Una delle prime decisioni prese da Julio Velasco quando è tornato sulla panchina dell’Italia femminile è stata togliere la fascia da capitana a Myriam Sylla, che la portava dal 2021, e passarla ad Anna Danesi. Il tecnico non ha ritenuto di doversi dilungare in spiegazioni. «Cambia l’allenatore, cambia il capitano: è una scelta». La schiacciatrice di Palermo, in nazionale dal 2015, la prese con la sua naturale eleganza.

«Eccoci qua cara Italia. È stato un onore essere il tuo capitano. Ti ho sempre rispettata e onorata nel bene, ma soprattutto nel male. È tempo per me di fare un grande grandissimo in bocca al lupo ad un’amica e atleta fantastica, dacci dentro Anna Danesi». Tre mesi più tardi, sul gradino più alto del podio dell’Expo di Parigi, appena hanno avuto la medaglia d’oro al collo, Sylla e Danesi se la sono sfilata e se la sono scambiata: quella che era mia adesso è tua, e io terrò la tua per sempre.

FOTO Fipav/Tarantini

La retorica no

È uno dei gesti più belli che abbiamo fare in queste Olimpiadi, un gesto che descrive come nessuno il senso dell'appartenenza a una squadra. La retorica del gruppo non ci affascina, e generalmente le squadre femminili sono qualcosa di molto più complesso di un insieme di atlete e qualcosa di meno semplice di una compagnia di amiche.

Però l’Italia che a Parigi ha vinto il suo primo oro olimpico sottorete ha dimostrato di essere molto più di questo: non è un caso se un settore vincente come la pallavolo italiana ha dovuto aspettare che il traguardo lo tagliasse per prima la nazionale femminile.

Non c’entra soltanto Velasco, che comunque ha i suoi meriti indiscutibili insieme a uno staff di prim’ordine («È stato bravo a unirci tutte e a costruire quella squadra che mancava da un po’ di tempo», ha detto Paola Egonu con un pensiero volutamente non riconoscente a chi aveva occupato quella panchina in precedenza).

Queste erano le Olimpiadi del mondo nuovo, dei giovani, delle donne, per la prima volta la metà esatta degli atleti in gara. A volerlo capire, era già tutto spiegato nella cerimonia di apertura, che Thomas Jolly (un giovane, non a caso) aveva voluto improntare sulla sorpresa, sull’inclusione e su una ridefinizione del motto della rivoluzione francese diventato poi la parola d’ordine della Repubblica: nello spettacolo sulla Senna il classico Liberté, Égalité, Fraternité si era improvvisamente trasformato in Liberté, Égalité, Sororité. E non avevano ancora visto Sylla e Danesi.

Su 12 ori azzurri a Parigi, 7 arrivano dallo sport femminile (pallavolo, Madison con Consonni e Guazzini, spada a squadre, Bellandi nel judo, Maggetti nella vela, Alice D’Amato nella ginnastica artistica, Sara Errani e Jasmine Paolini nel tennis), 3 dai maschi (Martinenghi e Ceccon nel nuoto, De Gennaro nel kajak) e due vengono da discipline miste (la vela con Tita-Banti e lo skeet con Bacosi-Rossetti).

Ma l’ultimo oro è quello più fragoroso: non soltanto perché cambia tutto, ma perché coinvolge una moltitudine di persone, oltre alle tredici atlete che sono salite sul podio.

Quelle che Sylla e Danesi si sono scambiate sono le medaglie che tanti giocatori, tecnici e dirigenti italiani hanno aspettato per tutta la vita. Qualcuno oggi non c’è più, ed è l’unico vuoto in un giorno pieno di tante cose.

Hanno vinto queste tredici donne, e dietro ci sono loro ci sono quelle che negli anni hanno portato il volley femminile a questo livello, le ragazze che intanto hanno smesso (ce n’erano parecchie in tribuna) e quelle che non sono mai riuscite ad arrivare così lontano, perché nel frattempo sono invecchiate, si sono fatte male, o semplicemente hanno preso altre strade.

Il movimento

Direte: questo vale per tutti gli sport. In parte sì. Ma la pallavolo in Italia si porta dietro un universo di praticanti che non ha molti eguali: con 314.000 tesserati (25.000 in più rispetto a un anno fa) è seconda solo al calcio tra gli uomini ed è lo sport più diffuso tra le donne (costituiscono il 77% dei tesserati). Questo è davvero l’oro di tutte e di tutti.

La pallavolo italiana era prontissima per questo traguardo. Quella maschile ci gira attorno da una vita: da quando proprio Velasco arrivò sulla panchina di quella squadra abituata a prenderle. Andrea Lucchetta ha raccontato che «partivo per la nazionale e tutti mi dicevano: cosa ci vai a fare, tanto perdete sempre». Lo scriveva anche Gianni Mura, «si poteva perdere anche col Belgio, si finiva a Yambol (posto terrificante) a giocare con la Mongolia e il Venezuela per conquistare un quindicesimo posto che non importava nulla a nessuno».

Con Velasco l’Italia diventò un’altra cosa. Da Atlanta 1996 a Parigi 2024 sono trascorse otto edizioni dei Giochi Olimpici e l’Italia maschile sette volte ha giocato per una medaglia portandone a casa cinque. Le vittorie internazionali sono state più di 70, in tutte le categorie: ma l’oro olimpico sembrava un tabù. Anche per le donne, anzi peggio: l’Italia femminile non aveva mai superato i quarti.

Ed è giusto che a buttare giù l’ultimo muro sia l’allenatore che ci ha insegnato tanto, forse tutto, a forza di ripeterci che impossibile è una parola che nello sport non esiste.

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