacher di Roma. Magari porta fortuna.

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