Sul tavolino della terrazza dell’hotel, accanto al posacenere per il sigaro d’ordinanza, appoggio Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline perché si sa che è il suo libro preferito. Smaccata captatio benevolentiae, lui è indulgente: leggerlo intorno ai 40 anni può andare bene, non bisogna esser troppo giovani, mi dice e aggiunge: «Io da questo libro ho capito tutto».

Segnalibro a pagina 227, Paolo Sorrentino si sporge per vedere: il protagonista Bardamu dice che entrare in un cinema è come tuffarsi in un «tiepido perdono». Leggo: «Non è affatto la vita quella che accade sugli schermi (…) bisogna fare in fretta a ingozzarsi di sogni per attraversare la vita che vi aspetta fuori, usciti dal cinema, resistere qualche giorno in più attraverso quell’atrocità di cose e uomini».

Chiedo quanto sia sua questa affermazione, si illumina: «È proprio così. Questa non me la ricordavo, mi è venuta voglia di rileggerlo. Sa tutto, Céline sa proprio tutto. Ma lo sente lo stile della scrittura? Un incedere, un ritmo nel mettere le parole vicine. Sa che cosa diceva Bukowski di lui?».

No, che cosa?

Diceva che Céline capisce il lato selvaggio, cioè che nelle persone c’è una grandezza nella sporcizia. Questo libro ti mette a nudo, mentre tu cerchi di dire di te stesso “sono una persona ammirevole” lui ti dice che sei un miserabile, e ti dimostra che ha ragione. Per questo è gigantesco ed è imbarazzante,

Seconda citazione altrui: “Il cinema è il modo più diretto di entrare in competizione con Dio”. La farebbe sua anche questa?

Penso di sapere a cosa si riferisse Federico Fellini. Il regista è una sorta di demiurgo, perché manovrando gli oggetti del film – le ellissi del tempo, il montaggio, i tagli… – è in grado di togliere le parti noiose della vita. Di più, anzi: ha la possibilità di rendere perfetto il caos della vita. Questa perfezione è una dote che si può definire divina.

Ma è un trucco, “solo un trucco”, come la giraffa che scompare nella Grande Bellezza?

Certo che è un trucco, perché nel cinema qualsiasi cosa è fittizia, è tutto inventato. (Fa una pausa) E comunque, finisce.

A vedere il suo Parthenope ci si stupisce spesso, ci sono molti momenti in cui si resta a bocca aperta…

Bene.

Sì. La domanda è se questo stupore, la meraviglia, sia un regalo che Sorrentino vuole fare agli altri o se faccia parte delle sue giornate e del suo vivere.

No, c’è una terza possibilità: è un regalo che faccio a me. Poi certo, spero che si meravigli anche chi guarda. Un film secondo me dovrebbe essere la fiera dell’eccezionale. Voglio dire: non vale la pena raccontare ciò che già so.

Si stupisce spesso? Oggi le è accaduto?

(Ride) Ma che scherza? Capita qualche volta all’anno, se va bene ieri. Da giovane accade più spesso perché sai meno della vita.

Parlando di questo film ha detto che c’è una sacralità negli avvenimenti. Per il laico Sorrentino cos’è il sacro?

Tutti noi abbiamo un rapporto con la memoria che è sacrale. I ricordi riguardano gli altri che abbiamo incontrato, che abbiamo amato. Alle volte si ricordano pure cose banali: un dettaglio di un bar, un manifesto per strada. Quello che resta impigliato nella memoria e che compone la nostra biografia è ai miei occhi sacro. Mi ricordo infatti quando sono nati i miei figli. Mi ricordo di mia mamma, di mio padre, e poi tante altre cose che per qualche ragione sono state consciamente o inconsciamente determinanti nella mia vita.

Sul restare impigliati: ha anche affermato che nel girare questo film ha corso il rischio di rimanere attaccato al dolore delle storie altrui e al suo.

Sì, nel girare questo film è successo.

Non posso chiederle di parlarmi del suo dolore, le devo domandare però di quella leggerezza infinita del suicidio che porta sullo schermo. È semplicemente un lasciarsi andare. Lieve.

Proprio così.

Il rischio arriva per lei fino a lì?

(Altra pausa) Ora non ho tanta voglia di parlare di cose così intime. Sì, comunque la risposta è sì.

In Parthenope il miracolo è verbalizzato più volte.

Sì, in questo film si parla anche del miracolo.

Non è l’eccezionalità dei fenicotteri posati sulla terrazza a cambiare la vita di Jep Gambardella. Quella di Titta di Girolamo ne Le Conseguenze dell’amore si ribalta invece per un incontro apparentemente irrilevante, con la giovane barista. Come diceva Lello Arena a Massimo Troisi nel famoso sketch, c’è “il” miracolo, e… il miracolo.

Mi ricordo quello sketch, molto bello.

A proposito di Troisi: nel 1991 gli scrisse per lavorare insieme. C’è un personaggio dei suoi che gli avrebbe chiesto di interpretare?

Non ci ho mai pensato, ma sicuramente sì. Troisi era un attore strepitoso. Purtroppo è morto che io ancora non avevo cominciato a fare questo lavoro. Ma se ci penso ne trovo diversi, tanti. Oggi avrebbe settant’anni o giù di lì. Quindi per me che spesso faccio personaggi anziani… sì, avrei chiesto a lui.

Per chi ha fede il miracolo spesso è guarigione. Nella scena con il vescovo Tesorone: nel suo momento più sordido e al tempo stesso sublime, Parthenope guarisce da qualcosa?

Se guarisce non lo so. Quella scena ha a che fare con un tema che mi piace molto in generale: la seduzione.

Come mai la affascina questa dinamica?

Perché il mio punto di vista è che qualunque tipo di rapporto è comunque un rapporto di forza. Anche in quello che abbiamo instaurato lei e io ora, per questa intervista: lei mi fa delle domande, io con grande disinvoltura posso risponderle che non ho voglia di parlarne. Se facessi una domanda io a lei, forse lei si sentirebbe in obbligo invece di rispondermi: in pochi minuti abbiamo già stabilito una disparità. E la seduzione è lo strumento più bello – perché è gentile, è intelligente, è vitale, è dinamico - tra i modi in cui si declinano i rapporti di forza tra le persone.

Un sacerdote che seduce Parthenope.

Quello che mi interessava era la sfida di seduzione posta in essere da un uomo che non è affascinante secondo i canoni estetici classici. Capire come poteva riuscire nell’adoperare la sua intelligenza nel convertire al sesso una donna. A Tesorone viene facile perché è allenato a convertire. I religiosi convertono le anime, lui replica questa operazione con Parthenope. E però...

Però?

Come avviene anche nella religione, puoi convertire uno solo se lui ha già deciso di farsi convertire.

La scelta quindi è al femminile?

In realtà è Parthenope che lo seduce: sceglie di stare al gioco dell’intelligenza che lui mette in atto. E quindi anche il seduttore par excellence è un seduttore nella misura in cui è innamorato della seduzione e viene sedotto da chi apparentemente sta subendo la seduzione.

Perché è solo durante il sesso che il sangue di San Gennaro si scioglie?

Perché quando il gioco della seduzione riesce è un miracolo. La maggior parte delle persone commettono errori quando seducono. C’è chi scade nel cattivo gusto, chi fa una mossa sbagliata… io questa scena dovevo scriverla e quindi ho avuto la possibilità di correggere gli errori che farei nella vita. Mi è sembrata una soluzione così perfetta che il miracolo doveva compiersi.

Un altro tema enorme del suo film è legato all’antropologia e - come si scopre verso la fine - al «vedere le cose». Vedere bellezza anche nella deformità della creatura di acqua e sale.

(Mette la mano sul libro tra noi) A un certo punto in questo romanzo Céline descrive la bellezza di una donna che dorme ed è ancora più bella proprio perché russa, pure se il russare non ha niente a che vedere con la bellezza comunemente intesa. La penso esattamente così. Da qui sono partito per scrivere Parthenope.

Cioè?

Lei e io stiamo chiacchierando, ma io non la troverò bella finché lei non farà qualcosa che ha a che fare con l’imperfezione. Se farà qualcosa di goffo, dirò “ecco, è bellissima”. La bellezza per me è uno scarto rispetto a quello che ci si aspetta. La deviazione. Improvvisa. Questo è quello che mi fa sussultare. A questa bellezza non si può far altro che cedere e basta.

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