Le uniche trasgressioni a questo patetico show col silenziatore, impermeabile alla geopolitica oltre che al dispotico new deal di casa, sono arrivate, e non è un caso, dai vincitori iraniani dell’Oscar per il corto di animazione e dal collettivo palestinese-israeliano di No Other Land, migliore documentario
Make actors apolitical again: era lo slogan lanciato da uno dei siti americani di destra che seguo con sforzo ma assiduamente. E precisava: «I vincitori (dell’Oscar) sentono il bisogno di trasformare i loro discorsi di ringraziamento in sermoni sul femminismo, sull’immigrazione o su Donald Trump. Ma l’americano medio non vuole consigli politici da pagliacci in abiti da sera da 10.000 dollari».
L’americano medio sarà orgoglioso di constatare, alla luce del 97° rito annuale dell’Academy, che anche Hollywood è in ginocchio, che una delle ultime roccaforti democratiche si è arresa e che lo sterminio del dissenso nell’America trumpiana procede down hands, senza resistenza percepibile.
C’è una subdola ipocrisia nel trionfo sproporzionato di Anora: miglior film, migliore regia, montaggio, sceneggiatura originale e perfino migliore attrice la principiante Mickey Madison. Si pretende di venderlo come tributo al cinema americano indipendente e low budget, incarnato da Sean Baker.
Tributo ribadito dal triplo Oscar – migliore fotografia, colonna sonora e Adrien Brody miglior attore, ventidue anni dopo la sua prima statuetta – per l’omologo (produttivamente) The Brutalist di Brady Corbet. Cinquant’anni fa, quando il cinema indipendente era trattato da appestato, sarebbero stati Oscar coraggiosi. Oggi sono solo l‘espediente per scomunicare i film che disturbano il manovratore.
La macchina del fango che ha travolto Emilia Pérez – di gran lunga il vero evento cinematografico dell’annata – con le sue tredici candidature è partita guarda caso da X, che per conto di Elon Musk ha licenza di uccidere.
Una Casa Bianca in guerra contro la ‘confusione dei generi’ non poteva perdonare l’eroina transgender di Jacques Audiard, che ha avuto di striscio gli Oscar per la migliore canzone e per Zoe Saldana non protagonista. Né avrebbe gradito Demi Moore premiata per un impavido horror femminista a regia femminile, The Substance, umiliato con la statuetta minore per trucco e acconciature. Sono cascami woke da spazzare via.
Dietrologia, fissazioni complottiste? Basta vedere la liturgia dissanguata della cerimonia più fiacca a memoria d’uomo, condotta da un Donald O’Brien dominato dall’ansia di non finire nella risorta black list. The Free Press, la mia fonte reazionaria, diceva una fesseria, perché Hollywood apolitica non è stata mai, cito solo, per tutti, i subliminali messaggi razzisti di Intolerance e lo zelo persecutorio di Joseph McCarthy contro la “cricca comunista”. Niente “sermoni” politici, quest’anno.
Li ha rimpiazzati la melassa innocua dei «grazie» a mogli e figli. C’è stata perfino una richiesta di nuova gravidanza in diretta, ad opera di Kieran Culkin, premiato come supporting actor più in grazia della mitica serie Succession che per la sua prestazione in A Real Pain. Se si è allineato Jeff Bezos intimando al suo The Washington Post di limitare la pagina delle opinioni alla “libertà in campo economico e in qualsiasi altro aspetto”, sopprimendo il confronto di idee, perché non dovrebbe allinearsi obbediente l’Academy?
Sacche di resistenza
Le trasgressioni a questo patetico show col silenziatore, impermeabile alla geopolitica oltre che al dispotico new deal di casa, sono arrivate, e non è un caso, dai vincitori iraniani dell’Oscar per il corto di animazione e dal collettivo palestinese-israeliano di No Other Land, migliore documentario.
Il film documenta la battaglia di Basel Adra e di altri attivisti contro la distruzione del loro villaggio natale in Cisgiordania ad opera delle forze israeliane. Visti concessi in extremis, dediche agli “eroi oscuri che combattono dentro e fuori l’Iran”, appelli per la comunità di Gaza sotto l’occupazione: non tutti hanno cancellato dal vocabolario la parola «resistenza».
Chi ha osato, tra gli indigeni losangelini, forare la bolla asettica della cerimonia, lo ha fatto con una prudenza allarmante: Zoe Saldana rivendicando la propria famiglia di immigrati, Daryl Hannah dichiarando «slava ukraina», il costumista di Wicked rilevando che è il primo black man premiato nella categoria.
Dimenticavo: chi ha bacchettato senza riserve il cauto presentatore? La Karla Sofia Gascòn di Emilia Perez ovviamente, ufficialmente scomunicata per vecchi tweet sciocchini, e inoltre Netflix e l’Amazon di Jeff Bezos, già entrambe passate per le rampogne presidenziali. Un vero capolavoro di opportunismo militante. C’è solo da rallegrarsi per l’Oscar a Flow, raro gioiello di animazione del Vecchio Continente (produzione franco-lettone) che ha sbaragliato i colossi Usa. E un po’, magari, anche perché Timothée Chalamet, l’idolo più viziato della X generation, non ha incassato col suo Bob Dylan di A Complete Unknown anche il record del più giovane interprete oscarizzato. La doppietta con Mickey Madison, anni 26 scarsi, sarebbe stata un’eresia oltraggiosa.
L’Italia
Resta fuori l’Italia con la sua unica candidata, Isabella Rossellini, ma onestamente i suoi pochi minuti in Conclave non sono paragonabili alla prestazione multipla – canto, ballo, recitazione- di Saldana. Alba Rohrwacher è invece la prima italiana dopo Sophia Loren ammessa agli onori della consegna dei premi.
Come riconoscimento internazionale non è una bazzecola. Se pensate però che la qualità emerga per forza propria, sbagliate di grosso. La svogliata promozione del nostro Vermiglio, escluso dall’ultimo round, non poteva competere con gli zii Paperone. La promozione pre-Oscar di Emilia Pérez, per dire, ha impegnato Netflix per ben cinquanta milioni.
Accontentarsi
I veri, grandi campioni di incassi, Dune: Part II e il musical Wicked, hanno dovuto accontentarsi rispettivamente degli Oscar tecnici (miglior sonoro ed effetti speciali) e di quelli estetici (scenografia e costumi). E sarebbe ingiusto lamentarsi dell’Oscar per il miglior film internazionale alla lucida, emozionate storia vera di desaparecido narrata da Walter Salles con Io sono ancora qui se non fosse servito a estromettere anche da questa casella l’opera “sociale” di Jacques Audiard.
Abbiamo assistito a siluramenti eseguiti con brutalità compiacente, ma gli esempi preclari degli ultimi giorni, con le sceneggiate da avanspettacolo allestite nel cuore della White House, sono di ben altra portata. Riprodurre il copione nel tempio del grande spettacolo non è complicato. E la maleducazione fa scuola. Nel siparietto luttuoso In Memoriam, che ritualmente snociola i cari estinti dello show business, di Alain Delon si sono proprio scordati, e David Lynch era un nomignolo nel mucchio.
Solo per Gene Hackman Morgan Freeman ha speso poche e sentite parole. Comprensibile, perfino condivisibile, data la fresca tragedia. Viene però da parafrasare il George Orwell de La fattoria degli animali: tutti i morti sono uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri. La specie che sta dettando il nuovo Statuto Mondiale ricorda tristemente la razza padrona del libro.
© Riproduzione riservata