Il libro vincitore del Booker Prize 2024 possiede a stento le caratteristiche basilari che messe assieme definiscono un romanzo. Eppure si assume tutte le responsabilità che spettano alla narrativa più ambiziosa: Samantha Harvey è una pioniera che attraverso una scrittura poderosa raggiunge nuove frontiere
C’è stato un periodo della mia vita in cui sono stato alle prese con l’ansia e con gli attacchi di panico, come quasi tutti. Quando non riuscivo a fare proprio niente, mi collegavo con la diretta streaming della Stazione Spaziale Internazionale su YouTube e cercavo di calmarmi. Ho trascorso una quantità considerevole di tempo, chiuso dentro casa o in disparte in ufficio, a osservare il pianeta Terra da una distanza di oltre 400 km.
In un certo senso, ho accumulato un grosso debito con questo luogo che corre sopra le nostre teste, dove del resto non sono mai stato. Parecchi anni dopo, ho provato lo stesso sollievo mentre leggevo Orbital, il romanzo con cui la scrittrice britannica Samantha Harvey ha vinto il Booker Prize nel 2024 e che è stato portato in Italia da NNE, nella traduzione di Gioia Guerzoni.
L’ultimo posto selvaggio
Orbital possiede a stento le caratteristiche basilari che messe assieme definiscono un romanzo. Eppure si assume tutte le responsabilità che spettano alla narrativa più ambiziosa. Se lo spazio è l’ultimo posto selvaggio che ci rimane, Samantha Harvey è una pioniera che attraverso una scrittura poderosa raggiunge nuove frontiere, supportata da un ritmo metodico e da tutta la potenza delle speculazioni esistenziali più pregevoli.
In meno di 200 pagine, osserviamo un gruppo di sei astronauti e cosmonauti in missione sulla Stazione Spaziale Internazionale. Sedici orbite completate in 24 ore, che equivalgono a 16 albe e 16 tramonti, un giro completo ogni 90 minuti circa, alla velocità media di 27mila km orari.
Non c’è una vera e propria trama e i contorni dei personaggi vengono a malapena delineati. Le loro azioni non hanno un origine e non vanno a parare davvero da nessuna parte, sono vicende puramente gestuali ed emotive, che vengono raccontate da una terza persona eterea e fluttuante, come del resto tutto in questo romanzo. La Stazione Spaziale Internazionale diventa così il palcoscenico di riflessioni sul nostro posto nell'universo e sull'esistenza stessa, esponendo l’umanità in tutta la sua fragilità e la sua forza.
Al pari dei fenomeni atmosferici che accadono sulla Terra, gli impercettibili addensamenti di storie personali che incontriamo lungo la lettura vengono superati rapidamente. Li vediamo deflagrare o dissolversi in poche righe e sparire per sempre tra le pagine. La morte di un genitore o un uragano nell’oceano Atlantico, non sono altro che episodi che si susseguono su una certa realtà empirica sulla quale, per qualche ragione, siamo sintonizzati.
I sei protagonisti svolgono task apparentemente noiosi – monitorano microbi, osservano il comportamento dei topi, mangiano cibo decisamente poco invitante – mentre nel giro di pochi minuti sorvolano senza soluzione di continuità i continenti, la primavera o l’autunno, intere culture e civiltà.
Il giorno e la notte sono concetti rimessi del tutto in discussione, insieme a tutto quello su cui facciamo cieco affidamento ogni giorno quaggiù. Le guerre diventano ancora più stupide, megalopoli o interi deserti sono poco più che dei pattern, luce e buio convivono simultaneamente, l’idea più recondita di tempo è ridotta a pura convenzione. Ogni certezza – e assieme ad esse anche l’angoscia – si disperde nella totale assenza di peso della prosa di Harvey, già nota per il suo approccio alla narrazione, che esplora la memoria, la condizione umana a confronto con il tempo e l’empatia.
Piccole meditazioni
Lo sguardo con cui i protagonisti guardano al pianeta, è quello degli innamorati. La loro missione, ci porta a confrontarci con la nostra umanità in modo profondo e commovente. Mentre svolgono incessantemente attività fisica per non deperire, viene da chiedersi a cosa servano davvero i muscoli o il sistema scheletrico, quando possiamo raggiungere tali vette metafisiche. L’esistenza di Dio o di altre forme di vita, il post-umano, la felicità pura, la simbiosi con altri corpi.
Ogni capitolo di questo libro è una piccola meditazione estatica, dotata di un forte immaginario sonoro. Ronzii, sospiri, voci cacofoniche, il brulicare della vita in vitro, riverberi, battiti cardiaci, l’eco ovattato del respiro, più che interrompere, accentuano la percezione del silenzio assoluto attorno a noi. La vita e la morte, separate da un sottile strato di metallo, tutti gli sforzi della tecnologia per continuare a respirare là dove non c’è niente. E così, i gesti più banali assumono una nuova aura.
Tutta la bellezza dell’ordinario – vorrei che fosse chiaro – è sorretta interamente dalla scrittura. Una parola dietro l’altra. Attraverso lo stile, la narrativa arriva agile ovunque. «Lento è facile e facile è veloce». Orbital con una vertigine ultraterrena, gioca con l’onnipotenza della coscienza e con la totale irrilevanza a cui tutto si piega, se osservato dalla giusta prospettiva.
Orbital (NNE 2025, pp. 176, euro 18) è un romanzo di Samantha Harvey
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