In tempi recenti, su internet è diventata di uso comune la parola «ick». Si tratta di una onomatopea che descrive un singulto di disgusto, lo scatto che accompagna il senso di schifo provato a causa di qualcuno o di qualcosa, a metà tra il verso di Pippo e l’espressione dei neonati a cui viene fatto assaggiare il limone. Nello specifico, «he gave me the ick», letteralmente «mi ha dato l’ick», è diventata una frase utile a decodificare il momento epifanico in cui in una relazione si prova per la prima volta un sentimento di rigetto nei confronti di chi, fino a un attimo prima, ci sembrava perfetto.

Fratello minore della red flag, altra espressione molto comune di internet per indicare i segnali che dovrebbero darci l’allarme di fuga rispetto ai tratti caratteriali pericolosi di una persona che si frequenta, l’ick può nascere da qualsiasi situazione, un verso fastidioso mentre si mangia, un tic inaspettato, un modo di piegare la propria biancheria intima. E quando arriva, non si torna più indietro: «the ick can’t be reversed», dice Morgan, uno dei personaggi della nuova serie Netflix Nobody wants this.

Gli orfani dell’analogico

Non si fanno più le romcom di una volta, si dice. Oppure, semplicemente, a sentire nostalgia per questo genere cinematografico in declino, risvegliato da tentativi contemporanei un po’ goffi come Anyone but you o The idea of you, sono sempre loro, quella fascia di consumatori nati tra i primi anni Ottanta e la fine degli anni Novanta, o per dirla in modo più preciso, le generazione Y, con tracce di X e di Z.

Sono i consumatori che hanno formato la propria coscienza relazionale a suon di battute ficcanti dette da Jennifer Aniston e Sandra Bullock, uomini e donne che hanno riso della goffaggine di Ben Affleck e che si sono immaginati sotto la pioggia tra le braccia di Ryan Gosling o Rachel McAdams, a seconda delle proprie preferenze.

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Sono gli orfani del mondo analogico, quelli che hanno visto il Novecento esalare l’ultimo respiro e non se lo riescono a togliere dalla testa, ma anche quelli che hanno colonizzato internet imponendosi come utenti privilegiati: né nativi digitali, né boomer, stanno in mezzo, dove proverbialmente sta anche la verità. E sono gli stessi che passano così tanto tempo online da ritrovarsi a usare un linguaggio comune fatto di ick, cringe, red flags, brat, demure e qualsiasi altro sentimento collettivo convertibile in un trending topic ci sia a disposizione.

Se il popolo chiede il pane, Netflix prepara le brioches. Nobody wants this è una versione live action di tutti i temi e i trend che popolano il regno di internet, compresa la retromania ossessiva che estetizza qualsiasi prodotto culturale del passato, in piena ottica postmoderna e con l’implicita angosciante consapevolezza di assenza del futuro.

A partire dai suoi protagonisti, scelti accuratamente dallo scaffale delle action figure dei millennial che sguazzano nell’idea che nessun altro prima di loro abbia avuto degli idoli e delle celebrità altrettanto iconiche – altro termine molto internettiano, con buona pace degli studi in semiotica –, tutto in Nobody wants this si incastra nell’algoritmo di un trentenne che non vuole dire addio alla sua adolescenza.

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Come Leroy e Vic

Adam Brody, che interpreta l’«hot rabbi», versione più aggiornata dell’hot priest di Fleabag, altra serie cult del genere, è stato scongelato direttamente dalla sua villa a Newport Beach, dove vestiva (e veste anche nella serie Netflix, con il glorioso mix da ragazzo indie di felpa e giacca elegante) i panni di Seth Cohen, il co-protagonista del teen drama anni Zero per eccellenza The O.C., nonché crush generazionale di tutte quelle ragazze che cercavano una via di fuga dal maschio alpha.

Kristen Bell, nei panni di una podcaster losangelina che parla di sesso senza inibizioni, è la versione aggiornata di Veronica Mars, l’investigatrice scaltra e spregiudicata che interpretava vent’anni fa, sempre nel palinsesto di Italia 1, quando ancora era la televisione a dettare le leggi del divismo. Per intenderci, è un po’ come se avessero messo insieme Leroy di Saranno Famosi e Vic de Il tempo delle mele per una romcom destinata a un pubblico di cinquantenni, o ciò che in termini musicali definiremmo una «superband».

La SEO della fiction

La trama è lineare, le battute hanno ritmo, il cast che ruota attorno alle due rockstar del teen drama anni Zero è perfetto. C’è il tema della conversione all’ebraismo, un sempreverde della comicità statunitense – pensiamo a Charlotte York di Sex and the City e al suo matrimonio con Harry Goldenblatt –, quello dell’ambizione personale che si mette tra due innamorati, l’accettazione reciproca, la crescita individuale, e il fondamentale scontro titanico tra una healthy relationship e una toxic relationship.

Perché Joanne, che vive in un enorme appartamento in una delle città col mercato immobiliare più caro d’Occidente pagato con i soldi di un podcast sex positive in cui lei vuole a tutti i costi inserire anche i temi dell’empowerment femminile, è una ragazza ironica e cinica, intrappolata in un loop di appuntamenti disastrosi, ossia tutto ciò che il mondo contemporaneo ha da offrire a una donna emancipata. Venmo, Grindr, Spotify, Uber, Snapchat, Fortnite: i nomi delle colonne portanti del tech vengono usati con nonchalance dai protagonisti, come parole inserite in ottica SEO nella sceneggiatura.

Il padre di Joanne è gay, la migliore amica è lesbica, e il rabbino di cui si innamora, Noha, usa il tempio come se fosse un palco per fare open mic di standup comedy, suggerendo che, in fondo, tra podcast ed ebraismo non c’è molta differenza. La sorella di Joanne, Morgan, dice di avere una UTI, Urinary Tract Infection, stessa patologia che fa da protagonista in una puntata cruciale di Succession, serie HBO dove, guarda caso, la stessa attrice ha il ruolo di Willa, moglie del primogenito Roy. Si parla di Zendaya, si ascolta Olivia Rodrigo, si indossano Adidas Samba: tutto in Nobody wants this è una reference, un meme, una strizzata d’occhio a qualcosa del presente, che siano la moda Y2k o i tarocchi.

Tutto, in Nobody wants this, serve a rassicurare gli spettatori del fatto che sì, a Netflix sanno bene di cosa abbiamo bisogno, noi millennial sperduti. Sanno ciò che ci piace, il modo in cui parliamo e i temi che ci saltano sotto agli occhi ogni giorno quando scrolliamo Instagram tra una call su Teams e uno swipe su Tinder. Più che Nobody wants this, questa serie si sarebbe dovuta chiamare Everybody wants this per quanto sia evidente il tentativo di far combaciare l’algoritmo di una certa fascia di consumatori con un prodotto audiovisivo.

E non c’è niente di male nel produrre contenuti che seguono gli andamenti del pubblico, i suoi gusti e le sue preferenze, in un certo senso e in una certa misura è sempre stato così; è di questo che si nutre l’industria culturale. La parte noiosa arriva quando l’operazione prodotto perfetto è così palese che più che intrattenere, una serie così freddamente calcolata, ti fa venire il rigetto. O come sarebbe meglio chiamarlo, the ick.

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